“Il Signore Onnipotente decise che il mio tempo su questa Terra doveva iniziare in Texas, nell’anno 1897 dalla Sua venuta. O almeno così mi hanno detto. Mia madre morì presto; avevo tre, forse quattro anni. Mio padre si risposò presto, ma con la mia matrigna le cose non andavano bene: litigavano spesso, lei frequentava altri uomini e lui la picchiava. Un giorno, quando avevo sette anni, per difendersi dal mio vecchio che voleva dargliele di santa ragione, lei gli scagliò contro una pentola piena di soda caustica. Roba urticante, che ti brucia la pelle appena la tocca. Purtroppo la sua mira non era granché, e, invece di colpire lui, la liscivia finì addosso a me. Persi la vista quello stesso giorno. Non mi rimase altro che la fede, nella quale ero stato educato dai miei, frequentatori della chiesa battista di Marlin, la mia voce e una chitarra, costruitami da mio padre con una scatola di sigari. Poi me ne procurai un’altra, una chitarra vera, e decisi di portare al mondo la Parola.”
Mica male come inizio, vero? A parlare (fittiziamente, per mio tramite) è Blind Willie Johnson, figura di bluesman al tempo stesso archetipale e rivoluzionaria. Archetipale senz’altro: cieco, derelitto e mendico (l’abitudine di suonare per strada, raccogliendo le offerte dei passanti, intrapresa durante la fanciullezza per ovviare alla miseria della famiglia, gli rimase per quasi tutta la vita e fu spesso la sua unica fonte di sostentamento), si dedicò nondimeno ad un apostolato itinerante, cantando la gloria divina invece delle miserie e gioie secolari; unico, assieme al coetaneo e parimenti cieco Reverend Gary Davis, tra i contemporanei suonatori di “musica del diavolo”. Ma anche rivoluzionaria: la sua tecnica chitarristica, basata su melodie di singole note, suonate con un tagliente stile slide (ottenuto passando sulle corde non un usuale bottleneck di vetro, ma una metallica lama di coltello o un ditale di ottone) su uno strumento accordato in open D (che, rispetto alla comune accordatura in Mi, consente di suonare molti accordi con un solo dito, e dunque con uno slide), era qualcosa di decisamente innovativo; e anche la sua voce, lacerata per costituzione e stentorea per educazione (dettata dalla necessità di farsi udire in mezzo al frastuono della pubblica via), capace di una comunicazione di livello emotivo quasi insostenibile, rimane un modello raramente eguagliato di descrizione della condizione esistenziale dell’afroamericano in un mondo ostile, quale era il Sud nordamericano del tempo.
Un pastore del blues, dunque, dedito a riproporre con toni enfatici e drammatici episodi biblici, nella migliore tradizione degli spiritual. Resi ancora più credibili e attuali dalle qualità del performer, se è vero che, come narra la leggenda, una sua versione del brano tradizionale Samson & Delilah, ribattezzata If I Had My Way, I Would Tear This Building Down e suonata in un tribunale di New Orleans, quasi diede origine ad una sommossa, tanto da condurre l’esecutore all’arresto (il quale altre fonti situano di fronte all’Ufficio Doganale della città, individuandone le cause in un’errata comprensione del testo del brano, inteso in senso sedizioso, da parte di un poliziotto che transitava lunga la strada dove il bluesman si stava esibendo). Ma la vita di Willie Johnson il Cieco non fu esattamente quella di un tipico chierico: sposatosi più volte (senz’altro due, forse tre), girò con la moglie Angeline (l’ultima) per tutto il Sud, esibendosi in duetti di matrice religiosa e brani di vario genere, con un repertorio che affiancava in maniera spontanea riadattamenti di traditional gospel e spiritual a pezzi originali, nei cui testi estratti delle Scritture spesso convivevano con argomenti di attualità. Trenta canzoni di questo furono affidate alla Columbia Records, che le raccolse su supporto fonografico in cinque diverse sessioni, tra il 1927 e il 1930. A presiedere le incisioni Frank Walker, gestore del dipartimento di race records (come al tempo venivano definiti i dischi incisi da neri per neri) dell’etichetta di New York fin dal 1923 e scopritore di Bessie Smith. Il tutto fruttò al Reverendo un totale di cinquanta dollari; una discreta somma, al tempo, considerato l’infuriare della Grande Depressione.
Dopo è ancora vagabondare e povertà, con musica, Bibbia e amore coniugale come unici conforti. Fino al 1945, quando documenti comunali di Beaumont, Texas riferiscono che la House Of Prayer, sita al 1440 di Forrest Street, è gestita da un certo reverendo W.J. Johnson. Sembra una stabilizzazione che consente di far convivere abilità musicali (alla chitarra, col passare degli anni, si è affiancata anche una notevole capacità pianistica, probabilmente dovuta all’importanza liturgica dello strumento) e ministero sacerdotale. Ma, si sa, la fortuna è cieca, mentre la sfiga ci vede benissimo (e io, con Roberto “Freak” Antoni, aggiungo che spesso prende anche la mira): durante l’estate di quell’anno la casa di Willie viene distrutta da un incendio, costringendolo, in assenza di altri posti dove andare, a vivere in mezzo alle rovine. Situazione che, unitamente al clima caldo-umido del Texas costiero (Beaumont si trova in una zona paludosa al confine con la Louisiana), non giova alla sua salute: presto contrae una febbre malarica, che lo stronca quarantottenne, il 18 settembre 1945. Con beffa finale (dichiarata dalla moglie Angeline in un’intervista successiva): l’ospedale locale rifiutò il paziente, e non è mai stato acclarato se perché orbo o perché nero. When it rains, it pours, dicono da quelle parti.
Chissà se, al redde rationem, il cieco cantore ha visto il Nazareno le cui gesta ha incessantemente predicato in vita. Nessuno di noi lo scoprirà mai. Ma una mano “terrena”, sia pure postuma, il Salvatore gliel’ha comunque tesa, per mezzo di un altro suo pastore, il reverendo Gary Davis: costui, scoperto agli inizi degli anni Sessanta dai musicisti del Greenwich Village newyorkese dediti all’aggiornamento del patrimonio folklorico statunitense, ripropose al nuovo e più vasto pubblico bianco (in particolare a quello che lo ascoltò al Newport Folk Festival del 1965) brani del collega Willie Johnson, insegnandoli ai bramosi giovani. Ne verranno rivolgimenti epocali, che conferiranno ad almeno tre canzoni (tutte incise da Johnson nella seduta del 3 dicembre 1927) gloria imperitura: Dark Was The Night, Cold Was The Ground, intensissima rivisitazione della Crocifissione ed impareggiabile esibizione di travaglio spirituale, che infatti Pasolini inserì in una scena del suo “Vangelo secondo Matteo”; Nobody’s Fault But Mine, accorata confessione e atto di dolore scandito da un’indimenticabile linea chitarristica che i Led Zeppelin seppero rendere globale (e, inevitabilmente, meno credibile); Jesus Make Up My Dying Bed (nota anche come In My Time Of Dyin’), graffito del vitae supremum exitum riportato alla luce dal debuttante Bob Dylan e adornato di vibrante fisicità ancora, e una volta per tutte, dal Dirigibile.
L’opera di Blind Willie Johnson bene dimostra la quintessenza della musica nera, forma espressiva sonora in cui fisicità e spiritualità sono inscindibili e che meglio di qualunque altra riesce a mettere a nudo la disperazione interiore e il malessere esistenziale dell’Afroamericano, figura paradigmatica dell’essere umano condannato ad una vita di inappagamento e oppressioni capace di trascendere il contesto storico che quel paradigma ha originato (non privo, peraltro, di inquietanti parallelismi con la nostra contemporaneità) per assumere significato universale. Letteralmente universale: nel 1977 Dark Was The Night, Cold Was The Ground è stata tra i dischi d’oro inseriti nella sonda spaziale Voyager, per dimostrare, ad un’eventuale specie extraterrestre che essa avesse raggiunto, di cosa è stata capace la razza umana: di profonde miserie e illusorie consolazioni, di congegni ingegnosi e arte mozzafiato. Il tutto racchiuso, buon Dio!, in un cieco del Texas.
