‘cause I’m: “Hey Teen!”. Minimo annuario discopatico.

Esiste solo una cosa più da sfigati che comprare “Dookie” in CD nel 2018 e ben dopo aver compiuto i trent’anni: macchiarne il libretto con la zuppa di verdure. Surgelata.

È con questa consapevolezza che mi accingo a riferire pillole musicali dell’anno ormai trascorso, che ha visto meno lutti di quello andato (anche se Vinnie Paul…) ma anche meno dischi memorabili. D’altronde il ’18 è l’anno della vittoria, ed è fisiologico rilassarsi un po’. Dite di no, che non ci rilassiamo proprio per niente? Oh beh, peggio per voi: io ho “Dookie”. Sì, beh, quasi.

Auguri.

Dischi notabili

1. JUDAS PRIEST – FIREPOWER
Ne ho scritto a caldo qui e confermo tutto. Dal vivo a Firenze, poi, i pezzi nuovi non hanno per nulla sfigurato a fianco dei classici, e questo vorrà pur dire qualcosa. Col passare del tempo e degli ascolti il valore dell’album si è normalizzato, ma resta comunque la migliore uscita dei Priest dai tempi di “Painkiller”, confermando che proprio quando è data per spacciata la formazione inglese dà il meglio di sé. Il futuro è ignoto, ma un simile congedo discografico sarebbe un trionfo.

2. VISIGOTH – CONQUEROR’S OATH
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Del quintetto di Salt Lake City e del suo secondo LP non si dirà mai abbastanza bene: heavy metal epico in senso tradizionale, possente ma non troppo veloce, zeppo di cori pensati per infondere coraggio sul campo di battaglia e di fraseggi di chitarra armonizzati che allargano lo spazio come un coro in una cattedrale gotica, prodotto al meglio ma con in mente la tradizione (“si sente che anche il produttore era in cotta di maglia!“, l’immortale commento di un amico), non troppo lungo e sempre memorabile (anzi, quasi sempre, Salt City un boogie trascinante ma stilisticamente e tematicamente fuori luogo). Non a caso griffato Metal Blade. Se non il disco dell’anno, senz’altro nel Valhalla con i migliori.

3. LUCIFER – LUCIFER II
Qui

4. THE 16 EYES – LOOK
Qui

5. THE MORLOCKS – BRING ON THE MESMERIC CONDITION
Qui

6. THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA – SOMETIMES THE WORLD AIN’T ENOUGH
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Neanche dodici mesi dopo l’ultimo album (di questi tempi, converrete, fa notizia, se uno non si chiama Ty Segall), i cinque svedesi tornano con il quarto LP in sei anni, confermando l’ottimo stato di salute di cui godono. La struttura è la solita: apertura con un brano tirato di hard rock simil-Seventies; prosieguo con addolcimenti tastieristico-melodici; singolo effettivo o potenziale in terza-quinta posizione; dosaggi variabili degli ingredienti predetti fino al congedo, preferenzialmente affidato a una stesura articolata ed evocativa. Però funziona anche stavolta; rischiando qualcosa nell’aggiungere ulteriore patina medio-ottantiana a una formula collaudata ma riscuotendo appieno i profitti del rischio, e basti a conferma il solo lato A dei quattro: This Time straccia i Rainbow post-Dio al loro stesso gioco, Turn To Miami si regge sui chiaroscuri di indolenza sensuale e pericolo tropicale evocati già dal titolo, Paralyzed riscrive in melius gli anni Ottanta dei Doobie Brothers e la title-track è purissimo e scintillante AOR come non se n’è sentito quest’anno. Io continuo a preferire il precedente “Amber Galatic”, ma qui siamo al vertice del catalogo del gruppo e del genere; ammesso che sia uno solo. Il catalogo.

7. THE CREATION FACTORY – THE CREATION FACTORY
CREATIONFACTORY
Quest’anno le sonorità di area Sixties non hanno dato frutti migliori di questo quintetto californiano alla prima prova sulla lunga distanza, che, complice una ragione sociale inequivocabile, un’immagine filologicamente ineccepibile e una produzione manieristicamente perfetta, mette a segno una delle uscite di area più godibili del giro intorno al sole. Un Bignami, potremmo chiamarlo; perché c’è dentro molto di ciò che conta: i Beach Boys in You Be The Judge, i Rolling Stones in Girl You’re Out Of Time, i Kinks in I Don’t Know What To Do e Why Can’t You Make Up Your Mind, i Them in I Want To Be With You, i Creation in Without You, i Byrds in Spring Ain’t Gonna Let You Stay e i 13th Floor Elevator in Hallucination Generation. Il tutto filtrato attraverso la sensibilità della quarta generazione di revivalisti dei Sixties, che ha assimilato ciò che è accaduto medio tempore ma resta fermamente intenzionata a riportare in vita al meglio possibile l’aura quantomeno sonora del decennio principe del rock. Revival o meno, il risultato è eccellente per scrittura, esecuzione e resa. Non resta che ascoltare e sperare silenziosamente che il debutto non diventi anche la tomba dei Creation Factory.

8. GHOST – PREQUELLE
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Un perfetto esempio di somma paraculaggine musicale, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost. Lima le asperità del precedente e vincente “Meliora” con una carta di grana fina che chiama in causa gli anni Ottanta di Def Leppard e Savatage, ma anche ABBA e Pet Shop Boys, per imbastire un vero e proprio blockbuster, pensato per essere un “Trash” o un “Hey Stoopid!” del terzo millennio, e riuscendoci perfettamente. Il plauso è stato ampio ma non generale, e ognuna delle opinioni non è implausibile. Certo è che la prestazione dei musicisti e del cantante è ancora una volta superlativa. Certo è che la scrittura è stata raffinata ai massimi livelli. Certo è che l’immagine, ancora una volta reinventata dal diabolus ex machina Tobias Forge, funziona e affascina come prima più di prima. Certo è che un singolo incisivo come Dance Macabre il rock non lo sentiva da tempo. Certo è che i Ghost sono i principali candidati a fare da headliner ai festival estivi dei prossimi anni, quando i veterani via via si ritireranno. Certo è che “Prequelle” ce lo si gode. Last but not least per merito della produzione di Tom Dalgety, capace di tenere insieme arrangiamenti articolati ed esigenze commerciali odierne, e del missaggio di un veterano del calibro di Andy Wallace, che dosa sapientemente la densità dei singoli strati sonori, adagiandoli l’uno sull’altro fino a fonderli in un unicum pieno ed avvolgente. Un capolavoro di professionismo, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost.

9. TH’ LOSIN STREAKS – THIS BAND WILL SELF-DESTRUCT IN T-MINUS
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Dopo quattordici anni da un debutto, “Sounds Of Violence”, che aveva fatto sobbalzare non pochi adepti del più selvatico sound garagistico, i quattro di Sacramento sono infine tornati insieme nel 2010 e quest’anno, dopo un acclamato tour europeo, hanno messo insieme un secondo album, anch’esso edito per la solita Slovenly Records e anch’esso selvaggio e urgente come ci si poteva aspettare dalle Scie Perdenti. Ma “This Band…” non è un calco del suo predecessore, perché inietta nella formula di sgangherato rock ‘n’ roll del gruppo una vena distintamente danzereccia e un senso della melodia di matrice mod che, se a tratti smorzano il flusso di elettricità, nondimeno conferiscono all’album una sua identità in un panorama anch’esso ormai fattosi affollato. Lo si può definire freakbeat, merce non particolarmente frequente in terra americana, e se uno come Tim Warren si prodiga a definirlo il migliore inciso quest’anno ci si può accodare senza troppe remore. Ciò che conta, dopotutto, è che la scrittura si mantenga di livello per tutte le tredici tracce, e questo disco, forte dell’adrenalina fuzzosa di (This Man Will Self-Destruct In) T-Minus, dell’esuberanza mod di You Can’t Keep A Good Man Down, dei richiami ai Creation di Order Of The Day e di quelli ai Kinks di  Falling Rain, lo fa. Non perfetto ma potentissimo e sempre coinvolgente, il secondo album dei Th’ Losin Streaks svetta per la splendida copertina, senza dubbio la migliore dell’anno. Avercene, di band che si autodistruggeranno così bene.

10. THE MARCUS KING BAND – CAROLINA DREAMS
marcus king band - carolina confessionsTerzo LP e terzo centro per la formazione del chitarrista e cantante del South Carolina, che a ventidue anni dimostra un’abilità di scrittura e una padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi a dir poco sbalorditive. Ancora una volta tiene banco il Sud, principale serbatoio musicale americano e quindi inesauribile fonte di ispirazione per chi voglia mettersi dietro a un microfono con una chitarra in braccio. E the South does it again su “Carolina Confessions”, titolo che cita i sogni della Marshall Tucker Band (che però muoveva dal North Carolina) e scaletta parimenti da sogno con la partenza inarrivabile di Where I’m Headed, le acustiche degli Allman post-Fillmore che convivono sorridenti con i fiati di Otis Redding, e il prosieguo affidato al dramma di Goodbye Carolina, dove il country di Alan Jackson (Midnight In Montgomery) è trafitto al cuore da una slide carica di pathos come quella di Warren Haynes. E da qui in poi, tra il soul ancheggiante di Homesick, l’inchino ad Ike e Tina di How Long, il sofferto lirismo blues di Confessions e lo sterrato imboccato per fuggire da Memphis sulle note di Welcome ‘Round Here, niente è meno che meraviglioso. Un atto d’amore verso il southern rock che nulla ha di nostalgico o didascalico e molto, anzi tutto, di sincero e sentito. Probabilmente il disco dell’anno, e in ogni caso una plausibile ragione per ritenere migliore soffrire e trascorrere sotto un cielo blu a cinquanta stelle anziché sotto uno rosso a cinque.

Altre pillole di 2018
Immortal – All Shall Fall
: manca Abbath ma non conta nulla, perché è tornato Demonaz e i suoi riff thrasheggianti esaltano come non hanno potuto fare in questi years of silent sorrow. Non ci si crede che sia così consistente, eppure lo è; come il male, quello vero. Sento solo freddo, tanto freddo, fuori e dentro me.

Cranston – II: le parti strumentali di chitarra e tastiera sono in mano a Paul Sabu, uno che sa quello che fa. La voce, appartenente a tale Phil Vincent, sfoggia credibilmente un timbro ruvido e bluesy simile a quello che David Coverdale ha ormai perduto. Nel mezzo un valido esercizio di hard rock melodico, che bascula in zona hard blues ma non per questo disdegna l’AOR più virile. Uscita sottotono ma seconda a nessuno dei monicker più blasonati del genere.

Monstrosity – The Rise To Power
Una gradita sorpresa. Non che ci siano dubbi se ascoltare questo o “Millennium”, ma fa piacere saperli ancora vivi e ancora in forma, capaci di declinare il classico suono brutal death della Florida senza cadere negli opposti tranelli del revivalismo e dell’ultratecnicismo iperprodotto. Solo la morte resta uguale a se stessa, dopotutto. La morte, appunto.

Blackberry Smoke – Find A Light: I soliti grandiosi georgiani, leggermente più tirati a lucido di prima ma sempre a fuoco nella scrittura e nell’esecuzione. È legittimo preferire ciò che è venuto prima, ma i Blackberry Smoke restano il migliore gruppo southern rock al mondo (o magari il secondo, dopo la Marcus King Band).

L’altro 2018
The Feelies – Crazy Rhythms

Il primo vagito del college rock. Praticamente i Television risuonati dai R.E.M. con Maureen Tucker alla batteria, mentre i Weezer sbavano tra il pubblico. Forse il più sconosciuto classico del rock. Chissà perché, poi.

Greg Guidry – Over The Line
Chiamiamolo yacht rock ché va (ancora) di moda. Ma scritto bene, arrangiato meglio, eseguito a livelli stratosferici e prodotto come non si fa più. Il fatto che non sia reperibile in digitale se non da un paio d’anni scarsi dice chiaramente che non è un disco per tutti, ed è giusto e bene così.

Orchid – Capricorn
Per tanti è passato senza lasciare traccia, archiviato nell’affollata sezione di cloni dei Black Sabbath. A me ha lasciato un segno, e non so spiegare perché; forse perché condensa meglio di qualunque altro disco mi venga in mente il lato che preferisco di Iommi & co., quello della potenza poderosa e dell’impietosa ineluttabilità, e tanto mi basta a preferirlo negli ascolti a “Volume 4” e “Sabotage”, nientemeno. Sarà campanilismo zodiacale. Tenere un blog di musica mica è necessario, in effetti.

The Gruesomes – Gruesomania
Il migliore album garage di quelli non usciti negli anni Sessanta, e anche con quelli è battaglia serrata. Provateci voi ad ascoltarlo senza fare casino (rumore o altro).

Billy May –  Johnny Cool Soundtrack
Uscito nel 1963, “Johnny Cool” è un omaggio anni Sessanta alla stagione più feconda del noir, gli anni Cinquanta, e, nonostante il cast prestigioso e la regia solida, è poco più che il giusto intrattenimento per una serata qualunque. La colonna sonora, però, è opera di Billy May, uno dei più grandi arrangiatori dell’era swing e oltre, e ha quindi assunto una minuscola dimensione di culto per la sua capacità di affrescare vividamente le atmosfere stilose, minacciose ma invitanti, del noir con un precisissimo dosaggio dello spettro tonale e una padronanza somma della dinamica. Praticamente tutta strumentale (tranne la ballata finale, intonata da Sammy Davis Jr.) e affidata alla versatilità di una big band, questa colonna sonora è jazz per jazzofobi, noir per sorridenti, classe a buon mercato; non ne starei parlando, altrimenti. Ottimo il suono dell’edizione in CD su Ryko (l’unica etichetta che fa le jewel case verdi).

Damnatio memoriae
Incertum habeo
eccetera, quindi fate voi. Mi limito a rilevare che oggi, dopo tutti questi anni, ho finalmente capito perché quella volta al referendum ha vinto la repubblica: perché l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re. E comunque quest’epoca streamingzita fa schifo.

Summer’s almost gone…

…e quindi sono stato a fare scorta. Eccone il resoconto, con l’avvertenza che da queste parti, un centinaio di anni fa, Hemingway veniva ferito in combattimento, e che quindi write drunk, edit sober resta un’opzione perfettamente in linea con il genius loci. Si parte.

Heart – Heart
heart-heart

Solo per rimpiazzare la mia copia vinilica, una stampa portoghese comprata per due soldi alla Feira da Ladra anni addietro. Perché certe cose suonano meglio se sanno di plastica, si sa; e se non lo si sa, basta guardare la copertina, che da sola vìola come minimo il Protocollo di Kyoto. Ma che suoni, signori! Una glassa, di quelle capaci di coprire il gusto se non si fa attenzione con i dosaggi, rilega il tutto, conferendogli quella patina affascinante che avvince inscindibilmente immagine, suoni e musica, legandoli al periodo storico di emissione. Ma la musica è il fattore dirimente, ed è qui di alto livello, non un brano meno che di immediata memorizzazione grazie alle corde vocali seriche e alla performance stellare della solita Ann Wilson nonché a una scrittura che saggiamente chiede aiuto all’esterno, conscia che le buone idee non sono monopolio di alcuno e meno che mai a Seattle. Sulle fortune commerciali del Cuore numero due vi rimando a fonti più competenti, significando, tuttavia, che ci troviamo in zona podio dell’aor e che l’opera di Ron Nevison in fase di produzione, uno per cui la qualifica di esperto dello studio di registrazione è alquanto riduttiva, tocca qui uno dei suoi apici. E sì, per larghi tratti suona meglio in CD (ma i mixaggi delle due stampe analogica e digitale sono rilevantemente diversi, senz’altro in Never; ascoltare per credere). Nove corrusche istantanee dalla scala mobile che rallenta; magari l’ha fatto anche per fermarsi a contemplare Ann e Nancy. Tira più un eccetera eccetera.

Kinks – The Ultimate Collection
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Prima sorelle, ora fratelli. Cos’altro si può aggiungere sui due Davies che non sia stato già scritto o detto? Nulla. Solo, onestamente, che, per quanti non si scoprano hardcore fan e si sentano quindi in dovere di procurarsi la cospicua opera omnia dei quattro inglesi, questa doppia raccolta è uno dei migliori modi, se non il migliore, per divenire membro onorario della K.I.N.K.S. Appreciation Society KBE. Dentro vi sfilano quarantaquattro dei brani più celebri dei Kinks, e alla lista manca davvero poco, anche se i dischi “narrativi” della seconda metà degli anni Sessanta sono nel complesso sottorappresentati (un titolo su tutti: Drivin’ da “Arthur”). Ma lagnarsi non è possibile, ché qui si hanno le radici del nostro bitt (Death Of A Clown, ma senza struggimenti, perché un fiore appassisce quando pensa all’autunno) e del Brit pop (negli “and I see you and you see me” di Wonderboy gli omofoni di She’s Electric degli Oasis con venticinque anni di anticipo), del garage (All Day And All Of The NightI Gotta Move e tutto il resto) e dell’hard rock (You Really Got Me; mi spiace, Eddie e Alex: vincono loro, Ray e Dave), e più in generale molteplici delizie di prim’ordine selezionate accuratamente. E scusate se è troppo.

Down – NOLA
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Né più né meno che un classico realizzato da una formazione classica. “I Black Sabbath alle prese con l’umidità della Crescent City” (espressamente omaggiata nel titolo) potrebbe essere un buon riassunto del contenuto, ma peccherebbe per difetto, omettendo di dar conto del grande balzo in avanti che questo dream team formatosi quasi per caso è riuscito ad imprimere ad un genere, il doom metal, altrimenti arroccato in vizze ancorché fascinose coordinate tralatizie. Si potrebbe dire che con “Nola” si passa definitivamente (?) dal doom allo sludge, che non a caso significa “fango” e qualcosa sul genius loci del luogo di provenienza del genere deve pur dircelo. Senonché non si tratta solo di importanza storica (anno 1995), perché il disco è un capolavoro di composizione hard ‘n’ heavy, riff elefantiaci che progrediscono con insospettabile leggiadria e intenzioni viceversa chiaramente bellicose, mentre l’ugola di Phil Anselmo si produce in una prestazione che è non solo l’ultima cantata (dal verbo “cantare”) della sua carriera, ma anche una delle migliori in assoluto. E c’è persino spazio per un singolo, Stone The Crow, da dare in pasto alla Generazione X che vagheggia di andare oltre ma che, quanto al rock, più di un aggiornamento di punk e metal non ha saputo realizzare. Brutte notizie, peccatori: il Messia è tornato. Sta a Nòrleens, fuma Blue Dream e madido di sudore ondeggia mollemente la testa, sorridendo beota ai nipotini di Tony Iommi. Pentitevi finché siete in tempo.

Sleep – Sleep’s Holy Mountain
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Come sopra, ma stavolta siamo nella California del nord, il cui clima è un toccasana per certune realizzazioni botaniche. Niente allucinazioni desertiche da sole rosso, dunque, né frenesia futurista da valle del silicio. Qui dominano rigogoglio umido e lunghe ombre sinistre, proiettate da oggetti di cui non si intravede l’esatta forma ma pur sempre in grado, all’occorrenza, di coprire ogni raggio di luce di provenienza esterna. Si tratta perlopiù di paesaggi dell’anima, resa ricettiva come sappiamo e meno male ché i nostri sono solo in tre. Riff oscuri ma inconfondibilmente bluesy, controtempi ritmici bene assortiti, sui tamburi tocchi ora felpati ora squassanti stile Ward, misticismo lirico, esperimenti con pedali ed effetti chitarristici; ma soprattutto tempi e spazi dilatati, a preconizzare il delizioso delirio del seguente ed eloquente “Dopesmoker”. In breve: lo stoner parte da qui.

Herbie Hancock – Fat Albert Rotunda
herbie hancock - fat albert rotunda
Dipartita dal variegato jazz (vicino all’hard bop prima, sperimentale con Miles Davis poi) dei Sessanta, in anticipo sull’elasticità funkeggiante dei primi Settanta e ben lungi delle sperimentazioni elettroniche che verranno e porteranno a Herbie Hancock grande successo, “Fat Albert Rotonda” nasce come colonna sonora per “Hey, Hey, Hey, It’s Fat Albert”, un lungometraggio ibrido di animazione e attori dal vivo incentrato su Fat Albert (da noi Albertone), nero corpulento e sorridente che interagisce con i suoi amici in avventure picaresche e slapstick, come pure con Bill Crosby in carne ed ossa, che presenta lo show e doppia i personaggi. Quando Hancock pubblica il disco corre il fatidico 1969 e si sente, perché frequentemente i fiati starnazzano e si imbizzarriscono sul groove granitico e gommoso allestito dal basso e soprattutto dalla batteria di Albert “Toothie” Heat, e neanche le divagazioni del leader al piano elettrico, il marchio Warner Bros. e la produzione di Rudy Van Gelder riescono a tenere fuori dal disco la ruvidezza delle strade del ghetto, da cui, del resto, questa musica trae la prima e principale ispirazione. Ne escono trentotto minuti strumentali di funk-jazz intenso e trascinante, con occasionali aperture soul e l’atmosfera di creatività poliedrica della cultura nera di quel periodo restituita intatta nel fermento e nel fascino. Potrebbe quasi essere un disco da isola deserta; Cantaloupe, naturalmente.

Alice In Chains – Dirt
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Ne torno nuovamente in possesso, dopo che una furia destruens di qualche anno fa mi aveva spinto a liberarmene incerimoniosamente senza reale motivo. Sul contenuto non c’è molto da dire, se non che è il solito classico del rock anni Novanta, talmente perfetto da sembrare un greatest hits. La disperazione si sente meno che su “Facelift” e sul seguente “Jar Of Flies”, ma l’afflato emotivo nella voce di Layne Staley è tutt’altro che assente o finto. Se proprio vogliamo muovergli una critica, diciamo che suona troppo “leccato” e da classifica e troppo poco terroso e terreo. Ma io non me la sento, onestamente; non oggi, quantomeno. E in ogni caso questo è il periodo giusto per fare proprio un nuovo disco degli Alice In Chains, nuovo o meno che sia.

Johann Sebastian Bach – Concerti Brandeburghesi 1-6 – Musica Antiqua Köln, Reinhard Göbel

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Al tempo di pubblicazione, anno Domini MCMLXXXVI, questa edizione dei sei Concerti Brandeburghesi destò grande scalpore per l’inaudita velocità esecutiva con cui gli spartiti bachiani venivano riproposti, tanto che non poche critiche piovvero in capo all’ensemble coloniese e, soprattutto, al suo giovane ma già famoso direttore, Reinhard Goebel. Si rimproverava a costui un’esecuzione eretica, inutilmente ed ottusamente virtuosistica, lontana da ogni canone filologico della tradizione interpretativa del corpus forse più elevato del barocco. Una volta di più, però, il tempo è stato galantuomo, ed oggi si riconosce pacificamente alla versione “anfetaminica” dei Musica Antiqua Köln il valore di spartiacque esecutivo, rispettoso del rigore filologico ma al tempo stesso capace di conferire nuova linfa all’approccio interpretativo libertario inaugurato da Karl Richter a Monaco nel 1964, valorizzando al massimo la forma del concerto in tre movimenti (a parte la controversa decisione di includere anche il quarto movimento “Minuetto – Trio I – Polacca – Trio II” del primo Concerto, da taluni ritenuta un’aggiunta apocrifa), secondo gli intendimenti originari dello stesso Bach, e consegnando ai posteri una pietra miliare nella storia dell’esecuzione del repertorio barocco, incorniciata da una resa sonora di altissimo livello (merito della ristampa della serie Masters della Archiv, che incrementa ulteriormente il già alto nitore dell’edizione originale in digitale; avendo ascoltata anche quest’ultima, concessami in prestito tempo addietro, sono in grado di fare alcuni paragoni) e da un libretto in tre lingue esaustivo sulla genesi dell’opera e le scelte filologiche dell’esecuzione. Ma questa è la parte tecnica; per quanto riguarda la restante parte, mi congedo osservando che, limpida e rigorosa, virtuosa ed emozionante, la musica dei Concerti Brandeburghesi riflette l’anelito trascendente che spesso, per non dire sempre, mosse Bach alla composizione. Comporre musica per avvicinarsi il più possibile a Dio; un movente su cui, in tempi di streaming, potrebbe essere non inopportuno riflettere.

MC5 – High Time
mc5 - high time

Un orologio rotto segna le cinque. L’ora del tè, anche a Ann Arbour, Michigan. Quando si interrompe ciò che si sta facendo, che sia la rivoluzione o altro, e ci si raduna in un salotto per bere una tazza e conversare. Passa-tempo alto, appunto. Come questo scorcio di 1971, la rivolta ormai sedata ed anzi in larga parte collassata su se stessa e il ripiegamento delle rivendicazioni dal piano collettivo a quello individuale. Cose già note dalle parti degli MC5. Ma questo colpo di coda finale, al netto dell’amarezza nel vedere la band più riottosa d’America imborghesirsi sino ad implodere rapidamente, è un saggio di rock ‘n’ roll bruciante nell’impeto e nell’afflato emotivo, forse proprio per la consapevolezza della sconfitta, ma stilisticamente capace di spingersi oltre all’elaborazione precedente (la marcetta fiatistica che chiude gli oltre sette minuti di boogie indiavolato di Sister Anne, il gospel che incontra i Lynyrd Skynyrd di Baby Won’t Ya, i Bad Company a passeggio nei giardini della mente di Future/Now, il free jazz ‘n’ roll per cavernicoli della conclusiva Skunk (Sonicly Speaking)), dimostrando che anche tra i rivoluzionari signori si nasce e gli MC5, modestamente, lo nacquero. “Kick Out The Jams” è il documento storico del Sessantotto che sappiamo e “Back In The U.S.A.” il successivo riuscitissimo ritorno a casa, ma di stare senza “High Time” non ne vale la pena.

Pretty Things – S.F. Sorrow
pretty things - s.f. sorrow
Il primo concept album inequivocabile che gli annali del rock ricordino (dicembre 1968; Tommy chi, quello del maggio del ’69?) vede i Pretty Things staccarsi dai fragorosi lidi di alcolico rhythm & blues che alla metà del decennio li avevano visti crescere ruspanti ma validi adepti di Animals e Rolling Stones per avventurarsi in mari in cui domina ormai la scoperta della psiche umana e delle sue tortuosità. Infatti la musica di “S.F. Sorrow” è lontana anni luce dal selvaggio jungle beat del passato e si ammanta di coltri cangianti, ora spesse ora impalpabili ma sempre evocative ed ammalianti, per narrare la storia di Sebastian F. Sorrow, uomo qualunque d’Inghilterra costretto ad attraversare abissi personali a loro volta incastrati in, o direttamente causati da, catastrofi storiche e proprio per questo condannato a vagare nella vita privo di ogni speranza e senza nemmeno ricordare come ci è finito, in questa situazione; prototipo dei Tommy e degli Arthur a venire e dunque anti-eroe par excellence e icona popolare ma non necessariamente popular del martire dell’industrialismo. Non è però il solo fil rouge narrativo, innovativamente monotematico, a rendere il disco di importanza storica, perché il contenuto musicale non è da meno: le trame acustiche non contrastano con occasionali ostentazioni di virilità, gli archi rafforzano anziché affossare (merito di Abbey Road, probabilmente, ma io non riesco a non paragonare questo aspetto di “S.F. Sorrow” a “Forever Changes” dei Love, parimenti portato in trionfo proprio dalle sapienti orchestrazioni), i cori tappezzano e il fuzz sulle chitarre colora e spiega invece di coprire tutto e fungere da alibi. L’influenza scarafaggesca si sente eccome (sarà lo studio di registrazione?) e certo non è un male, ma la presenza di menti creative come Twink (ex leader dei Tomorrow e poi solista), Phil May e Dick Taylor, oltre che del produttore Norman Smith, mantiene l’album a debita distanza da tutto quanto l’UFO Club e la Swingin’ London dischiudono dai loro petali multicolore, rendendolo, in ultima analisi, una delle perle creative più sottovalutate di quella irripetibile stagione. Un capolavoro, nelle molteplici accezioni del termine. E con buona pace del povero Sebastian F. Sorrow.

Laura Nyro –  Time And Love: The Essential Masters
laura nyro

Ve lo racconto un’altra volta, ché l’estate sta finendo. Comunque qui si gode così così, come con una dose tagliata troppo e male. Meglio di questa raccolta sono gli album, specialmente “New York Tendaberry”; cercate quelli e, trovatili, non vi mancherà nulla. Ma a quel punto sarà già inverno.

Andergraund Saund 6

bee bee sea - sonic boomerang

BEE BEE SEA – SONIC BOOMERANG
Balza subito all’occhio che il nome del gruppo, tradotto letteralmente, significa “ape ape mare”, ma, foneticamente, anche (molto) altro. Questo trio mantovano ama i calembour e non ne fa mistero in “Sonic Boomerang”, uscito nel 2017 e zeppo di titoli accattivanti come “D.I. Why Why Why” o “Chum On The Drum“. Ma non sono solo i nomi dei brani o la caleidoscopica copertina a catalizzare l’attenzione, perché le otto canzoni di cui si compone questa seconda fatica discografica del gruppo costituiscono un gioiellino di rock che si districa tra ruvidezza garage, psichedelia della più accessibile e pop di ascendenza mod. Un frullato di Ramones, Jam, Mojomatics, Libertines, White Stripes e primi Stereophonics, si può dire. Non che tutto ciò non sia mai stato fatto prima e/o meglio, ma questo “Sonic Boomerang” resta grazioso, piacevole, coinvolgente e di consistente qualità per tutta la sua non eccessiva durata, ed ottiene proprio l’effetto che il suo titolo si prefigge: finito il giro si torna indietro e si ricomincia da capo. Scoperta sorprendente e certificazione del buono stato di salute del sottobosco italico, i Bee Bee Sea sono in tour per la penisola in questi giorni, e se vi capitano sotto tiro fare loro visita potrebbe rivelarsi un’idea migliore di quanto questo scritto non suggerisca. Per fugare i dubbi ci si rechi qui.

trick or treat - reanimated

TRICK OR TREAT – RE-ANIMATED
Il power metal è intrinsecamente musica da réclame degli gnomi che impacchettano i wafer, e i cartoni animati giapponesi contengono sigle che rimandano al medesimo senso di pacchianeria over the top, melodicamente accattivante, ritmicamente avvincente ed intrisa di un’epicità d’accatto ancorché irresistibile. E quindi era solo questione di tempo prima che questi due mondi si incontrassero, attesa anche l’abbondante sovrapponibilità tra i due pubblici di estimatori. Di questa chiusura del cerchio si incaricano i modenesi Trick Or Treat, che, forti di solide capacità tecniche, realizzano un progetto che non potrà non far sorridere i millennials cresciuti con il peggio (o forse il meglio) delle importazioni televisive di due-tre decenni addietro. E, nonostante alcune scelte “populiste” (Jem e le Olograms che ok però; Ken il Guerriero, quando al genere e all’operazione avrebbe maggiormente giovato la scelta della sigla in giapponese della seconda serie; Jeeg Robot d’acciaio), il disco funziona, tra soluzioni indovinate (Batman con chitarre maideniane in relativa e l’ottimo duetto tra Alessandro Conti e Roberto Tiranti; David Gnomo amico mio, già pubblicata in passato), una ricca messe di ospiti (oltre al citato Rob Tyrant, il guru del genere Giorgio Vanni, Michele Luppi, Steva Deathless dei Deathless Legacy, Michele Luppi, Damnagoras degli Elvenking e altri ancora) e, in generale, un’atmosfera di divertimento puro, tanto nell’intento quanto nella realizzazione. Ovviamente si possono avanzare mille obiezioni sulla scelta dei brani (ad esempio, io avrei incluso He-manConan – il barbaro, non il detective – ma sono gusti), però il senso e la riuscita dell’operazione non si sposterebbero di molto. Per una metà maideleine proustiana e per l’altra fanciullino pascoliano, “Re-Animated” funziona proprio per questa tensione tra nostalgia e passione, comunque filtrata attraverso il sano approccio ludico di cui si è detto, il quale, tuttavia, impedisce al disco di diventare qualcosa di più di un transeunte divertissement, obiettivo che forse nemmeno si poneva (e la realizzazione mediante crowdfunding sembra deporre in questo senso). Perché è vero che “mai, mai scorderai”, ma è anche vero che “il tempo passa per tutti, lo sai; nessuno indietro lo riporterà, neppure noi”. Coerentemente, non c’è un “qui” a cui in conclusione rimandare. (Ri)animatevi.

Andergraund Saund 5

NEW CANDYS – BLEEDING MAGENTA

new candys - bleeding magenta

Di realtà interessanti nel sottobosco musicale nazionale ce ne sono svariate, e dunque portarle all’attenzione dei lettori è solo questione di disporre del tempo necessario per scovarle, sviscerarle e scriverne. Ma quando all’orizzonte si palesa una scoperta, inattesa quanto folgorante, poterne far propaganda è un piacere prima ancora che un dovere morale. Per chi vi scrive, i New Candys sono questa scoperta.

Quartetto veneziano attivo dal 2008 e con un paio di singoli, un EP e due LP all’attivo, i New Candys si muovono nel variegato universo sonoro del rock indipendente con sicurezza e molto talento, e non è un caso se la loro mistura di Jesus And Mary Chain, shoegaze, grunge, Velvet Underground e certa psichedelia di ascendenza britannica (qualcuno, a ragione, ci sente i Black Rebel Motorcycle Club) ha attirato l’attenzione di una prestigiosa etichetta del settore come la londinese Fuzz Club. Proprio per i tipi di quest’ultima, infatti, ha visto la luce, il 6 ottobre scorso, “Bleeding Magenta”, terzo album e definitiva consacrazione della formazione. Non bastasse la stilosa copertina, in uno tenera e inquietante, le undici tracce che compongono il disco dimostrano una piena maturità compositiva e una totale padronanza strumentale, in cui i referenti sonori sopra citati sono amalgamati in maniera personale e, soprattutto, accattivante: le melodie non difettano mai, gli arrangiamenti fanno ottimo governo dell’alternanza dinamica e favoriscono la differenziazione dei brani, la produzione (opera del Fox Studio di Andrea Volpato) sottolinea ove necessario senza per questo comprimere la gamma dinamica e la resa fonica complessiva. Il risultato è un disco che avvolge l’ascoltatore in spire oniriche, trascinandolo in introspezioni qui dolci e là ruvide, ora torpide ora chiazzate di magenta color del rumore. E non se ne ha mai abbastanza.

Dire che è incredibile (massì, stupefacente) scoprire di avere un gruppo della qualità dei New Candys sotto casa senza che ce ne sia accorti prima (degli altri) è molto probabilmente banale, ma anche indicativo del torpore e del livellamento al ribasso tipici della contemporaneità. Qui si può evitare di commettere lo stesso errore per il futuro.

Attenti a quei due #1: vendemmia d’ira tra fauna d’Africa e nervi saldi.

Lo so, manco da un po’. Non che sia un male eh. Però non avevo molto da dire, nonostante lo svariato accaduto medio tempore, e dunque, memore dell’avviso del Padrino del Soul, ho pensato fosse meglio evitare di talkin’ loud and sayin’ nothing. Ora, però, è estate sul serio, e siccome sopravvivere all’estate è da sempre uno dei compiti più ardui che si richiedono ad un bipede, eccomi intento nell’arduo compito con l’accompagnamento fonografico a fungere da ala al folle volo. Roba vecchia, perlopiù, ma nuova, per i più. Chissà che possa fungere da ombra riposante anche per altri.

La scelta, questa volta, è caduta su due soli dischi, fra loro molto diversi ma attraversati da un filo conduttore. Entrambi, infatti, vengono dalla California di quella fine anni Sessanta dalla quale la musica popolare mai si affrancherà, e in un certo senso si prestano a dimostrare come quella scena fosse, ad onta di certi triti cliché su Haight-Ashbury, allucinogeni e flower power, in realtà musicalmente variegatissima, ancorché avvinta ad alcuni minimi comuni denominatori concettuali, non sempre commendevoli, come la solita ineludibile smania di profitto. Ideali e guadagno, utopia e divertimento, tra loro saldamente impastati, in maniera inestricabile e culturalmente inspiegabile per i non provvisti di lucidità abbacinante. Questo fu la California dei Sessanta, non la terra promessa che spesso ci piace vagheggiare per allontanare le miserie del contingente e circostante. Tanto vale ricordarsene, nel quotidiano e inane vaticinio dell’indomani dell’Impero, se biondo o biondo vero.

RHINOCEROS – RHINOCEROS (1968)
rhinoceros
Nato nel 1967 a Los Angeles dall’iniziativa di Paul Rotschild, all’epoca produttore e talent scout per l’Elektra, il Rinoceronte si mostrava già sulla carta un animale compatto e spaventevole, giacché solidamente assemblato con pezzi di Iron Butterfly (il chitarrista Denny Weis e il bassista Jerry Penrod), Buffalo Springfield (il chitarrista Doug Hastings), Mothers Of Invention (il batterista Billy Mundi), Electric Flag (il tastierista Michael Fonfara) e dei canadesi Jon and Lee & The Checkmates (il cantante John Finley). Assemblato, per giunta, sotto la ferrea supervisione dell’apparato discografico, e, quindi, lanciato a testa bassa verso un successo che si pronosticava ampio e quasi ovvio. E tuttavia, nonostante gli ingenti sforzi promozionali, l’omonimo LP di debutto, uscito nel 1968 (ovviamente per i tipi di Elektra) raccolse un mero e magro numero 46 su Billboard; né il tentativo dell’anno seguente, dopo numerosi riassestamenti della formazione, sortì maggior fortuna, perché anche il pure valido “Satin Chickens” non decollò, trascinando il nome dei Rhinoceros nel gorgo delle formazioni dei gloriosi Sixties californiani dimenticate ormai da tutti o quasi. Il che è un vero peccato, perché questo debutto è un’efficacissima sintesi della piega che il rock del Golden State stava prendendo nel segmento tra Monterey e Woodstock. E non tragga in inganno la copertina florofaunicola, strizzata d’occhio di prammatica alla psichedelia allora imperante (We‘re only in it for the money, ricordate?), ché in questi solchi domina una miscela riuscitissima di rock blues arcigno e soul sudista, come degli Steppenwolf che rifanno Otis Redding o Marvin Gaye facendo tappa a Macon, Georgia. E, tra le chitarre armonizzate, l’andamento felpato, e la voce seduttrice od urlatrice alla bisogna dell’iniziale When You Say You’re Sorry, il lirismo drammatico di That Time Of The Year, il groove “animoso” di You’re My Girl (I Don’t Want To Discuss It), il Wilson Pickett sotto amfe di I Need Love (rifatta dai Blues Brothers sarebbe stata un probabile hit) e lo strumentale da ballo Apricot Brandy (rivistato anche dall’eccellente e sfortunato Danny Gatton nel 1990), “Rhinoceros” si rivela una pepita luccicante e godibilissima, nonché una preziosa istantanea di quell’irripetibile momento in cui il rock si interrogava sul senso di categorie musicali (ma anche stricto sensu umane) come “bianco” e “nero”, sforzandosi di diventare musica “totale”, nuova senza perdere le radici, americane e africane. Come il vinile, come il rinoceronte.

COLD BLOOD – COLD BLOOD (1969)
Cold Blood
Tutt’altro che sangue freddo è la reazione suscitata dalla copertina, recante sì la scritta con il monicker del gruppo, ma anche la foto della sua leader de facto Lydia Pense, bellezza scioccante e non avete ancora sentito niente. Perché la signorina è in possesso di un’ugola sopraffina, capace di profondità bluesistiche allora inesplorate per un’adolescente bianca ed anzi no, perché a tracciare la via ci pensava, all’incirca alle stesse coordinate spazio-temporali (la Bay Area della seconda metà dei Sessanta), una texana di nome Janis, e sarà quindi all’ombra del paragone con la Joplin che si svolgerà la prima fase della carriera della nostra. Carriera intrapresa proprio fronteggiando i Cold Blood, formazione inusuale persino in quell’allucinato potpourrì in riva al Pacifico, vista la scelta di accompagnare i canonici strumenti rock con una sezione fiati completa, e infatti da subito paragonata (complici anche le frequenti osmosi tra le formazioni) ai più fortunati e noti concittadini Tower Of Power. Ed esattamente sulla scia di tali referenti la carriera dei Cold Blood si è protratta fino al 1976, e cioè all’insegna di un intenso pastiche di rhythm & blues, soul, funk, jazz e rock, porto in una formula dilatata ma mai slabbrata ed anzi col gusto di chi suona per il pubblico ed i suoi corpi prima ancora che per sé ed il proprio ego. Miscela riuscita al meglio nell’album di debutto, dove sette pezzi di durata (solo uno sotto i cinque minuti) tratteggiano il ritmo e le speranze dell’America giovane che vuole mettersi a capo dei suoi destini, superando le divisioni del passato; tentativo che già allora apparve per ciò che era, utopia, come certificato in apertura da un gospel di intensità emotiva quasi insostenibile e dal paradigmatico titolo I Wish I Knew How It Would Be To Be Free, ma anche da squarci blues come la bene che vada sorniona If You Will e la carezzevole Let Me Down Easy, per cui non resta che farsene una ragione e viversela bene, come sottolinea, con fiati ed organo, una You Got Me Hummin’ che sta tra Pickett e Aretha, e come certifica una I Just Want To Make Love To You così carica di groove sensuale da porsi ai limiti del pen…ale. Dopotutto è estate. Ma se saprete avere sangue freddo, quella di miss Pense sarà la voce più bella che le vostre orecchie sentiranno cantare quest’anno.

Disc-oboli

Resoconto delle ultime acquisizioni orgesche.

BAD COMPANY – COMPANY OF STRANGERS
Per tutti o quasi i Bad Company sono quelli di Paul Rodgers. Di più, quelli dei primi due LP. Di più, quelli del debutto omonimo, oggettivamente uno dei migliori album di tutto il rock anni Settanta. Quelli degli anni Ottanta, del cantante Brian Howe e della svolta AOR sono scansati come la peste o, al più, visti come un male necessario in quella decade critica per il rock classico, in attesa del ritorno, nel nuovo millennio, della formazione originale.
Lungi da me l’apologia della Cattiva Compagnia a conduzione Mick Ralphs-Simon Kirke, ma non ho tema di affermare che c’è della qualità, e non poca, anche nelle uscite post-Settanta. Questo LP, ad esempio; pubblicato nel 1995, “Company Of Strangers” smentisce il suo nome riprendendo il sound più veracemente hard dei primi Bad Company, dopo anni di sbornie patinate, ed aggiungendovi una punta di radici americane, a creare un’atmosfera western, nonché l’ottima voce del carneade Robert Hart, clamorosamente simile a quella di Paul Rodgers (e quindi eccelsa). Non un capolavoro, ma, vista l’assenza di pezzi realmente deboli, nemmeno un fiasco. Anzi, un buon modo per rendere piacevole un viaggio automobilistico, reale o immaginario.

CREATION – OUR MUSIC IS RED WITH PURPLE FLASHES
creation

Spesso considerati alfieri di seconda fascia della psichedelia britannica, i Creation in realtà si esercitarono con un sound che richiamava il beat e il rhythm & blues secondo l’approccio mod dei primi, contemporanei Who, con giusto qualche coloritura corale e strumentale a sancire che ci si trovava nel bel mezzo della Swingin’ London. E si adoperarono in maniera assai egregia, se si deve dar credito all’aneddoto che vuole lo stesso Pete Townshend chiedere al chitarrista Eddie Phillips di entrare nel suo gruppo. Nonostante qualche singolo promettente e due LP (pubblicati solo in Germania), alla qualità delle uscite non corrispose un riscontro di fama altrettanto intenso, e nell’ottobre del 1967 i Creation “classici” erano già storia (ma, con qualche assestamento di formazione, il gruppo sopravvisse sino all’anno seguente). Questa eccellente antologia raccoglie ventiquattro brani che ricostruiscono la parabola sfortunata ma esaltante del quartetto, in bilico tra freakbeat da ballo (Making Time, Try And Stop Me, Cool Jerk) e affreschi psichedelici (Painter Man, Nightmares, Can I Join Your Band), con alcuni omaggi ben assestati (la rilettura di Hey Joe è lì-lì con la versione hendrixiana, e Like A Rolling Stone si conferma delizia anche in elettrico). Un documento imperdibile della vitalità del rock anni Sessanta, che pure a distanza di decenni mantiene inalterate vitalità e godibilità.

ROGER MCGUINN – BACK FROM RIO
roger mcguinn- back from rio
Jim “Roger” McGuinn sa cantare piuttosto bene ed è un chitarrista ineguagliabile; praticamente colui che ha importato l’elettrica a dodici corde nel rock, cavandone un suono immediatamente riconoscibile, l’inimitabile ed imitatissimo “jingle-jangle”. L’uomo, però, non ha mai brillato come autore di canzoni, e infatti la grandezza dei Byrds si deve alla penna di altri, suoi sodali (Crosby, Clark e Hillman) o meno (Dylan) che fossero. Consapevole dei suoi limiti compositivi, all’alba dei Novanta McGuinn ha radunato alcuni songwriter prestigiosi (Tom Petty, Jules Shear, Mike Campbell), dei turnisti d’eccezione (Michael Thompson alla chitarra), vecchi colleghi volatyli (David Crosby e Chris Hillman danno una mano con i cori ed in fase di scrittura) e qualche ospite di rango (oltre a Petty anche Elvis Costello, Dave Stewart, Stan Ridgway e Timothy Schmit), per partorire una raccolta di dieci canzoni che, col senno di poi, si rivelerà il suo miglior album solista. Di primo acchito, “Back From Rio” sembrerebbe il divertissement di una rockstar annoiata e in crisi di mezza età, e invece il dondolio argentino della Rickenbacker, calato nell’era della globalizzazione e della contaminazione sonora – e confezionato di conseguenza – funziona ancora egregiamente (King Of The Hill, tipico sound byrdsiano a cura di McGuinn e Petty, finì persino al numero due dei singoli nell’inverno 1991, mentre l’intero album arrivò al n. 44 di Billboard) e costituisce una forse inaspettata ma riuscita dimostrazione di vitalità da parte del chitarrista. E proprio questa esibita capacità di McGuinn di aggiornare il proprio classico sound senza snaturarlo rende “Back From Rio” un disco senza il quale si può senz’altro vivere, ma si vivrebbe peggio.

LOS EXPLOSIVOS – SATISFACTION WOMAN
los explosivos - satisfaction woman

Il garage messicano è una delle mie perversioni da quando ho scoperto i Los Infierno, quintetto dal sound volutamente deragliante e stonato ma irresistibilmente caotico e festoso come solo il miglior rocanrol può e deve essere. Senza contare che il suono della lingua spagnola si presta particolarmente all’efficacia di questo tipo di proposta musicale. Della piccola ma agguerrita scena del Paese norteamericano i Los Explosivos sono una delle realtà più note e longeve, dato che pubblicano dischi dal 2007 e suonano regolarmente in Europa. “Satisfaction Woman” è il loro quinto LP, uscito nel 2012 e registrato, come si legge in seconda di copertina, “da qualche parte vicino Lubiana, Slovenia“. Sembra una stranezza ma, in realtà, è solo la conferma che il rock ‘n’ roll è ormai linguaggio globale: e allora ecco la rilettura in lingua della classicissima Action Woman dei Litter, ecco una A Toda Velocidad che pur essendo manifesta sin dal titolo deve qualcosa anche alla Scandinavia anni Novanta, ecco una No Hay Vuelta Atras che unisce fuzz e sitar, ed altri otto brani traboccanti di energia, distorsione e amore per quel suono che riesce a trascinare anche i punk sulla pista da ballo. Continuo a preferire i Los Infierno (che chicca il loro “Salvaje”!), ma i Los Explosivos tengono fede al nome che si sono scelti.

LINK PROTRUDI 6 THE JAYMEN – THE BEST OF
link protrudi & the jaymen

Quando al mondo il nome di Link Wray era materia per pochissimi cultori, uno di questi era Rudi Protrudi, rock ‘n’ roll animal se mai ce n’è stato uno. E nel 1987, durante una pausa dei suoi Fuzztones, il nostro concepisce l'(allora) inconcepibile: un trio chitarra-basso-batteria che suona brani  di rock ‘n’ roll strumentale della durata di due minuti e neanche sempre. Adesso, dopo “Pulp Fiction” e tutto il resto, sembra ovvio, ma all’epoca un’idea del genere non era venuta nemmeno ai Cramps. Progetto partito un po’ per gioco, un po’ per scherzo, un po’ per passione e un po’ per tedio, Link Protrudi & The Jaymen (già nel monicker si coglie l’intento di omaggiare il pioneristico chitarrista) pubblicano il primo LP, “Drive It Home!” (un misto di brani di Wray e di originali sulla stessa lunghezza d’onda stilistica e anche qualitativa) in quello stesso 1987, mandandogli dietro altre due uscite: “Slow Grind”, pensato appositamente come colonna sonora per il burlesque, nel 1990 e “Seduction”, ispirato dalla musica tradizionale turca e dalla danza del ventre, nel 1994. Poi più nulla di nuovo a livello discografico, nonostante le sporadiche riapparizioni live (anzi, sono in tour per l’Italia proprio in questi giorni). Questa raccolta, meritoriamente pubblicata dalla Go Down Records, assembla venticinque episodi che spaziano lungo tutta la carriera del trio, con una prevalenza per le prime deraglianti prove (cinque i brani da “Slow Grind” e sei da “Seduction”, oltre a un paio di selezioni da compilation). Per chi è interessato al lato più sensuale ed animalesco del rock, nome imprescindibile.

RAMONES – ANTHOLOGY HEY HO LET’S GO!
ramones

Mi piaceva l’idea di avere tutto ciò che di essenziale hanno pubblicato i finti fratelli del Queens in un unico disco (ok, due). E, quando ho letto la tracklist (cinquantotto canzoni che spaziano lungo tutta la carriera del gruppo; non manca nulla di rilevante) e ho visto che si trattava dell’edizione con anche il libretto di ottanta pagine con foto e un saggio di David Fricke, non ho saputo resistere. So di non essere l’unico.

 


Andergraund saund. L’Italia che rocca sotterra (suo malgrado, o forse no).

L’Italia è ben poco un Paese da rock ‘n’ roll, ma questo non significa che non ci sia gente che ci prova. Troppo urgenti, d’altronde, i sentimenti ai quali dà voce quel sound così essenziale e fisico, corporeo fino all’inverosimile e viatico ideale per ogni pulsione, confessabile o meno, dell’umano spirito. Ecco quindi fiorire anche da noi un folto sottobosco di proposte che declinano convincentemente modelli quasi sempre nati altrove ma introitati e compresi appieno, le quali scontano esclusivamente l’assenza di una scena (locali, etichette, agenzie di management, promoter di concerti) organizzata per sostenerne lo sforzo artistico e produttivo, soprattutto in vista dell’affermazione internazionale. Non immediatamente imputabile ai musicisti la loro carenza di visibilità, nondimeno il livello delle proposte merita lo sforzo di promuoverne l’opera (o anche solo l’esistenza), sia pure con il limitato passaparola che questo spazio consente. Ci proviamo, dunque, con l’avvertenza che la scelta dei nomi riguarda il gusto personale e, ovviamente, non esaurisce il novero delle realtà indipendenti italiane di qualità.

PUSSY STOMP Duo sardo composto dal bassista e cantante Maurizio “Vanvera” Vacca e dalla chitarrista Roberta “Skip” Etzi, i Pussy Stomp si avvalgono di una batteria elettronica per proporre un rock essenziale, dall’impostazione garagistica e dalle tinte blues, porto con piglio deviato e minaccioso, ancorché non scevro di una vena surreale e comica. Ne risulta un’ipotesi di Frankenstein assemblato con pezzi di Cramps, Suicide e Killing Joke. Il primo album “Guide For Shy Boys”, che segue l’EP di esordio “Super Slut”, è uscito a gennaio 2015. Li potete ascoltare qui, oltre che, meglio ancora, dal vivo. Pussy Stomp - Guide For Shy Guys

DESTROY ALL GONDOLAS Trio composto da ex membri di band di una certa fama nel Nordest, tutte stilisticamente differenti (l’hardcore de L’Amico di Martucci, il punk ‘n’ roll dei Gonzales e il thrash-core dei Minkions), i Destroy All Gondolas emergono dalla città sulla Laguna per ributtare addosso al pubblico miasmi pestilenziali di rock ‘n’ roll deviato, malsano come gli scarichi di Porto Marghera. Brani brevi e velocissimi, in cui l’impeto dell’hardcore si fonde con una vena surf, che però sanguina nero e non pastello, per un risultato che trasuda passione e competenza, ad un ideale crocevia tra i Venom e Dick Dale. Ad oggi hanno partorito un demo in cassetta e un EP in sette pollici di vinile, mentre si vocifera da tempo, e con trepidante attesa, di un LP. Fatevi infettare qui. Destroy All Gondolas

SULTAN BATHERY Nomati da una città del Kerala, questi quattro vicentini non disdegnano le visioni colorate di quell’angolo fatato e problematico di mondo, affiancandovi, tuttavia, copiose dosi di robusto garage made in the U.S.A., richiami alla migliore psichedelia e giusto qualche inflessione noise, ed immergendo il tutto in un azzeccato contesto lo-fi. La miscela è eccellente, e non casualmente l’autorevole etichetta americana Slovenly Records si è accorta del gruppo, che, in mezzo alla gran copia di EP e partecipazioni a raccolte, ha trovato il tempo per pubblicare l’ottimo LP omonimo, in cui una copertina trippy racchiude la colonna sonora di una magnifica esplorazione lisergica in dodici cartoni…cioè, canzoni. Pronti a partire? Andate qui e premete “Play”.
Sultan Bathery - Sultan Bathery

COCONUTS KILLER BAND Dopo avere affinato per un paio d’anni il suo rock ‘n’ roll crudo e trascinante suonando in tutti i locali disponibili, soprattutto sul versante adriatico della Penisola, a circa a metà dell’anno in corso questo sestetto pescarese ha pubblicato il primo album omonimo per la romagnola Go Down Records. Dentro vi si trova un interessante impasto di rock ‘n’ roll letteralmente inteso (quello dei Cinquanta), garage e Detroit sound, in cui genuine scariche elettriche si alternano a momenti più orgiasticamente danzerecci. Magari c’è qualche ingenuità da smussare (è un’opera prima, dopotutto), ma la sostanza c’è eccome. Inutile dire che sonorità del genere si apprezzano al meglio dal vivo e/o a volumi da codice penale. Qui un assaggio.
Coconuts KIller Band - Coconuts Killer Band

THE DIPLOMATICS Ne avevo trattato a dicembre scorso, in occasione del concerto veneziano per la presentazione del disco di debutto “Don’t Be Scared, Here Are The Diplomatics”. Ebbene, il quintetto regge non solo alla prova del palco (stage don’t lie, parafrasando Rasheed Wallace), ma anche a quella del vinile (solo in questo formato, infatti, troverete l’album, e il CD vi verrà dato in omaggio; vera e propria dichiarazione di intenti): Svezia e Michigan che prendono casa nel profondo Nordest, facendo tappa a Londra e magari anche a Sidney. Bella roba; sempre la stessa, ma fatta bene e da chi sa cosa vuol dire sudare e soffrire su una sei corde, dietro ai tamburi o contro un microfono. Il consiglio è di tenerli d’occhio, perché andranno da qualche parte. Per capire dove, passate qui.
The Diplomatics - Don't Be Afraid, Here Are The Diplomatics

Nor any drop to drink: Datura4 – Demon Blues

datura4 - demon blues

Dom Mariani è un genio del power pop da autorimessa, e facciano fede i dischi di Stems, Someloves e DM3. Chris Hitchcock sa usare la sei corde per suadere ma anche scalciare, come dimostrano i suoi contributi ai You Am I e ai Monarchs. Warren Hall sorregge l’elettricità dei Drones e dei Volcanics con una tempesta di tamburi, mentre Stu Loasby tiene il beat solido e compatto con la sola forza di quattro corde. Insieme sono i Datura4.

Un supergruppo? Non proprio, a meno che non si sia patiti terminali di Oz rock, quella mistura personale e sui generis, devota ai Sixties inglesi e americani come al punk (che proprio nella terra dei canguri conosceva alcune delle sue declinazioni in assoluto più convincenti), essenziale ed eccitante ma sempre irresistibilmente melodica, che negli anni Ottanta, con propaggini fino a metà Novanta, suscitò un vasto culto, progressivamente rarefattosi ma nel contempo radicalizzatosi. Ma qui non c’è traccia (va bene, forse un paio di reminiscenze) di rock australiano propriamente inteso, perché i Datura4 (nome orribile, per inciso) si rifanno anima e corpo, corde e pickup, al primo hard rock, quello nato in esito ai Sessanta dalla British Invasion come forma estremizzata di blues elettrificato pensata per l’era della coscienza espansa e proiettata nel tempo dell’amore libero e del Vietnam.

È, quindi, il suono delle valvole a tenere banco in “Demon Blues”, titolo omen e copertina ancor di più, debutto del quartetto di Fremantle che fa seguito a quattro anni di prove e scrittura. Opera riuscita nell’intento di richiamare l’atmosfera potente ed estesa del rock del periodo 1968-1972 circa, apportandovi il saggio accorgimento di restare ancorati alla forma-canzone (Dom Mariani è da sempre maestro in questo), senza lasciare che le lungaggini delle jam strumentali offuschino la scrittura e, appunto, la canzone, vera e propria unità atomica della musica popolare. Impatto, groove, suoni caldi, distorsioni analogiche, pentatoniche esibite e mai rinnegate, tecnica strumentale dosata con perizia e l’obbligatorio inchino al “culto del riff” (definizione geniale nella sua pregnanza; tutto merito loro): ecco cosa aspettarsi da questo disco, uscito oggi stesso per la Alive Records (ma negli USA i diritti sono della storica Bomp!, che ha approntato un’edizione limitata in vinile colorato e con copertina differente).

Forse non esente dal sospetto di commercialità, visto il fermento che attraversa il filone stoner/classic rock (o come volete chiamare il rispolvero del tipico sound dell’hard primevo) in questa decade, e vista, tutto sommato, l’estraneità rispetto a queste sonorità dei musicisti coinvolti, le cui carriere parlano di altri referenti sonori, ancorché spesso coevi di quelli di questo progetto, tuttavia “Demon Blues” risulta un lavoro godibile e ben realizzato sotto ogni aspetto, anche se non tutto è memorabile e qualche carenza nella scrittura, ad onta dell’esperienza degli autori (ma non, come detto, in questo sottogenere del rock), dovrà essere superata nel futuro; compito, peraltro, all’altezza del quale Mariani & co. sono certamente.

Nome da tenere d’occhio per chi si interessa di sonorità dure di matrice tradizionale, i Datura4 potrebbero rivelarsi una vera sorpresa, oppure una grossa occasione mancata. Speriamo nella prima ipotesi, ma chi vivrà ascolterà. Per intanto ascoltiamo.

E piove in petto una dolcezza inquieta: Out Of Time – Stories We Can Tell & More

 One More Chance reclama il riconoscimento della sua filiazione da “Sweetheart Of The Rodeo”. Brian’s Black Night omaggia il più talentuoso e sfortunato Rolling Stone con un’armonica pacata e un cantato tenerissimo. Take My Time esce a reti inviolate dal confronto con i R.E.M. più veraci, quelli di “Murmur” e “Reckoning”. I Can Ride dondola scampanellante come dei Byrds da honky tonk. Solo per citarne alcune.

L’Italia è periferia dell’Impero, però il Ricky ‘n’ roll le è sempre venuto bene. Chissà perché. Dopotutto non era musica di origine provinciale: a parte l’isolato caso dei R.E.M. e della sparuta pattuglia georgiana, la maggior parte dei profeti del jingle jangle e del country-rock proveniva dalla solatia e glamourous L.A., che non solo aveva dato i natali al gruppo di David Crosby e Roger McGuinn e ai Flying Burrito Brothers, ma anche ai principali epigoni in ritardo di decenni (i Dream Syndicate, i Long Ryders e tutta la scena Paisley Underground). Persino in Europa (Smiths) e in Australia (Go Betweens) la versione rediviva di questo sound era una faccenda urbana. Perché, dunque, da noi no?

Bra, provincia di Cuneo. Trentamila anime all’estremo Occidente d’Italia. Inizio degli anni Ottanta. Qui, in questo spazio e tempo, cinque giovani uomini decidono di incrociare i loro interessi musicali già parzialmente sovrapposti e di vincere la monotonia della provincia suonando e componendo sulla falsariga dei prediletti modelli dei Sixties (Byrds innanzitutto, ma anche Flying Burrito Brothers, Buffalo Springfield, CSN&Y e, in generale, il meglio della scena West Coast), confortati dal ritorno che quelle sonorità stanno all’epoca conoscendo a livello mondiale, sia pure nell’underground. E, un po’ come nel Nord-Ovest americano dello stesso periodo (mutatis mutandis, ovviamente), accade che l’essere distanti dal centro dalle tendenze del momento permette ai musicisti la massima libertà creativa, partorendo una delle più convincenti prove di ispirazione folk-rock nell’ambito del Sixties revival europeo (l’Italia, del resto, produsse autentiche eccellenze di quella stagione). E fu così che uno studente, due artigiani e due impiegati, accomunati dalla passione per certo rock classico (al punto da battezzarsi come uno dei brani migliori di “Aftermath”; curiosamente non a firma di Brian Jones, bensì della premiata ditta Jagger-Richards) e stanziati in un’anonima cittadina piemontese, divennero gli autori di uno dei più memorabili e dimenticati dischi del rock italiano negli anni Ottanta.

Suonato e cantato benissimo, prodotto per stare al passo con le migliori uscite internazionali (c’entra l’intervento di Ricky Mantoan, collaboratore di Flying Burrito Brothers e Roger McGuinn, e Skip Battin, che coproduce e suona la pedal steel su One More Chance), “Stories We Could Tell” venne pubblicato nel 1985 per la minuscola etichetta Mail Records, progenie discografica ad hoc di un omonimo negozio di dischi di Cairo Montenotte (altrettanto piccolo agglomerato dell’entroterra savonese), e, pur ottenendo ottime recensioni sulla stampa nazionale, che permisero al gruppo di suonare in giro per la Penisola e financo di supporto ai Long Ryders, scivolò in un grazioso oblio analogico (paradossalmente bene addicentesi alle sue atmosfere, che su “Rockerilla” Claudio Sorge definì un “universo sonoro dipinto sovente con i colori tenui della malinconia e del rimpianto“), dal quale non riemerse più per trent’anni, complice anche l’addio del chitarrista Giancarlo Trabucco poco tempo dopo l’uscita del disco.

Lo scorso gennaio, però, l’attiva etichetta pisana Area Pirata ha sollevato la pesante cappa del tempo da questo gioiello, conferendogli dignità digitale. La ristampa assembla gli otto brani dell’LP originale e altri dieci pezzi di varia provenienza: dalla festosa e un po’ acerba Have You Seen The Light Tonight (originariamente consegnata alla storica antologia “Eighties Colours”, che nel 1985 diede l’avvio alla stagione neopsichedelica italiana) a una convincente cover del classico dei Love A House Is Not A Motel, più quattro notevoli inediti (l’allegro non troppo di Time, la psichedelica Walking In A Spanish Land, la remiana Untitled e una Untitled #2 pienamente nel solco del Paisley Underground) incisi per una seconda uscita discografica mai concretizzatasi e tre non sgradevoli ma sostanzialmente inutili versioni live di brani già editi, a conferma della solidità degli Out Of Time anche sulle assi del palco.

Un unico appunto si può fare a questa ristampa. Che, pur avendo dotato il disco di una copertina attraente e capace di suggerire le due anime Sixties, quella roots e quella psych, della musica che vi è contenuta, ha lasciato in disparte l’evocativa illustrazione dell’edizione originaria di “Stories We Can Tell”, che ancor meglio riassumeva il piccolo mondo antico evocato da questi solchi, fatto di punti fermi e solide certezze: fiammiferi tascabili e Lucky Strike ormai finite nel posacenere, spartiti ancora da completare e testi abbozzati, sognando l’America di “Easy Rider” e dei grandi trucks con l’ausilio di una sei corde Rickenbacker, ma sempre con un occhio all’Inghilterra del beat, incarnata da un santino di Brian Jones. Perché non solo la musica, anche gli oggetti possono raccontare storie; storie meravigliose e fuori dal tempo. I dischi, per esempio. Questo disco, per esempio.

“Out Of Time” mi piace, ma ve lo lascio. Voi, però, lasciatemi gli Out Of Time.