Sei proprio tu John Wayne?: Charlie Daniels (1936 – 2020)

Il clamore mediatico dato dalla dipartita di uno dei più grandi compositori italiani del Novecento ieri, sei luglio, ha offuscato un altro lutto musicale, questa volta squisitamente americano. In quella stessa data, infatti, lasciava questa vita, ormai quasi ottantaquattrenne, Charlie Daniels, contributore primario alle vicende musicali del Sud degli Stati Uniti.

Nato in North Carolina e attivo sin dall’adolescenza in ambito country e bluegrass, si trasferì a Nashville e lì si guadagnò presto una fama di capace songwriter e virtuoso del violino nei circoli che contano, finendo per suonare su “Nashville Skyline” di Bob Dylan e in diversi dischi di country e intraprendendo quindi, all’inizio degli anni Settanta, una carriera solista all’insegna di quella miscela di country, rhythm’n’blues, soul, rock e blues che fu definita southern rock. Ambito in cui finì per eccellere, fondendo le abilità di chitarrista blues e violinista bluegrass con un vocione profondo e un’abilità di narratore ereditata dal country. Dal 1971 al 1979 Daniels, a capo della band omonima, fu un inarrestabile alfiere della musica sudista, producendo caposaldi del southern rock come Long-Haired Country Boy, Uneasy Rider, Trudy, lo smash hit The Devil Went Down To Georgia e la programmatica The South’s Gonna Do It, preludio a quanto verrà.

Infatti, a partire dagli anni Ottanta l’uomo, che si era dimostrato un libertario moderato (si vedano a conferma le vicende salacemente narrate su Uneasy Rider, il mero titolo di Long-Haired Country Boy e la toccante ricostruzione dei traumi dei reduci in Still In Saigon), vira verso un conservatorismo spinto e patriottardo, cosicché le canzoni diventano occasioni per rivendicare orgogliosamente lo stile di vita redneck e le relative convinzioni (emblematica sul punto Simple Man, il cui testo propone di impiccare gli spacciatori, lasciati liberi da giudici “effemminati”, e di abbandonare gli stupratori, gli assassini e i pedofili legati in mezzo alle paludi, alla mercé di serpenti a sonagli, insetti e alligatori). Cambiare idea è sempre legittimo, beninteso, se non fosse che in corrispondenza del mutamento ideologico cala anche, e vistosamente, la qualità dei dischi, ormai adagiati su un country leccato o un gospel di maniera, che predicano a un pubblico di convertiti. Il risultato, prevedibile, è la (auto)segregazione nel circuito country e nei media di area ideologica. Da cantore in gioventù di un Sud non opprimente sebbene orgoglioso delle sue radici, con gli anni Charlie Daniels è diventato l’archetipo del bianco sudista retrivo e bigotto; fine ingloriosa, quella dell’attrazione da strapaese, per uno dei musicisti più ispirati del rock stars and bars. Che lascia comunque un’eredità musicale di rilievo soprattutto nei dischi degli anni Settanta, tra cui svettano “Fire On The Mountain” (titolo omonimo di un famoso brano della Marshall Tucker Band, sui cui dischi Daniels ha ripetutamente suonato) e “Saddle Tramp”, oltre a una quantità notevole di affascinanti storie del Sud e degli Stati Uniti in generale, compreso qualche colpo di genio, come la lucidissima lettura del mondo (il suo, quantomeno) offerta da una strofa di Long-Haired Country Boy: “La ragazza povera vuole sposarsi/E la ragazza ricca vuole flirtare/L’uomo ricco va al college/E l’uomo povero va a lavorare/L’ubriaco vuole un altro sorso di vino/E il politico vuole il voto/Io non voglio praticamente niente/tranne che la ruota faccia un altro giro“.

Quest’oggi l’aquila volerà lenta e la bandiera sventolerà bassa, come aveva predetto lui stesso.

Goodbye, Mr. Daniels.

Agosto madre mia se ti conosco.

Quando la temperatura sembra raggiungere vertici prima ignoti e nemmeno la notte, ossia il momento in cui la canicola dà o dovrebbe dare un po’ di tregua, porta ristoro, occorre prendere provvedimenti. Ma cosa fare se il caldo intollerabile non solo persiste anche durante la notte, ma ha stabile alloggio dentro? Cosa fare se la calura opprimente null’altro produce se non sudori freddi, che dalla fronte incrociano gli occhi in perpendicolare e ne offuscano lo sguardo?

La notte è il tempo del foro interno, dei conati di inconfessabile, dei rimorsi mordaci. Del sentirsi persino senza madre, il sancta sanctorum dell’essere vivi, irrimediabilmente soli con se stessi. Delle ombre nere che trascolorano in blu. O meglio, in blues. E chi di blues e di notti calde dentro e fuori ne sa, o persino ne ha mai saputo, di più di Ray Charles?

“La calda notte dell’ispettore Tibbs” uscì nel 1967, e per la prima volta un canadese guardava al Sud e ai suoi costumi con lucidità mista a indulgenza. Ma non era costui un musicista; per quello ci vorranno altri cinque anni e non son pochi, specie in quel periodo. I musicisti indigeni, invece, avevano ben chiaro cosa succedesse nelle afose notti giù in Dixieland, e sempre meno tema di farlo sapere, anche solo in tralice, descrivendo notti di autoconsapevolezza, e perciò di blues, con i modi squisiti, artistici e umani, a cui già allora da tempo ci avevano abituato. Lasciamo quindi a loro, alla struggente voce di brother Ray, all’organo sornione di Billy Preston e agli arrangiamenti impeccabilmente dosati di Quincy Jones, di condurci oltre la siepe e poi del buio che ivi ristagna, raggelandoci e contemporaneamente scaldandoci il cuore in una notte già difficile. In cui adesso naufraghiamo, madidi dentro e fuori a discrezione, o forse il contrario, ma pur sempre vigili affinché non ci colga il sonno esiziale, quello che genera i mostri. Perché a quel punto saremmo davvero in the heat of the night, e se al Sud, altrove o all’inferno non farebbe più tanta differenza.

Il secondo secondo me: Mr. Wob And The Canes – The Ghost Of Time


Qualcuno ha lasciato aperte le gabbie. Di nuovo. E di nuovo i Cani sono scappati, con la lingua a penzoloni e la voglia di libertà. E di nuovo alla loro testa c’era un segugio di nome Mr. Wob.

Dopo due anni sono ancora liberi, ma non più latitanti. E due anni non sono pochi, specie per un randagio: provateci voi a vagare senza meta (o con troppe mete, ciò che è lo stesso) in cerca di pubblico e musica, di note e parole. Però chi vaga e viaggia ha storie da raccontare, quando torna. Se torna. Ebbene, Wob e i Canes sono tornati.

Apparentemente “The Ghost Of Time” (uscito a maggio 2015) non dovrebbe differire di molto dal suo predecessore: stessi musicisti, stesso studio, stesso progetto, stesse tematiche. E invece no. È adagio comune che il secondo sia l’album più difficile di una carriera, perché richiede di confermare ciò che di buono il debutto aveva lasciato intravedere nel contempo affinando le asperità dell’inevitabilmente meno maturo esordio. Operazioni che possono stroncare una carriera, perché complesse e spesso compiute senza reale autonomia di giudizio o anche solo accortezza, in dispregio della sostanza del contenuto e con in mente altre e più pressanti esigenze, non da ultimo di carattere mercantile. Non così i nostri tre canidi, che hanno debitamente ponderato il ritorno, incidentalmente ed una volta di più dimostrando di possedere apprezzabile spessore artistico e rammentando al pubblico l’idea che il ruolo del musicista contempla un percorso, e dunque manifestando la loro necessità di spaziare per trovare, o addirittura tracciare, il proprio. 

Ecco quindi il trio lasciare sullo sfondo le più spiccate ambientazioni voodoo che avevano reso affascinante “Invitation To The Gathering” (operazione non solo metaforica; basta guardare la copertina), utilizzandole come base per esplorare nuove e più variegate sonorità, anche con l’ausilio di altri e diversi strumenti, perché qui tromba, trombone e organo Hammond prendono il posto di armonica e fife, che avevano insaporito il primo album.

Il risultato? Interessante. Aggettivo il cui utilizzo non serve per avanzare la solita stroncatura mascherata, ma per descrivere esattamente ciò che la musica qui contenuta suscita: interesse. Perché la carne al fuoco è molta e di ampia varietà, anche se la qualità delle pur variegate pietanze è, curiosamente, altalenante: se, infatti, l’apertura con Time Is Gone, litania monocorde ed amelodica dall’incedere minaccioso, sconcerta ed un po’ tedia, 2 o’ Clock blues deliziosamente gigioneggia tenendo il piede in due staffe, residenza a Congo Square e domicilio al Cotton Club, il banjo il contatto con la Big Easy di Kid Ory e la tromba e l’andamento pigramente swingante un ponte gettato verso la Big Apple della big band era; e mentre Coward Blues, a dispetto del nome, profuma di Mediterraneo e sembra De Andrè accompagnato da una PFM a organico dimezzato, Bourgeois gal, trascinante e sorretta da un’ottima slide acre, è esposta con voragine ellenica nei confronti della versione “cremosa” di Crossroads come della Rollin’ And Tumblin’ del Calore Inscatolato; e la dicotomia prosegue, perché l’incedere a passo di marcia rende il pacato folk delle isole britanniche che anima la seguente Ohio State davvero toccante, mentre il dinoccolato shuffle di Blue Blue si atteggia da tenebroso senza esserlo appieno. Un discorso a parte richiede, poi, la rilettura di Come On In My Kitchen, che cerca di coniugare pigrizia sudista e ritmiche frammentate di sapore quasi hard-bop, riuscendo nell’esperimento solo a metà e dimostrando che il repertorio del più grande bluesman di sempre è difficile da maneggiare per chiunque, tanto che questa interlocutoria versione di uno dei classici di Robert Johnson si pone, per intenti ed esiti, in un curioso parallelismo con quella offerta dalla Allman Brothers Band su “Shades Of Two Worlds”. Poco male, perché a risollevare le cose ci pensa un trittico finale di assoluto valore: prima This Nation, una coinvolgente zingarata che il banjo trascina a rotta di collo, ricreando un’atmosfera picaresca simile a quella di diversi pezzi del primo album; quindi l’irresistibile The Real Old BLUSE, forse il brano migliore del lotto, in cui il rhythm ‘n’ blues si incrocia nientemeno che col mambo, complici fiati sbarazzini e una ritmica su cuscinetti a sfera; infine una Just Lies che, pur con indubbie reminiscenze nordamericane, è nondimeno una cartolina dall’Africa Nera. Perché la vita è un grande cerchio e deve chiudersi laddove è cominciata. Laddove gli sciacalli non hanno pretese di essere altro che sciacalli, e dove i cani possono infine fare i cani.

Ora dovrebbe venire la parte “tecnica”, che dovrebbe riferire dei suoni e della registrazione. Risparmiatemela, ché siamo tra amici; basta sottolineare che tutto è fatto a regola d’arte. Tutto. A parte la scelta di inframezzare i brani con sei piccoli sketch sonori, di pochi secondi ciascuno, che dovrebbero simboleggiare altrettante apparizioni spettrali, visto che si intitolano tutti Ghost # e sono ordinati progressivamente. La ragione di tale scelta non mi è chiara, perché lo scorrimento del disco ne viene pregiudicato, mentre è difficile coglierne l’eventuale funzione “narrativa” e collocarla all’interno dell’ascolto. Ma non importa, perché coi fantasmi è inutile cercare ragioni: quelli, delle ragioni, non sanno che farsene. Perché le ragioni appartengono alla vita e, una volta trascorso il tempo, non resta che un’ombra di ciò che fu. Ma anche in vita il fantasma del tempo non commercia in ragioni, ma in sentimenti. Normalmente lo fa in silenzio, ma a volte si fa preannunciare. Dai segnali più strani. A volte persino dall’abbaiare di un cane. O dei Cani.

Indubbio stacco stilistico e, ad onta dei  descritti saliscendi qualitativi, notevole passo avanti rispetto all’opera prima, “The Ghost Of Time” lancia definitivamente Mr. Wob And The Canes nell’orbita di quelli che hanno qualcosa da dire in ambito musicale. Scusate se è poco.

P.S.: anche questo album è autoprodotto, e potete procurarvelo, con poco sforzo e spesa contenuta, qui. Se lo farete, senz’altro migliorete la vita di tre o più musicisti, ma forse anche la vostra. Pensateci.

Breve interludio: Left Lane Cruiser – Dirty Spliff Blues

left lane cruiser - dirty spliff bluesA sentire i tre dell’Indiana (Frederick “Joe” Evans IV alla chitarra e voce, Pete Dio alle percussioni e all’armonica e Joe Bent al basso e, udite udite!, allo skateboard, usato come strumento), per incidere questo album, l’ottavo nonché il quinto dal 2011, non sono stati usati dirty spliffs, ma solo quelli che dalle mie parti si definiscono “purini”. Blues “stonato”, dunque? Sì, ma non solo, perché i Left Lane Cruiser si rifanno in maniera diretta al punk blues di scuola Fat Possum, quello elettrico emerso dal profondo del Mississippi e inciso con modalità che definire “a bassa fedeltà” è eufemistico. Dieci gli episodi messi in campo in questo nuovo lavoro, pubblicato il 16 giugno scorso. I cui referenti sono abbastanza ovvi, ma il risultato è, al solito, ampiamente godibile: l’iniziale Tres Borrachos omaggia gli ZZ Top sia nel titolo sia nell’andamento, Whitebread N’ Beans ricorda i migliori episodi dei primi, irsuti Black Keys, Elephant Stomp dondola alla maniera del vecchio Sud e, in generale, si respira un’atmosfera elettrica ma pigra, dove la slide raschia le orecchie come il bourbon la gola e le radici vengono ripiantate in un humus giovane e fertile. Johnny Winter (notevole la somiglianza vocale tra lui e Joe Evans) non è morto: vive ancora nel Mississippi e incide su un malandato due piste con l’aiuto di un paio di punk. Che vanno in skateboard.

Il Re è morto, viva il Re: B.B. King (1925-2015)

B.B. King In Concert - San Rafael, CA
E così è andato anche lui. Anche l’ultimo Re del blues ha abdicato. Ad età veneranda, senza dubbio, però nulla è più lo stesso quando finisce un regno, soprattutto con l’incombente spettro di un interregno anarchico e di durata potenzialmente illimitata.

Re lo è stato senza dubbio, Riley B. King, nel nome e nel portamento. Un blues regale, il suo, verace ma elegante, sempre intessuto di preziosi arrangiamenti orchestrali o ravvivato da scoppiettanti inserti degli ottoni, eppure mai dimentico della scala pentatonica minore con la quarta nota aumentata, vero e proprio ABC di quella musica quintessenzialmente afroamericana dalla quale è germogliato, che sia per aggiornamento, rilettura o rigetto, ogni idioma sonoro popular del Novecento. E infatti il Re del Blues ha regnato per quasi tutto il secolo sulle dodici battute, con autorevolezza e self-restraint, con saggezza e lungimiranza. Mai sopra le righe e sempre impugnando il fido scettro a sei corde, nero e di nome Lucille. E la vita lo ha ripagato di tutte queste qualità.

Detta così, sembra che la vita del nostro sia stata una passeggiata. Ma chiunque sa qualcosa di storia americana, e magari anche di blues, capisce subito che non è stato così. Nato nel 1925 a Indianola, Mississippi, Riley B. King perde in rapida successione madre e nonna, e all’età di nove anni vive già da solo in una baracca, raccogliendo cotone nei campi per sopravvivere e pagare i debiti ereditari. Quattro anni di fatica e solitudine, parlando coi conigli per non impazzire ed ascoltando lo “zio” Jack che canta l’holler, il tipico canto di lavoro dei contadini neri, andando nei campi a dorso di mulo. Da qui (ma soprattutto dalle sparute visite di Bukka White, cugino della madre e bluesman di gran vaglia) l’interesse per la musica e la fuga a Memphis, al tempo la più tollerante città del Sud, posta sul Grande Fiume (c’è bisogno di dire quale?) e viatico degli scambi col ricco Nord, in particolare Chicago. E nella città più popolosa del Tennessee Riley lavora come cantante e conduttore radiofonico, con conseguente nom de plume: prima Beale Street Blues Boy, quindi solo Blues Boy, ergo B.B. E sempre a Memphis, città del rhythm & blues, inizia, nel 1949, la carriera discografica del Re (curiosamente alle dipendenze di Sam Phillips, futuro fondatore della Sun Records e autore dell’incoronazione di un altro Re, quello del rock ‘n’ roll), che lo condurrà a soddisfazioni impensabili per un bluesman nero: oltre quindici Grammy, cinquanta LP (senza contare singoli e raccolte), concerti affollatissimi ai quattro angoli del globo, una laurea ad honorem dalla Yale University, tre diverse onorificenze dal governo americano e una lista di ulteriori riconoscimenti impossibile da rendere con pretese di completezza.

E così, dopo avere tenuto a battesimo, padrino non unico epperò distinto, un genere musicale (il rhythm & blues), dopo avere per decenni influenzato i musicisti più diversi (encomiabile, ed anzi una delle sue più preziose caratteristiche, l’onestà personale ed intellettuale di B.B. King, quest’ultima manifestata proprio nel riconoscere come l’influenza tra bluesman neri e bianchi, e soprattutto tra americani e inglesi, sia stata a doppio senso, tanto per lo stile musicale quanto per la reciproca esposizione al grande pubblico) con un fraseggio chitarristico istantaneamente riconoscibile, nella sua fluidità come nel tono rotondo ed emotivamente florido di ogni nota, e con una vocalità perfettamente impostata senza per questo perdere spontaneità e sensualità, e dopo avere allietato le più numerose e disparate platee sulla crosta terrestre, ieri B.B. King, da ormai un ventennio sofferente di diabete (patologia, del resto, che ha messo fine alla vita della madre e di una delle sue figlie; di ventuno che lui ce n’ha), è partito da Las Vegas per il Grande Viaggio.

Lo vidi dal vivo una volta sola, a Treviso, nell’estate 2006. Era già enorme, adagiato a centro palco su una sedia larga con la fida Lucille a tracolla, e già allora sembrava sull’orlo del precipizio. Eppure quell’ultraottantenne, ovviamente spalleggiato da una notevole backing band, si dimostrò più arzillo di quanto le apparenze suggerissero, in grado di passare disinvoltamente dall’intensa sensazione di lacerazione emotiva che promana da alcuni suoi classici slow blues (su tutti, ovviamente, The Thrill Is Gone) alla vitalità swingante dei pezzi più rhythm, senza per questo venire meno al dovere, particolarmente sentito dagli uomini di spettacolo americani, di intrattenere il pubblico tra un brano e l’altro, in questo caso producendosi in stralci di cabaret esilarante persino per un pubblico non aduso alla massima comprensione della lingua inglese. Ma la cosa che mi colpì maggiormente, al di là dell’ovvia qualità della proposta musicale e dell’elevatissima professionalità nel porgerla, fu la palpabile serenità dell’uomo e l’atteggiamento di semplicità ed umiltà che promanava da ogni suo atteggiamento, dal fraseggio chitarristico al motto di spirito fino ai ripetuti e sentiti ringraziamenti al pubblico accorso per tributare i giusti onori al Re (o forse per passare una serata diversa dal solito). E quel sorriso, smagliante e contagioso, una mezzaluna perlacea incastonata nel caffelatte del suo viso, non mi abbandonerà mai.

Il Re è morto, viva il Re. E vive: vivrà per sempre.

The real Mr. Big. Andy Fraser (1952-2015).

Due giorni fa, il 16 marzo, si è spento, nella sua villa di Los Angeles, Andy Fraser, vinto da un male rimasto ignoto ma nemmeno troppo, visto che in passato l’uomo si era confrontato con l’AIDS e con una forma rara di cancro alla gola, ed è quindi facile ipotizzare strascichi o complicazioni per due patologie tra le più temute e di complessa guarigione.

Cala così il sipario su un altro eroe dell’epoca d’oro del rock, che ne è anche stato uno dei più dotati ed influenti interpreti: imberbe quando, pizzicando le quattro corde per i Free, firmava alcuni dei più grandi classici del British blues (chiunque saprebbe riconoscere Wishing Well e l’hit All Right Now, mentre “Tons Of Sobs” è nientemeno che il più bell’album di quella cornucopia rock blues che fu il 1968; non ci sono “Led Zeppelin”, “Truth” o “Electric Ladyland” che tengano), compositore per conto terzi di grande successo fin dal 1973 (la Mctrax International, casa di produzione da lui fondata, è ormai divenuta una sorta di multinazionale del songwriting) senza per questo perdere il piacere di suonare e incidere in proprio (ricordo particolarmente il godibile debutto degli Sharks, a fianco del chitarrista Chris Spedding, e il competente AOR di “Fine, Fine Line”, classe 1984, con Michael Thompson alla chitarra e il produttore Bob Marlette alle tastiere), attivista per i diritti civili (gay dichiarato e sostenitore di Rock Against Trafficking) impegnato politicamente (sua la Obama (Yes We Can) che accompagnò il primo trionfo elettorale dell’attuale Presidente americano), Andy Fraser è stato one of a kind, rocker e gentiluomo. Motivo in più per sentirne la mancanza e celebrarne la vita: proviamoci con un’esuberante e toccante versione targata Free di un classico del blues. Chissà cosa avrebbe detto quel bassista sedicenne se, nel lontano 1968, qualcuno lo avesse informato che quel brano, più che una cover, era una profezia.

Ciao Andy, free at last.

Tempi moterni: Greg “Stackhouse” Prevost

Certi giorni ti assale un senso di impotenza per come va il mondo. Senti che il tuo ruolo, quella piccola porzione di influenza sul divenire che ti è dato di esercitare, è invano, e non permette comunque di cambiare alcunché per il meglio. Certi giorni vuoi spogliarti del superfluo e riportare tutto all’essenziale, a ciò che caratterizza l’essere e contemporaneamente gli dà senso.

Greg Prevost è il fu cantante dei magnifici Chesterfield Kings, veri e propri eroi del garage revival degli anni Ottanta. Gli iniziatori, si potrebbe dire: gente talmente brava e maniacale nel riproporre quello stile musicale – il sound stonesiano dell’epoca “Aftermath” in primis, ma anche il garage punk americano nelle sue declinazioni più ispide, il folk rock, il blues elettrico, il surf e la psichedelia più concisa – da divenire a sua volta un classico. Opportunamente li hanno paragonati agli amanuensi medievali, che preservavano la tradizione della grande antichità classica ricopiando, con taluni aggiustamenti dovuti ai tempi mutati, opere a rischio di estinzione, consentendone la fruizione da parte di nuove e future generazioni; ma a me piace vederli come una sorta di Vasari del rock ‘n’ roll, gente che ricapitola le vite dei grandi con un amore fine a se stesso per la specifica branca dell’arte prescelta e pereant hostes. Tanto che il fu bassista Andy Babiuk – unico membro fisso del gruppo assieme a Prevost – è autore di due monografie sulla strumentazione d’epoca di Beatles e Rolling Stones, gestisce uno studio di registrazione rinomato per le attrezzature vintage e siede nella Rock ‘n’ Roll Hall of Fame in veste di consulente. Grande, grandissimo gruppo, i Chesterfield Kings; non è escluso che in futuro trovi modo di parlarne diffusamente. Ma non divaghiamo.

Scioltosi il gruppo nella seconda metà degli anni Duemila, Prevost si è aggiunto l’epiteto “Stackhouse” tra nome e cognome e si è dedicato alla carriera solista, calandosi appieno nel fangoso terreno a dodici battute già frequentato coi Re al tempo dell’eloquentemente e splendidamente intitolato “Drunk On Muddy Waters”. Ne è uscito l’eccellentissimo “Mississippi Murderer” (2013): saggio di rock ‘n’ roll come si faceva una volta, disco come non ne escono molti, frullato corroborante di R.L. Burnside, Johnny Thunders, Rolling Stones anni ’70 (omaggiati con la cover di I Ain’t Signifyin’, incisa durante le sessioni di “Exile On Main St.” ma mai pubblicata fino al 2010, quando è stata inclusa nella definitiva deluxe edition di quel fondamentale album) e Delta blues (le rivisitazioni di Ramblin’ On My Mind di Robert Johnson e di John The Revelator di Blind Willie Johnson), senza per questo scordare gli amati Sixties (notevole la versione di Hey Gyp (Dig The Slowness) di Donovan). Se avessi avuto precedente contezza (mea culpa) della sua esistenza, sarebbe senz’altro finito nella Top Ten dell’anno scorso, magari a braccetto con l’affine – nei suoni, nello spirito e nell’identità del titolare – “The Way Life Goes” di Tom Keifer. La vita va così, a volte.

greg prevost mississippi murderer

Greg, però, tira dritto per la sua strada, e dà il meglio di sé sul palco. Qui, infatti, la sua mota rock per voce, slide e resofonica ribolle di passione, di intensità, di realtà, di vita vera. Non ho pretese di essere creduto (sbaglia chi le ha, specialmente in materia musicale), e dunque allego prove di quanto vado affermando: si tratta di un concerto dello scorso 2 agosto alla House of Guitars – forse il negozio di strumenti più grande del mondo – della natia Rochester. Accompagnato da una minuta backing band, l’ex Re dalla chioma ribelle incornicia una performance encomiabile per trasporto e dedizione (pur con il debito svacco che accompagna il genere), dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno – e ce n’è – che le cose semplici, i sapori intensi, le parole dirette, i sentimenti autentici sono ciò che conta, ciò che muove, ciò che significa. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ha scritto qualcuno: vero, ma non al cuore. Né alle orecchie.

Nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali: John Hiatt – Terms Of My Surrender

John Hiatt è un sopravvissuto. A se stesso, più che altro: la grande fama non l’ha mai toccato fino in fondo e il culto che lo circonda è diffuso ma non così tanto da aver decretato l’ingresso dell’uomo nel ristretto novero dei grandissimi della canzone americana, nonostante un’abilità compositiva decisamente elevata (dalla quale altri, anche illustri, hanno tratto vantaggio: Ridin’ With The King nelle mani di Eric Clapton e B.B. King, per esempio; ma anche Angel Eyes prestata a Jeff Healey). E così il suo nome, invece di ritrovarsi nel posto che gli spetterebbe, ossia a fianco di gente come Bruce Springsteen, Tom Waits, James Taylor, è rimasto in una sorta di limbo: riverito e conosciuto, specialmente dai colleghi musicisti, ma mai veramente entrato nelle corde del grande pubblico generalista, che forse – ipotizzo – non ha perdonato a colui che lo porta le costanti franchezza e asciuttezza stilistica, l’assenza di retorica e la distanza da qualsiasi intellettualismo. Non c’è gratificazione ideologica o politica nella sua musica, né catarsi spirituale o aneliti trascendenti, ma solo la brutale e nuda verità che, a questo mondo, esiste solo la vita, ricca, assurda e imprevedibile, che si snoda errabonda e irreversibile come un fiume e che, come il fiume, quando tracima dagli argini non sta tanto a sottilizzare su cosa investe con la sua onda. Perdente a metà e magnifico tutto, né eminenza grigia né icona maudit, non rocker ma nemmeno hillbilly o bluesman, John Hiatt è un vagabondo senza bandiere sotto cui cullarsi in pie illusioni e capace di accettare la sconfitta e i dolori che la sua condizione comporta, perdipiù dichiarandolo apertamente; come non amarlo?

Partito in sordina a metà Settanta da Nashville e passato, a inizio anni Ottanta, per improbabili soluzioni new wave, Hiatt ha progressivamente raffinato la sua proposta mediante sempre più robuste iniezioni di suoni tradizionali americani, eseguite da infermieri d’eccezione come Ry Cooder, Nick Lowe, Jim Keltner e Sonny Landreth (esemplare e inarrivabile la doppietta  “Bring The Family” – “Slow Turning” nel biennio ’87-’88), assestandosi su uno stile magari canonico nel richiamo ai più praticati stilemi di americana, ma sempre peculiare e altamente emotivo, courtesy of una voce profonda e lacerata, specchio di un’anima che ne ha viste più di quante dovrebbe essere lecito (il suicidio del fratello quando Hiatt aveva nove anni e la morte del padre due anni dopo, divorzi, lutti vedovili, alcolismo e altro ancora), e di storie di vita vissuta e di amore (in)vano, narrate sempre con lo sguardo disincantato di chi della bottiglia assegnatagli dalla sorte ha bevuto anche la fecciadeglutendola senza pensarci troppo sopra.

Non esiste, si potrebbe azzardare, un brutto album di John Hiatt, ma è vero che alcuni dischi sono migliori di altri. Questo “Terms Of My Surrender”, per esempio. L’ultima fatica, datata luglio 2014. E se fosse davvero l’ultima (ma non voglia Iddio!) per il sessantaduenne dell’Indiana, ci sarebbe poco di che stupirsi, perché queste undici canzoni hanno tutte le caratteristiche del testamento artistico, del riassunto di un’eccezionale vicenda musicale che, però, in ogni momento può giungere a conclusione, perché in ogni momento la vita può presentare il conto e tanto vale aver detto per tempo tutto quel che si doveva. C’è il blues, punto di partenza e di arrivo per tutti, stile ma anche condizione dell’anima, declinato con accenti personali e poco ortodossi, come nella prostrata ma a suo modo fatalista dichiarazione di resa della title-track, nella cartolina dal Delta del Mississippi di Here To Stay, nell’esistenzialismo da juke joint di una Face Of God punzecchiata da armonica e mandolino e rintuzzata da scheletri di coralità, nella stregonesca evocazione di Howlin’ Wolf che risponde al nome di Nothin’ I Love. Ma c’è anche il resto: il country-gospel per banjo, coro e ritmica di When The Levee Breaks che dona a Wind Don’t Have To Hurry un’aura mistica; il country-rock di Come Back Home; il country e basta, ma nella sua declinazione più lontana possibile da ciò che oggi esce sotto quest’etichetta, di Old People, praticamente un manifesto della terza età (alla quale l’autore si avvicina rapidamente, d’altronde); il folk dalle salde radici di Nobody Knew His Name; e una Baby’s Gonna Kick che fa convivere la polvere texana dei primi ZZ Top e la vitalità chicagoana di Charlie Musselwhite, mentre Long Time Comin’ ricorda a tutti che in mezzo tra Asbury Park, New Jersey e il Nebraska c’è proprio l’Indiana.

Prodotto splendidamente da Doug Lancio all’insegna della massima autenticità sonora (all’inizio di Face Of God si sente persino Hiatt domandare se la registrazione è iniziata), “Terms Of My Surrender” è un gioiello d’altri tempi, un testamento scritto con la calligrafia consumata di chi sa perfettamente che ricordo vuole lasciare di sé. Rigorosamente olografo, perché per certe cose anche le macchine da scrivere sono inaffidabili, figuriamoci i computer. E con tanto di disposizioni a favore dell’anima: la nostra di ascoltatori.

Magari mi sbaglio grossolanamente, e John Hiatt continuerà a rimpolpare la sua discografia di altri ottimi dischi con la cadenza grosso modo biennale sulla quale si è da un po’ di tempo assestato. Probabilmente è così. Ma se anche con “Terms Of My Surrender” cessassero le sue pubblicazioni, nessuna decorosa recriminazione potrebbero avanzare gli eredi di questa porzione di mondo a sette note. Che poi saremmo noi, gli ascoltatori. Nessun disonore potrà mai derivare dall’arrendersi a queste condizioni.

Ma glorïosi, e alle future genti/Qualche bel fatto porterà il mio nome: Robert Johnson

Il 16 agosto 1938 moriva Robert Johnson. L’Omero nero, per più di un motivo.

Innanzitutto perché la ricostruzione della sua esistenza passa più per episodi mitico-leggendari che per fatti storici (e ciò nonostante l’esistenza di testimoni oculari): la scomparsa per un certo periodo in veste di mediocre bluesman e la riapparizione, qualche mese dopo, nei panni del più grande chitarrista del Delta blues di ogni tempo passato e futuro, giustificate con la vendita dell’anima al diavolo, artificio secolare (assurto, via Marlowe e Goethe, a topos letterario) per spiegare una strabiliante conoscenza acquisita in un nonnulla; l’incontro con “il diavolo” (alcuni parlano di Papa Legba, il Loa principe del voodoo; altri, per rispettare il topos, del caro vecchio Mefistofele) avvenuto all’incrocio tra due strade rurali nel Delta del Mississippi (prove del quale cercano di rinvenirsi, con interpretazione peraltro stiracchiata, nel testo del brano forse più famoso di Johnson, Cross Road Blues) per costituire il suddetto sinallagma tra anima e talento; la morte in circostanze incerte (la versione più accreditata parla di avvelenamento da parte di un marito geloso delle attenzioni che Johnson riservava alla di lui moglie) e nel ventisettesimo anno di età, divenuta tra i musicisti rock luogo comune nonché lugubre ricorrenza latrice di immortalità; persino l’incerta collocazione della tomba, per la quale soglionsi additare tre distinte località del Mississippi. Insomma, nulla di ciò che sappiamo della vita di Robert Johnson ha rilevanza di per sé, ma solo per la sua portata simbolica. Nulla importa se quanto tramandato si sia verificato o meno, a fronte del significato che essa tradizione ha assunto.

Poi, per le opere. Di cui spesso è difficile individuare l’autore, perché, esattamente come accade per il corpus omerico (o quantomeno per la versione più accreditata circa la sua origine), le radici, melodiche come liriche, affondano profondamente nei canti di svariati altri aedi e rapsodi del blues, musicisti itineranti precedenti o contemporanei che rispetto a Johnson hanno avuto minor fortuna (e, ad essere onesti, capacità): Leroy Carr e Scrapper Blackwell con le loro Straight Alky Blues (per Cross Road Blues, ma anche Terraplane Blues) e How Long How Long Blues (per Come On In My Kitchen); la My Black Mama di Son House per Walkin’ Blues; Devil Blues di Sylvester Weaver per Hellhound On My Trail. Insomma, quei ventinove brani (ma dodici sono versioni alternative degli stessi pezzi) incisi perlopiù nel novembre 1936 in una stanza d’albergo di San Antonio, Texas vengono da lontano, da una tradizione che sintetizzano egregiamente e portano a livello di eccellenza ineguagliata per causa e mezzo del talento straordinario del loro autore-esecutore. Un grido rauco e lancinante la sua voce, che richiama in via direttissima il canto degli schiavi nei campi di cotone; un monumento di versatilità ritmica e melodica il suo stile chitarristico, forte di soluzioni che definire virtuosistiche, persino in un genere musicale che è l’apogeo dell’essenzialità, non è esagerato (le stesse, del resto, che faranno domandare ad un Keith Richards giovane e non ancora rotolante litico, durante un ascolto di un disco del bluesman, “Chi sono questi?” e, alla risposta di Jagger “Come chi sono? È Robert Johnson!”, replicare “Lui è uno. Ma l’altro che suona, chi è?”). Come Omero, ammesso che sia mai esistito, cucì insieme racconti mitici che cantori itineranti coevi narravano al pubblico (spesso, che coincidenza!, accompagnandosi con una cetra o una lira), aggiungendovi un’altissima sensibilità poetica personale, capace di dare origine ad alcune delle opere più influenti della letteratura di ogni tempo, così Robert Johnson si servì della tradizione afroamericana precedente per tradurla, con accenti insieme personalissimi e universali, in opere di forza espressiva soverchiante e di alto valore culturale. Iliade e Odissea sono colonne della cultura occidentale; non è eresia collocare nella stessa categoria, ancorché in posizione più arretrata, Cross Road Blues, Sweet Home Chicago, Hellhound On My Trail, Stop Breaking Down e Love In Vain.

Nonostante la coazione a ripeterlo che esso ingenera, ogni ascolto dello sparuto lascito di Robert Johnson rinnova lo stupore per la consapevolezza dell’artista nei propri mezzi e per l’abilità nel farne uso al fine di ottenere il massimo risultato espressivo. E persino nei meandri della mente razionale ed adusa a decrittare mitiche allegorie inizia a serpeggiare il larvato convincimento che forse davvero tali risultati sono al di là della portata di un uomo solo, che solo con l’aiuto di Satanasso uno può sperare di raggiungerli. D’altronde, non ce l’ha confessato Robert stesso che lui e il diavolo camminavano fianco a fianco e che, a un certo punto, un mastino infernale si era posto al suo inseguimento per ottenere il rispetto di quel patto stipulato ad un crocevia rurale vicino Clarksdale, Mississippi, dal quale si esce solo morti e immortali? Sarà leggenda, ma affabula mica male.

E infatti la figura di Robert Johnson continua ad affascinare ubiqua (dei musicisti è ben noto, ma riassumo per comodità. Trasfusa nel blues di Chicago degli anni Cinquanta per mezzo dei discepoli Elmore James, che renderà elettrico lo stile slide del maestro, e Howlin’ Wolf, che ne adatterà la vocalità vibrante ai nuovi mezzi sonori a disposizione, l’influenza di Johnson deflagrerà con la scoperta della sua opera omnia, a inizio Sessanta, da parte di alcuni giovanotti inglesi: Clapton scalderà i motori con i Bluesbreakers di John Mayall al suono di Ramblin’ On My Mind e poi farà accedere Crossroads alla Crema del rock; gli Stones lamenteranno l’amore invano in “Let It Bleed” e intimeranno di Stop Breaking Down su “Exile On Main St.”; gli Zeppelin debuttanti si faranno le ossa su Travellin’ Riverside Blues, in principio proposta spesso dal vivo e infatti udibile e godibile sulle “BBC Sessions”; i Fleetwood Mac inseriranno Hellhound On My Trail e Dust My Broom rispettivamente nel primo e nel secondo LP. Da qui in poi sarà un continuum: Johnny Winter, i Blues Brothers, i Gov’t Mule, i Thunder, i White Stripes e svariate altre miriadi), e numerosi sono i creativi (il film “Crossroads” e il documentario “The Search For Robert Johnson”) e gli studiosi (all’interno di una bibliografia corposa, soprattutto in lingua inglese, si segnalano le pagine dedicategli dall’etnomusicologo Alan Lomax, che primo tra i bianchi lo scoprì e lo valorizzò, nel saggio “La Terra del Blues”) che hanno dedicato i loro sforzi a ricostruire le opere e i giorni di questo baciato dalla musa Euterpe. Tra quelli più recenti e godibili segnalo questo cortometraggio del regista americano Glenn Marzano, nato come tesi di laurea con attori amatoriali e poi concretizzatosi in un progetto capace di avvincere e discernere la realtà dal mito in una vicenda dove, invece, le due componenti sono saldamente commiste. Compito non sempre semplice: chiedete a Heinrich Schliemann.

Cambierò davanti a loro le tenebre in luce: Blind Willie Johnson

Il Signore Onnipotente decise che il mio tempo su questa Terra doveva iniziare in Texas, nell’anno 1897 dalla Sua venuta. O almeno così mi hanno detto. Mia madre morì presto; avevo tre, forse quattro anni. Mio padre si risposò presto, ma con la mia matrigna le cose non andavano bene: litigavano spesso, lei frequentava altri uomini e lui la picchiava. Un giorno, quando avevo sette anni, per difendersi dal mio vecchio che voleva dargliele di santa ragione, lei gli scagliò contro una pentola piena di soda caustica. Roba urticante, che ti brucia la pelle appena la tocca. Purtroppo la sua mira non era granché, e, invece di colpire lui, la liscivia finì addosso a me. Persi la vista quello stesso giorno. Non mi rimase altro che la fede, nella quale ero stato educato dai miei, frequentatori della chiesa battista di Marlin, la mia voce e una chitarra, costruitami da mio padre con una scatola di sigari. Poi me ne procurai un’altra, una chitarra vera, e decisi di portare al mondo la Parola.

Mica male come inizio, vero? A parlare (fittiziamente, per mio tramite) è Blind Willie Johnson, figura di bluesman al tempo stesso archetipale e rivoluzionaria. Archetipale senz’altro: cieco, derelitto e mendico (l’abitudine di suonare per strada, raccogliendo le offerte dei passanti, intrapresa durante la fanciullezza per ovviare alla miseria della famiglia, gli rimase per quasi tutta la vita e fu spesso la sua unica fonte di sostentamento), si dedicò nondimeno ad un apostolato itinerante, cantando la gloria divina invece delle miserie e gioie secolari; unico, assieme al coetaneo e parimenti cieco Reverend Gary Davis, tra i contemporanei suonatori di “musica del diavolo”. Ma anche rivoluzionaria: la sua tecnica chitarristica, basata su melodie di singole note, suonate con un tagliente stile slide (ottenuto passando sulle corde non un usuale bottleneck di vetro, ma una metallica lama di coltello o un ditale di ottone) su uno strumento accordato in open D (che, rispetto alla comune accordatura in Mi, consente di suonare molti accordi con un solo dito, e dunque con uno slide), era qualcosa di decisamente innovativo; e anche la sua voce, lacerata per costituzione e stentorea per educazione (dettata dalla necessità di farsi udire in mezzo al frastuono della pubblica via), capace di una comunicazione di livello emotivo quasi insostenibile, rimane un modello raramente eguagliato di descrizione della condizione esistenziale dell’afroamericano in un mondo ostile, quale era il Sud nordamericano del tempo.

Un pastore del blues, dunque, dedito a riproporre con toni enfatici e drammatici episodi biblici, nella migliore tradizione degli spiritual. Resi ancora più credibili e attuali dalle qualità del performer, se è vero che, come narra la leggenda, una sua versione del brano tradizionale Samson & Delilah, ribattezzata If I Had My Way, I Would Tear This Building Down e suonata in un tribunale di New Orleans, quasi diede origine ad una sommossa, tanto da condurre l’esecutore all’arresto (il quale altre fonti situano di fronte all’Ufficio Doganale della città, individuandone le cause in un’errata comprensione del testo del brano, inteso in senso sedizioso, da parte di un poliziotto che transitava lunga la strada dove il bluesman si stava esibendo). Ma la vita di Willie Johnson il Cieco non fu esattamente quella di un tipico chierico: sposatosi più volte (senz’altro due, forse tre), girò con la moglie Angeline (l’ultima) per tutto il Sud, esibendosi in duetti di matrice religiosa e brani di vario genere, con un repertorio che affiancava in maniera spontanea riadattamenti di traditional gospel e spiritual a pezzi originali, nei cui testi estratti delle Scritture spesso convivevano con argomenti di attualità. Trenta canzoni di questo furono affidate alla Columbia Records, che le raccolse su supporto fonografico in cinque diverse sessioni, tra il 1927 e il 1930. A presiedere le incisioni Frank Walker, gestore del dipartimento di race records (come al tempo venivano definiti i dischi incisi da neri per neri) dell’etichetta di New York fin dal 1923 e scopritore di Bessie Smith. Il tutto fruttò al Reverendo un totale di cinquanta dollari; una discreta somma, al tempo, considerato l’infuriare della Grande Depressione.

Dopo è ancora vagabondare e povertà, con musica, Bibbia e amore coniugale come unici conforti. Fino al 1945, quando documenti comunali di Beaumont, Texas riferiscono che la House Of Prayer, sita al 1440 di Forrest Street, è gestita da un certo reverendo W.J. Johnson. Sembra una stabilizzazione che consente di far convivere abilità musicali (alla chitarra, col passare degli anni, si è affiancata anche una notevole capacità pianistica, probabilmente dovuta all’importanza liturgica dello strumento) e ministero sacerdotale. Ma, si sa, la fortuna è cieca, mentre la sfiga ci vede benissimo (e io, con Roberto “Freak” Antoni, aggiungo che spesso prende anche la mira): durante l’estate di quell’anno la casa di Willie viene distrutta da un incendio, costringendolo, in assenza di altri posti dove andare, a vivere in mezzo alle rovine. Situazione che, unitamente al clima caldo-umido del Texas costiero (Beaumont si trova in una zona paludosa al confine con la Louisiana), non giova alla sua salute: presto contrae una febbre malarica, che lo stronca quarantottenne, il 18 settembre 1945. Con beffa finale (dichiarata dalla moglie Angeline in un’intervista successiva): l’ospedale locale rifiutò il paziente, e non è mai stato acclarato se perché orbo o perché nero. When it rains, it pours, dicono da quelle parti.

Chissà se, al redde rationem, il cieco cantore ha visto il Nazareno le cui gesta ha incessantemente predicato in vita. Nessuno di noi lo scoprirà mai. Ma una mano “terrena”, sia pure postuma, il Salvatore gliel’ha comunque tesa, per mezzo di un altro suo pastore, il reverendo Gary Davis: costui, scoperto agli inizi degli anni Sessanta dai musicisti del Greenwich Village newyorkese dediti all’aggiornamento del patrimonio folklorico statunitense, ripropose al nuovo e più vasto pubblico bianco (in particolare a quello che lo ascoltò al Newport Folk Festival del 1965) brani del collega Willie Johnson, insegnandoli ai bramosi giovani. Ne verranno rivolgimenti epocali, che conferiranno ad almeno tre canzoni (tutte incise da Johnson nella seduta del 3 dicembre 1927) gloria imperitura: Dark Was The Night, Cold Was The Ground, intensissima rivisitazione della Crocifissione ed impareggiabile esibizione di travaglio spirituale, che infatti Pasolini inserì in una scena del suo “Vangelo secondo Matteo”; Nobody’s Fault But Mine, accorata confessione e atto di dolore scandito da un’indimenticabile linea chitarristica che i Led Zeppelin seppero rendere globale (e, inevitabilmente, meno credibile); Jesus Make Up My Dying Bed (nota anche come In My Time Of Dyin’), graffito del vitae supremum exitum riportato alla luce dal debuttante Bob Dylan e adornato di vibrante fisicità ancora, e una volta per tutte, dal Dirigibile.

L’opera di Blind Willie Johnson bene dimostra la quintessenza della musica nera, forma espressiva sonora in cui fisicità e spiritualità sono inscindibili e che meglio di qualunque altra riesce a mettere a nudo la disperazione interiore e il malessere esistenziale dell’Afroamericano, figura paradigmatica dell’essere umano condannato ad una vita di inappagamento e oppressioni capace di trascendere il contesto storico che quel paradigma ha originato (non privo, peraltro, di inquietanti parallelismi con la nostra contemporaneità) per assumere significato universale. Letteralmente universale: nel 1977 Dark Was The Night, Cold Was The Ground è stata tra i dischi d’oro inseriti nella sonda spaziale Voyager, per dimostrare, ad un’eventuale specie extraterrestre che essa avesse raggiunto, di cosa è stata capace la razza umana: di profonde miserie e illusorie consolazioni, di congegni ingegnosi e arte mozzafiato. Il tutto racchiuso, buon Dio!, in un cieco del Texas.

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