Sei proprio tu John Wayne?: Charlie Daniels (1936 – 2020)

Il clamore mediatico dato dalla dipartita di uno dei più grandi compositori italiani del Novecento ieri, sei luglio, ha offuscato un altro lutto musicale, questa volta squisitamente americano. In quella stessa data, infatti, lasciava questa vita, ormai quasi ottantaquattrenne, Charlie Daniels, contributore primario alle vicende musicali del Sud degli Stati Uniti.

Nato in North Carolina e attivo sin dall’adolescenza in ambito country e bluegrass, si trasferì a Nashville e lì si guadagnò presto una fama di capace songwriter e virtuoso del violino nei circoli che contano, finendo per suonare su “Nashville Skyline” di Bob Dylan e in diversi dischi di country e intraprendendo quindi, all’inizio degli anni Settanta, una carriera solista all’insegna di quella miscela di country, rhythm’n’blues, soul, rock e blues che fu definita southern rock. Ambito in cui finì per eccellere, fondendo le abilità di chitarrista blues e violinista bluegrass con un vocione profondo e un’abilità di narratore ereditata dal country. Dal 1971 al 1979 Daniels, a capo della band omonima, fu un inarrestabile alfiere della musica sudista, producendo caposaldi del southern rock come Long-Haired Country Boy, Uneasy Rider, Trudy, lo smash hit The Devil Went Down To Georgia e la programmatica The South’s Gonna Do It, preludio a quanto verrà.

Infatti, a partire dagli anni Ottanta l’uomo, che si era dimostrato un libertario moderato (si vedano a conferma le vicende salacemente narrate su Uneasy Rider, il mero titolo di Long-Haired Country Boy e la toccante ricostruzione dei traumi dei reduci in Still In Saigon), vira verso un conservatorismo spinto e patriottardo, cosicché le canzoni diventano occasioni per rivendicare orgogliosamente lo stile di vita redneck e le relative convinzioni (emblematica sul punto Simple Man, il cui testo propone di impiccare gli spacciatori, lasciati liberi da giudici “effemminati”, e di abbandonare gli stupratori, gli assassini e i pedofili legati in mezzo alle paludi, alla mercé di serpenti a sonagli, insetti e alligatori). Cambiare idea è sempre legittimo, beninteso, se non fosse che in corrispondenza del mutamento ideologico cala anche, e vistosamente, la qualità dei dischi, ormai adagiati su un country leccato o un gospel di maniera, che predicano a un pubblico di convertiti. Il risultato, prevedibile, è la (auto)segregazione nel circuito country e nei media di area ideologica. Da cantore in gioventù di un Sud non opprimente sebbene orgoglioso delle sue radici, con gli anni Charlie Daniels è diventato l’archetipo del bianco sudista retrivo e bigotto; fine ingloriosa, quella dell’attrazione da strapaese, per uno dei musicisti più ispirati del rock stars and bars. Che lascia comunque un’eredità musicale di rilievo soprattutto nei dischi degli anni Settanta, tra cui svettano “Fire On The Mountain” (titolo omonimo di un famoso brano della Marshall Tucker Band, sui cui dischi Daniels ha ripetutamente suonato) e “Saddle Tramp”, oltre a una quantità notevole di affascinanti storie del Sud e degli Stati Uniti in generale, compreso qualche colpo di genio, come la lucidissima lettura del mondo (il suo, quantomeno) offerta da una strofa di Long-Haired Country Boy: “La ragazza povera vuole sposarsi/E la ragazza ricca vuole flirtare/L’uomo ricco va al college/E l’uomo povero va a lavorare/L’ubriaco vuole un altro sorso di vino/E il politico vuole il voto/Io non voglio praticamente niente/tranne che la ruota faccia un altro giro“.

Quest’oggi l’aquila volerà lenta e la bandiera sventolerà bassa, come aveva predetto lui stesso.

Goodbye, Mr. Daniels.

Humbly to express A penitential loneliness: Tommy Bolin – Teaser

tommy bolin-teaser

Quando è stata l’ultima volta che avete sentito parlare di Tommy Bolin? Onestamente.

Probabilmente da qualche profondo esperto viola, che vi rammentava dei talenti di quel chitarrista americano tanto capace quanto sfortunato, o pure scemo a sprecare l’occasione d’oro offertagli dall’essere chiamato a sostituire nientemeno che Sua Maestà Ritchie Blackmore, finendo male per contrappasso sostanzialmente faustiano, e passiamo oltre ché è meglio. Magari qualche critico vi ha segnalato che il nostro uomo, proprio quello che faceva annullare interi concerti per overdosi non richieste, era stato, prima e dopo, anche solista di vaglia, ma hai voglia a dare retta ai critici quelli veri, che ogni tanto ti imbeccano sul disco della vita, ma il più delle volte ti fanno comprare roba che sì però e se per caso ti tocca il com’è umano Lei. Ma anche là, che cosa ne sanno i critici, perlopiù? Chiedetevi quando è stata l’ultima volta che avete sentito parlare di Tommy Bolin e avrete la risposta.

Non è del Tommy Bolin che ventunenne ha già tre LP di hard blues all’attivo con gli Zephyr che ci occupiamo qui. Né del sostituto pieno di inventiva che seppe agevolmente calzare scarpe di taglia enorme quali quelle di Joe Walsh e Ritchie Blackmore. No, qui parliamo di Bolin come Bolin, Thomas Richard Bolin al servizio di se stesso. Parliamo di “Teaser”, l’album capolavoro. Quello che, foss’anche pretermesso il resto, proprio bisognerebbe avere ascoltato.

Lasciati gli Zephyr nel 1972, omaggiato il talento di Billy Cobham prestandogli il proprio sull’eccellente “Spectrum” (1973) e infine raccolto meno del previsto (commercialmente; come chitarrista nessuno mai ebbe dubbi) nei James Gang di “Bang” e “Miami”, nel 1975 il nostro uomo, a stento ventiquattrenne, debutta da solista con “Teaser”, nove brani per neanche trentotto minuti, ma di quelli che lasciano il segno: riassunto di stili chitarristici, l’album dimostra la versatilità di Bolin, a suo agio chitarristico nei cangianti panni del rocker tutto d’un pezzo (The Grind, che non poco insegnò ai Van Halen in termini di impatto e swing; Teaser, tra hard e funk color porpora profondo) come del jazzista che guarda a sud (la deliziosa bossa nova di Savannah Woman, sospinta dalle percussioni di Phil Collins), del libertario in levare (People, People, che fa vergognare Clapton anche solo di aver pensato di poter sparare allo sceriffo) e del fusionist consapevolmente post-hendrixiano (la strumentale Marching Powder, con ospiti Narada Michael Walden, Jan Hammer, Sammy Figueroa e David Sanborn), senza per questo dimenticare le abilità canore (la grinta di The Grind che trasmoda senza sforzo nella versatilità confidenziale di Wild Dogs), compositive (tutti i pezzi tranne uno sono firmati o cofirmati dal nostro uomo) e produttive, nonostante l’aiuto dei capaci Lee Kiefer e Danny MacKay e, soprattutto, l’uso di studi di punta come il Record Plant, gli Electric Lady e i londinesi Trident. Ma i suoni curati, lungi dal coprire carenze di idee, servono qui a esaltare una sostanza musicale di prim’ordine. Ogni pezzo è una sorpresa su “Teaser”, e il passaggio da uno stile all’altro è perfettamente naturale e, soprattutto, è porto con sicurezza e competenza tali da risultare sempre armonico e mai posticcio. Una lezione di eclettismo di cui è difficile non innamorarsi, se si hanno a cuore le musiche chitarristiche e ciò che ci ostiniamo ellitticamente a chiamare pop.

La Nemperor Records, nata un anno prima per volontà di Brian Epstein (quel Brian Epstein) e casa di delfini del jazz-rock del calibro di Jan Hammer e Stanley Clarke, coglie immediatamente l’occasione offertale da un talento così puro, ma nemmeno la distribuzione Atlantic di cui l’etichetta può fregiarsi consente a “Teaser” di decollare, complice anche l’entrata di Bolin nei Deep Purple poco dopo, con conseguente assenza di tournée promozionale del disco e, soprattutto, aggravarsi irrimediabile di una dipendenza da eroina iniziata molto presto e altrettanto presto divenuta ingovernabile, fino all’esito supremo, nella Miami di quel maledetto 4 dicembre 1976. Venticinque anni compiuti da poco e una vita davanti: ecco chi era Tommy Bolin, nonostante tutto.

Anche “Teaser” ha una vita davanti. Venite anche voi a ricordaglielo, prima che lui si ricordi di voi e, come ogni spacciatore che si rispetti, venga a vendervi il suo prodotto. Uno di quelli che ti svolta la giornata, ma solo fino a quella seguente. Uno stuzzichino, insomma. E allora ne vuoi ancora. E ancora. E ancora. Vuoi il pasto completo e non sei mai sazio. Finché, un giorno, a forza di pasteggiare, ti ritrovi a Miami.

And the road goes on forever: Gregg Allman (1947-2017)


E così da oggi non sentiremo più Gregg Allman intonare alcunché. La sua voce, la più grande voce del rock americano, un velluto tenorile squarciato e rappezzato con vibrante denim blues, una confessione accorata dell’impotenza umana di fronte alle ineluttabili miserie del mondo, una carezza porta da una mano screpolata, tace per sempre.

Da tempo la sua bellezza era sfiorita, vittima anche di quello stile di vita  che lo aveva condotto al trapianto di fegato ieri divenuto definitivamente inutile, ma dietro ai modi rallentati e alla favella esitante di un uomo che ha vissuto il blues con la stessa intensità con cui lo ha suonato e cantato si indovinavano ancora gli elementi che ne avevano determinato l’affermazione: un aspetto angelico (lunghi capelli biondi e penetranti occhi cerulei) mitigato da elementi canaglieschi (la barba incolta e le braccia ricoperte di tatuaggi) e un fascino carismatico che univa l’aura da rockstar predestinata alla casereccia cordialità tipicamente sudista. E poi, ma in realtà prima, un talento sconfinato per quella musica  catartica in dodici battute, che ha dapprima assimilata nel profondo e quindi contribuito in via primaria a reinventare con la band che portava il nome suo e del fratello Duane. Trovando per giunta il tempo di scrivere canzoni meravigliose come Whipping PostMelissa, Ain’t Wastin’ Time No More o quella Midnight Rider che è in un certo senso assurta a suo biglietto da visita.

Non a caso se ne è andato di notte. Senza lasciare che lo prendessimo. Buona cavalcata Gregg; so far so good.

E di Cher, di quando si sparò al piede per evitare la chiamata in Vietnam, o di quella volta che alla Casa Bianca si intrattenne con la madre di Jimmy Carter nella stanza da letto di Lincoln, fatevi raccontare da qualcun altro.

Dallas Powers: The Roomsounds – Elm St.

the roomsounds - elm st.
Lo ricorderanno tutti i lettori: Elm St. è la famigerata strada in cui per la prima volta si manifestava Freddy Krueger. Ma per gli appassionati di musica la cosa non si ferma qui, perché una via omonima esiste effettivamente a Dallas, Texas, ed è ab immemore l’epicentro (uno degli epicentri, quantomeno) della brulicante scena musicale cittadina.

Da questo microcosmo di creativi, sfaccendati, affamati o semplici curiosi vengono anche i Roomsounds. Un quartetto fondato da Ryan Michael, transfugo da trascorsi punk nel natio Connecticut, con il chitarrista Sam Janik, il bassista Red Coker e il batterista Dan Malone, con l’obiettivo dichiarato di far rivivere il migliore classic rock della tradizione a stelle e strisce, àuspici le migliori colonne portanti britanniche: e dunque via di Tom Petty & the Heartbreakers, Allman Brothers Band, blues elettrico, neo-garage d’inizio millennio, sprazzi country e tutto l’armamentario, ottimamente sorretto da un’immagine perfetta, vintage ma non oltranzista.

Del 2012 è il debutto “Ripper”, che irrompe sulla scena d’oltreoceano causando un certo qual passaparola per la qualità della proposta. Alla quale fa seguito ora, dopo tre anni e oltre duecentocinquanta concerti, il nuovo LP, intitolato giustappunto “Elm Street”, in uscita domani 25 marzo. Inciso a Muscle Shoals e già questo basterebbe; ma in realtà l’indicazione è fuorviante, perché, rispetto al passato, le tendenze melodiche sono aumentate a descapito dei decibel (“Mentre il nostro primo album era più rock ispirato dal blues, questa volta mi sono orientato maggiormente verso un’atmosfera power pop. Ho suonato una Rickenbacker per un po’, che in un certo senso si presta ad un jangle alla Beatles, Byrds e Tom Petty. E poi mi sono trovato ad approfondire band come i Badfinger, i Big Star, e Nick Lowe. Ma, alla fine, sono sempre quattro accordi nello spirito del rock ‘n’ roll“, ha dichiarato Ryan Michael, chitarrista-cantante e principale compositore), per un risultato comunque di ottimo livello. E, per sincerarsene prima di scucire i sudati denari, qui si può ascoltare in anteprima l’intero “Elm St.” in streaming.

Dei Black Crowes per il nuovo millennio? Chissà. Intanto, però, i Roomsounds sono pronti per riempire la stanza. La mia di sicuro. Spero non sia l’unica.

Andergraund Saund 3

Ed eccoci alla terza puntata di Andergraund Saund, rubrica che tenta di segnalare alcune realtà nazionali che si agitano nel sottobosco nondimeno meritevoli di ascolto e supporto. È questa una puntata a ranghi ridotti, ma la qualità delle proposte è così alta da compensare la penuria dei nomi. Giudicate voi.

GAME OVERGame Over - Crimes Against Reality
Il quartetto ferrarese è ormai al terzo LP, dopo anni di gavetta nell’underground metal nazionale (sono stati tra gli organizzatori delle due edizioni del Maelstrom Metal Fest, tenutosi anni fa nella città estense) ed internazionale (hanno suonato al festival tedesco Bang Your Head). Ma chi la dura la vince e, forti di un contratto con la Scarlet Records, i Game Over hanno man mano raffinato il loro classicissimo thrash metal, curando le melodie (vocali ma anche chitarristiche) e i suoni ma cercando nel contempo di mantenere l’impatto brutale che il genere richiede. Dopo “For Humanity”, un debutto notevole per scrittura ed esecuzione ma forse ancora grezzo nei suoni ed acerbo nei referenti, il secondo album “Burst Into The Quiet”, uscito nel 2014, vedeva il gruppo allungare i brani ed aggiungere tecnicismi, perdendo in foga ed impatto laddove guadagnava in produzione e in cesello. Ebbene, con questo nuovo lavoro, “Crimes Against Reality”, che uscirà il prossimo 15 aprile, i Game Over maturano definitivamente come musicisti e compositori: infatti, se il genere di riferimento è sempre il thrash della vecchia scuola, la scrittura si è fatta complessa ed articolata, a tratti decisamente progressiva, e la raffinatezza melodica ha raggiunto un livello davvero raro nell’underground metallico, specialmente di area thrash. Come se i quattro avessero tirato fuori le loro copie di “Somewhere In Time” e “Act III” e le avessero fatte girare ripetutamente prima di entrare in studio. E il risultato è davvero eccellente: se Neon Maniacs deve più di qualcosa ai Metallica di “Kill’em All”, With All That Is Left incrocia Megadeth, Testament e Metallica anni Novanta in un’avvincente semi-ballad, se Fugue in D Minor è la solita facezia breve dei thrasher, la title-track è un’avventura di oltre sette minuti che cita, fra l’altro, i Sacred Reich (il titolo, ma anche qualche passaggio) e il techno-thrash, senza scordare tempi dispari, arpeggi puliti e il sintetizzatore Moog, strumento quantomeno inusuale per il genere. Impeccabili i suoni, merito ancora una volta di Simone Mularoni e del suo Domination Studio (ma, ad ascoltare questo netto stacco stilistico rispetto al passato, c’è da pensare che Mularoni, che è anche il chitarrista dei progster DGM, abbia influenzato i Game Over pure dal punto di vista compositivo), e la copertina, illustrata da Mario Lopez (grafico cult in ambito metal), a sancire una stupefacente progressione qualitativa del gruppo, che lascia ben sperare per una sua affermazione anche a livello internazionale. Con ogni probabilità la scena underground thrash nostrana griderà al tradimento, ma c’è da dire che per avventurarsi sopra la superficie ci vogliono coraggio, determinazione, talento e vitalità, e di possedere tutti questi elementi, senza per questo snaturare la propria essenza sonora ed estetica, i Game Over stanno dando un saggio ulteriore ed esemplare. Nell’attesa di capire fino a dove possono arrivare, godiamoceli con un ottimo disco e uno show irresistibile dal vivo. Il mosh parte da qui.

GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS
general stratocuster and the marshals - dirty boulevard
Con un bassista italoamericano (Richard Ursillo) reduce da alcune rinomate avventure prog negli anni Settanta (i Sensation Fix, gli Sheriff e i Campo di Marte), un cantante (Jacopo Meille) mattatore metallico con i redivivi Tygers Of Pan Tang, un chitarrista (Fabio Fabbri) sessionman da decenni e un tastierista (Federico Pacini) e un batterista (Nuto) presi in prestito dalla Bandabardò, i fiorentini General Stratocuster And The Marshals sono al tempo stesso un supergruppo “all’uccelletto” e un divertissement per musicisti maturi senza più nulla da dimostrare. L’attitudine scanzonata, però, non significa certo sciatteria sonora o compositiva, e infatti il terzo LP “Dirty Boulevard”, uscito il 19 febbraio scorso, trova il gruppo in ottima forma sotto entrambi gli aspetti. Ma se il primo non conosce innovazioni, ché si tratta del solito rock blues che più classico ed analogico non si può, il secondo appare particolarmente brillante: Built To Last rotola lungo un’ipotetica highway come…beh, come cinque Pietre, Thank You Bob è un tributo a Dylan (nel testo) e Knopfler (nel suono), Going Down To Velvet Underground ha un ritornello memorabile e non sarebbe strano saperla dei Bad Company, Little Sparrow è fangosa e pesante come certo grunge; senza farsi mancare indovinati momenti di maggiore atmosfera, come l’introspettività elettroacustica di Piece Of Mind o il soul agrodolce di Hold Back The Tears. E poi tutto il resto (gli altri sei brani, la produzione raffinata ma “saporita” e la prova strumentale e vocale), che vale a porre “Dirty Boulevard” una spanna (leggasi “rilevantemente ma non troppo”) al di sopra dei suoi due predecessori e dimostra la vaglia del Generale Stratocuster e dei suoi Marshal (giudizio che un qualunque loro concerto amplificherà esponenzialmente, giacché questi sono musicisti nati per stare sul palco e intrattenere, e lì danno il meglio di sé). Non si tratta di un gruppo propriamente underground, data la visibilità degli altri progetti dei suoi membri ed anche la sua (la partecipazione al Pistoia Blues Festival del 2012, ad esempio), ma si ha sempre la sensazione che i cinque raccolgano meno di quanto meritano. E dunque il tentativo di dare loro secondo i meriti passa anche da qui. E, soprattutto, da qui.

Non fa più fermate, neanche per pisciare: Cinderella – Heartbreak Station

  
Posseggo questo disco. Ne ho una copia in CD di importazione americana, di quelle con l’adesivo di plastica bianca a cavallo della sommità della custodia, che, una volta rotto il cellofan, devi ingegnarti per togliere senza lasciare un’antiestetica quanto irremovibile scia di colla sul lato anteriore della jewel case. Ne vado orgoglioso, anche se ormai lo ascolto poco. Apparentemente non c’è nulla di cui andare orgogliosi, specialmente in un’epoca in cui bastano pochi clic per impadronirsi di interi corpi d’opera, ma un motivo in questo caso c’è, anche se non riguarda il disco in sé ma l’oggetto-disco.

“Heartbreak Station” è un regalo. Ma non un regalo vero e proprio; più una gentilezza su commissione. Del tipo “Ah, ma vai in America? Non è che potresti portarmi un disco e poi ti do i soldi?“, che poi magari i soldi non riuscivi neanche a darli, perché a volte il commissionario rifiutava insistentemente e a te non restava che ringraziare, non senza un filo di imbarazzo. Una gentilezza di quelle che si usavano fino a qualche tempo fa e a volte si usano ancora tra amici (e la preservazione dell’amicizia è motivo di per sé sufficiente ad auspicare l’abbandono del TTIP). Ma in questo caso la gentilezza proveniva da un rapporto meta-amicale, e infatti la commissione “Dall’America per piacere portami “Heartbreak Station”” si è col senno di poi rivelata tristemente profetica, il titolo dell’album un amaro scherzo di un destino beffardo.

Terza uscita discografica per i Cinderella, “Heartbreak Station” vedeva la luce nel 1990 e segnava la piena affermazione di identità da parte del quartetto di Philadelphia: via cerone e permanenti, dentro camicie di jeans e stivali da cowboy; abbasso le chitarre fluorescenti e i cori riverberati, largo alle acustiche ed alla produzione polverosa. In due parole: basta con gli Ottanta, ora sono i Novanta. Guardate la copertina, d’altronde: baracche di legno, una Gibson Firebird, un dobro, scenari notturni. Bello scarto rispetto alla foto abbagliante sul frontespizio del debutto “Night Songs”, uscito nel 1986 e parto di un gruppo col senno di poi irriconoscibile, nonostante l’intermedio “Long Cold Winter”, classe ’88, fornisse avvisaglie sonore dei futuri sviluppi. E certo, per quanto lungo e freddo, era un inverno del malcontento quello che nella seconda metà degli Ottanta portava i primi due LP dei nostri nelle zone alte delle classifiche di vendita e Cenerentola all’esclusivo e sardanapalesco ballo che ivi si tiene. Lo scoccare di mezzanotte, però, era dietro l’angolo, e Cenerentola se ne sarebbe accorta eccome.

L’inizio dei Novanta era il momento giusto per un cambiamento sonoro così netto, visto che proprio allora l’hard rock radiofonico riscopriva le sue radici blues e cercava di lasciarsi alle spalle le pastoie glam per correre nuovamente libero e selvaggio, o quantomeno provarci. Era la cosa giusta da fare, a quel tempo. Ebbene, “Heartbreak Station” fu la cosa giusta da fare, il definitivo cambio di muta per potersi muovere a proprio agio. Fu la cosa giusta da fare, ma apparve tale col senno di poi: sul momento il pubblico non colse e frustrò le aspettative della banda di Tom Keifer, che raccolse dati di vendita dimezzati rispetto al passato (“solo” un milione di copie, a fronte dei due di ciascuno degli LP precedenti) e poté solo guardare dal basso la Top 20 di Billboard. I tempi stavano cambiando, è vero, ma si era pur sempre nel clima socio-economico del tardo reaganismo (del quale Bush padre fu sostanzialmente un curatore fallimentare) ed era difficile che una delle formazioni più vistose e celebrate dell’era glam metal potesse indossare i panni dei rocker tutti d’un pezzo e down to earth, in diretta dall’era di Nixon o Carter, senza apparire opportunista o patetica agli occhi del pubblico. E da questo fallimento commerciale in poi fu un rapido slittamento nell’abisso, causato dal cambiamento repentino nei gusti del pubblico e nelle priorità delle case discografiche e dall’infortunio alla laringe che costrinse il leader Tom Keifer, e quindi il gruppo, allo stop forzato per anni, fino, cioè, a quel 1994, annus horribilis per hard rock classico e dintorni, in cui il pur pregevole ed a tutt’oggi ultimo “Still Climbing” certificò definitivamente che la scarpetta di cristallo del successo non calzava ai Cinderella.

Sfortuna, senza dubbio. Ma anche un certo senso di malinconia e rassegnazione che serpeggia all’interno del terzo album, inconsciamente orientandolo verso l’esito “o la spacca” nel proverbiale dilemma. Come se nella scrittura del quartetto si fosse insinuata una sorta di disincantata saggezza, maturata in anni di dura gavetta a tutti i livelli del chiassoso circo elettrico del rock, pervadendo solchi che, quasi per contrappasso, non dimostrano alcuna fiacchezza ed anzi traboccano di intensità. Però il contrasto c’è e si sente. Provate ad ascoltare l’opener The More Things Change, per esempio: riff di slide che neanche Allen Collins, un due quarti di batteria compatto ma frizzante, fiati che randellano e cori orgiastici; e però quel testo così crudo, quel ritornello che è una smorfia stridula sulla durezza della realtà: “Più le cose cambiano/più restano le stesse/Chiunque è tuo fratello/finché non ti giri dall’altra parte/Più le cose cambiano/più restano le stesse/Tutto ciò che ci serve è un miracolo/che venga a portarci tutti via dal dolore“. Non c’è speranza, insomma; anche se la musica sembra suggerire il contrario. Per non dire della storia di amore finito senza condizionale della seguente Love’s Got Me Doin’ Time, che mescola il rock duro ad un funk intenso e pungente, animato dal wah wah chitarristico. O del singolo Shelter Me, una delle rievocazioni migliori in assoluto del suono dei Rolling Stones di inizio Settanta, una Sweet Virginia per l’era del politically correct e del crack che racconta disincantata di come a tutti serva un nascondiglio nella vita, qualcosa a cui appoggiarsi per attraversarla col minor danno possibile, per cui quelli che puntano un dito accusatorio verso quanto a loro sgradito farebbero meglio a vivere e lasciar vivere, perché, sottolinea Keifer, “per guardare in un armadio ci vuole più di una chiave” e una volta che l’hai aperto chissà cosa puoi trovarci dentro. E ancora One For Rock ‘n Roll, country che a tratti trascolora nel southern per manifestare l’orgoglio di aver vissuto gli anni Sessanta, quando “people made the music and the music made them free“, età dell’oro da contrapporre alle miserie del presente (gli anni Ottanta conclusi di un soffio), e Dead Man’s Road, Delta blues vitaminizzato e di atmosfera western per un’asciutta narrazione di come la vita valga quanto un granello di sabbia e il vento del deserto possa spazzarla via con altrettanta facilità, per cui è meglio non giocarsela con leggerezza. È la vita che alza polvere, e la musica non fa che seguirne la scia, lordandosi della stessa polvere. 

“Heartbreak Station” fece poche fermate, e nessuna in luoghi ameni. Eppure era progettato per viaggiare spedito sui binari. Peccato, peccato davvero. Però va così nella vita: talvolta scendi alla stazione sbagliata, talvolta sei alla stazione giusta ma perdi l’unico treno. E in quest’ultimo caso, come saggiamente suggerisce la title-track (ballatona di prammatica in quei giorni, qui spennata di ogni afflato power, infarinata nel country e moderatamente speziata di grandeur orchestrale), pensi che ricomincerai da un nuovo inizio. Pensi. Ecco, accetta un consiglio, caro lettore: pensalo, e poi fallo anche. E un CD in edizione americana compratelo online.

Il secondo secondo me: Mr. Wob And The Canes – The Ghost Of Time


Qualcuno ha lasciato aperte le gabbie. Di nuovo. E di nuovo i Cani sono scappati, con la lingua a penzoloni e la voglia di libertà. E di nuovo alla loro testa c’era un segugio di nome Mr. Wob.

Dopo due anni sono ancora liberi, ma non più latitanti. E due anni non sono pochi, specie per un randagio: provateci voi a vagare senza meta (o con troppe mete, ciò che è lo stesso) in cerca di pubblico e musica, di note e parole. Però chi vaga e viaggia ha storie da raccontare, quando torna. Se torna. Ebbene, Wob e i Canes sono tornati.

Apparentemente “The Ghost Of Time” (uscito a maggio 2015) non dovrebbe differire di molto dal suo predecessore: stessi musicisti, stesso studio, stesso progetto, stesse tematiche. E invece no. È adagio comune che il secondo sia l’album più difficile di una carriera, perché richiede di confermare ciò che di buono il debutto aveva lasciato intravedere nel contempo affinando le asperità dell’inevitabilmente meno maturo esordio. Operazioni che possono stroncare una carriera, perché complesse e spesso compiute senza reale autonomia di giudizio o anche solo accortezza, in dispregio della sostanza del contenuto e con in mente altre e più pressanti esigenze, non da ultimo di carattere mercantile. Non così i nostri tre canidi, che hanno debitamente ponderato il ritorno, incidentalmente ed una volta di più dimostrando di possedere apprezzabile spessore artistico e rammentando al pubblico l’idea che il ruolo del musicista contempla un percorso, e dunque manifestando la loro necessità di spaziare per trovare, o addirittura tracciare, il proprio. 

Ecco quindi il trio lasciare sullo sfondo le più spiccate ambientazioni voodoo che avevano reso affascinante “Invitation To The Gathering” (operazione non solo metaforica; basta guardare la copertina), utilizzandole come base per esplorare nuove e più variegate sonorità, anche con l’ausilio di altri e diversi strumenti, perché qui tromba, trombone e organo Hammond prendono il posto di armonica e fife, che avevano insaporito il primo album.

Il risultato? Interessante. Aggettivo il cui utilizzo non serve per avanzare la solita stroncatura mascherata, ma per descrivere esattamente ciò che la musica qui contenuta suscita: interesse. Perché la carne al fuoco è molta e di ampia varietà, anche se la qualità delle pur variegate pietanze è, curiosamente, altalenante: se, infatti, l’apertura con Time Is Gone, litania monocorde ed amelodica dall’incedere minaccioso, sconcerta ed un po’ tedia, 2 o’ Clock blues deliziosamente gigioneggia tenendo il piede in due staffe, residenza a Congo Square e domicilio al Cotton Club, il banjo il contatto con la Big Easy di Kid Ory e la tromba e l’andamento pigramente swingante un ponte gettato verso la Big Apple della big band era; e mentre Coward Blues, a dispetto del nome, profuma di Mediterraneo e sembra De Andrè accompagnato da una PFM a organico dimezzato, Bourgeois gal, trascinante e sorretta da un’ottima slide acre, è esposta con voragine ellenica nei confronti della versione “cremosa” di Crossroads come della Rollin’ And Tumblin’ del Calore Inscatolato; e la dicotomia prosegue, perché l’incedere a passo di marcia rende il pacato folk delle isole britanniche che anima la seguente Ohio State davvero toccante, mentre il dinoccolato shuffle di Blue Blue si atteggia da tenebroso senza esserlo appieno. Un discorso a parte richiede, poi, la rilettura di Come On In My Kitchen, che cerca di coniugare pigrizia sudista e ritmiche frammentate di sapore quasi hard-bop, riuscendo nell’esperimento solo a metà e dimostrando che il repertorio del più grande bluesman di sempre è difficile da maneggiare per chiunque, tanto che questa interlocutoria versione di uno dei classici di Robert Johnson si pone, per intenti ed esiti, in un curioso parallelismo con quella offerta dalla Allman Brothers Band su “Shades Of Two Worlds”. Poco male, perché a risollevare le cose ci pensa un trittico finale di assoluto valore: prima This Nation, una coinvolgente zingarata che il banjo trascina a rotta di collo, ricreando un’atmosfera picaresca simile a quella di diversi pezzi del primo album; quindi l’irresistibile The Real Old BLUSE, forse il brano migliore del lotto, in cui il rhythm ‘n’ blues si incrocia nientemeno che col mambo, complici fiati sbarazzini e una ritmica su cuscinetti a sfera; infine una Just Lies che, pur con indubbie reminiscenze nordamericane, è nondimeno una cartolina dall’Africa Nera. Perché la vita è un grande cerchio e deve chiudersi laddove è cominciata. Laddove gli sciacalli non hanno pretese di essere altro che sciacalli, e dove i cani possono infine fare i cani.

Ora dovrebbe venire la parte “tecnica”, che dovrebbe riferire dei suoni e della registrazione. Risparmiatemela, ché siamo tra amici; basta sottolineare che tutto è fatto a regola d’arte. Tutto. A parte la scelta di inframezzare i brani con sei piccoli sketch sonori, di pochi secondi ciascuno, che dovrebbero simboleggiare altrettante apparizioni spettrali, visto che si intitolano tutti Ghost # e sono ordinati progressivamente. La ragione di tale scelta non mi è chiara, perché lo scorrimento del disco ne viene pregiudicato, mentre è difficile coglierne l’eventuale funzione “narrativa” e collocarla all’interno dell’ascolto. Ma non importa, perché coi fantasmi è inutile cercare ragioni: quelli, delle ragioni, non sanno che farsene. Perché le ragioni appartengono alla vita e, una volta trascorso il tempo, non resta che un’ombra di ciò che fu. Ma anche in vita il fantasma del tempo non commercia in ragioni, ma in sentimenti. Normalmente lo fa in silenzio, ma a volte si fa preannunciare. Dai segnali più strani. A volte persino dall’abbaiare di un cane. O dei Cani.

Indubbio stacco stilistico e, ad onta dei  descritti saliscendi qualitativi, notevole passo avanti rispetto all’opera prima, “The Ghost Of Time” lancia definitivamente Mr. Wob And The Canes nell’orbita di quelli che hanno qualcosa da dire in ambito musicale. Scusate se è poco.

P.S.: anche questo album è autoprodotto, e potete procurarvelo, con poco sforzo e spesa contenuta, qui. Se lo farete, senz’altro migliorete la vita di tre o più musicisti, ma forse anche la vostra. Pensateci.

Nor any drop to drink: Datura4 – Demon Blues

datura4 - demon blues

Dom Mariani è un genio del power pop da autorimessa, e facciano fede i dischi di Stems, Someloves e DM3. Chris Hitchcock sa usare la sei corde per suadere ma anche scalciare, come dimostrano i suoi contributi ai You Am I e ai Monarchs. Warren Hall sorregge l’elettricità dei Drones e dei Volcanics con una tempesta di tamburi, mentre Stu Loasby tiene il beat solido e compatto con la sola forza di quattro corde. Insieme sono i Datura4.

Un supergruppo? Non proprio, a meno che non si sia patiti terminali di Oz rock, quella mistura personale e sui generis, devota ai Sixties inglesi e americani come al punk (che proprio nella terra dei canguri conosceva alcune delle sue declinazioni in assoluto più convincenti), essenziale ed eccitante ma sempre irresistibilmente melodica, che negli anni Ottanta, con propaggini fino a metà Novanta, suscitò un vasto culto, progressivamente rarefattosi ma nel contempo radicalizzatosi. Ma qui non c’è traccia (va bene, forse un paio di reminiscenze) di rock australiano propriamente inteso, perché i Datura4 (nome orribile, per inciso) si rifanno anima e corpo, corde e pickup, al primo hard rock, quello nato in esito ai Sessanta dalla British Invasion come forma estremizzata di blues elettrificato pensata per l’era della coscienza espansa e proiettata nel tempo dell’amore libero e del Vietnam.

È, quindi, il suono delle valvole a tenere banco in “Demon Blues”, titolo omen e copertina ancor di più, debutto del quartetto di Fremantle che fa seguito a quattro anni di prove e scrittura. Opera riuscita nell’intento di richiamare l’atmosfera potente ed estesa del rock del periodo 1968-1972 circa, apportandovi il saggio accorgimento di restare ancorati alla forma-canzone (Dom Mariani è da sempre maestro in questo), senza lasciare che le lungaggini delle jam strumentali offuschino la scrittura e, appunto, la canzone, vera e propria unità atomica della musica popolare. Impatto, groove, suoni caldi, distorsioni analogiche, pentatoniche esibite e mai rinnegate, tecnica strumentale dosata con perizia e l’obbligatorio inchino al “culto del riff” (definizione geniale nella sua pregnanza; tutto merito loro): ecco cosa aspettarsi da questo disco, uscito oggi stesso per la Alive Records (ma negli USA i diritti sono della storica Bomp!, che ha approntato un’edizione limitata in vinile colorato e con copertina differente).

Forse non esente dal sospetto di commercialità, visto il fermento che attraversa il filone stoner/classic rock (o come volete chiamare il rispolvero del tipico sound dell’hard primevo) in questa decade, e vista, tutto sommato, l’estraneità rispetto a queste sonorità dei musicisti coinvolti, le cui carriere parlano di altri referenti sonori, ancorché spesso coevi di quelli di questo progetto, tuttavia “Demon Blues” risulta un lavoro godibile e ben realizzato sotto ogni aspetto, anche se non tutto è memorabile e qualche carenza nella scrittura, ad onta dell’esperienza degli autori (ma non, come detto, in questo sottogenere del rock), dovrà essere superata nel futuro; compito, peraltro, all’altezza del quale Mariani & co. sono certamente.

Nome da tenere d’occhio per chi si interessa di sonorità dure di matrice tradizionale, i Datura4 potrebbero rivelarsi una vera sorpresa, oppure una grossa occasione mancata. Speriamo nella prima ipotesi, ma chi vivrà ascolterà. Per intanto ascoltiamo.

Breve interludio: Left Lane Cruiser – Dirty Spliff Blues

left lane cruiser - dirty spliff bluesA sentire i tre dell’Indiana (Frederick “Joe” Evans IV alla chitarra e voce, Pete Dio alle percussioni e all’armonica e Joe Bent al basso e, udite udite!, allo skateboard, usato come strumento), per incidere questo album, l’ottavo nonché il quinto dal 2011, non sono stati usati dirty spliffs, ma solo quelli che dalle mie parti si definiscono “purini”. Blues “stonato”, dunque? Sì, ma non solo, perché i Left Lane Cruiser si rifanno in maniera diretta al punk blues di scuola Fat Possum, quello elettrico emerso dal profondo del Mississippi e inciso con modalità che definire “a bassa fedeltà” è eufemistico. Dieci gli episodi messi in campo in questo nuovo lavoro, pubblicato il 16 giugno scorso. I cui referenti sono abbastanza ovvi, ma il risultato è, al solito, ampiamente godibile: l’iniziale Tres Borrachos omaggia gli ZZ Top sia nel titolo sia nell’andamento, Whitebread N’ Beans ricorda i migliori episodi dei primi, irsuti Black Keys, Elephant Stomp dondola alla maniera del vecchio Sud e, in generale, si respira un’atmosfera elettrica ma pigra, dove la slide raschia le orecchie come il bourbon la gola e le radici vengono ripiantate in un humus giovane e fertile. Johnny Winter (notevole la somiglianza vocale tra lui e Joe Evans) non è morto: vive ancora nel Mississippi e incide su un malandato due piste con l’aiuto di un paio di punk. Che vanno in skateboard.

Ex uno plures

Negli ultimi tempi ho accumulato numerosi ascolti, ognuno dei quali variabilmente interessante ed a suo modo meritevole di trattazione. Così ho deciso di cambiare approccio: non più una narrazione ampia, ma brevi recensioni dei dischi interessati, a mo’ di rivista. Chissà che funzioni. Buona lettura (e, spero, buon ascolto).


D.O.A. – Bloodied But Unbowed

Se ritenete sufficiente per valutare i D.O.A. il fatto che il loro leader sia soprannominato “testa di merda”, ripensateci. E nessuna occasione è migliore di questa eccellente antologia, che raccoglie le incisioni effettuate dal trio canadese tra il 1978 (anno di fondazione) e il 1983, dotate di un nuovo mixaggio che ne esalta la potenza. Voltaggio elevato, energia a profusione, dissenso sociale e, soprattutto, una sorprendente varietà, che impedisce di confondere l’un con l’altro i diciannove pezzi pur mantenendo la coerenza stilistica complessiva. Lo chiamano punk, ma in verità questo è rock ‘n’ roll del più puro e migliore, sanguinante ma con la schiena dritta come da titolo.


Dollhouse – Royal Rendez-vous

Gli svedesi lo fanno meglio. Il rock ‘n’ roll senza dubbio. Specie se si tratta di riesumare suoni eccitanti e a bassa fedeltà, in diretta dai migliori episodi dei Sessanta e Settanta. I Dollhouse erano partiti a inizio millennio con una miscela esplosiva di rock verace e grezzo e soul-funk essenziale ma dal groove irresistibile, entrambi di provenienza Detroit, e hanno progressivamente limato la seconda componente, spostandosi verso un rock più hard ma sempre memore dell’approccio lo-fi. Questo secondo LP, uscito nel 2006, li fotografa all’atto del cambiamento, ma l’integrità e la fedeltà alle radici garagistiche sono aiutate dalla produzione di Sua Maestà Nicke “Royale” Andersson, che permette ai Dollhouse di migliorare l’aspetto melodico pur non limitandone l’istinto alla jam, apprezzabilmente sfogato nei sei minuti della conclusiva I Just Don’t Care. Personalmente preferisco il debutto “The Rock And Soul Circus” (2004), ma i Dollhouse restano un cocktail di sicuro gradimento per chi si disseta abitualmente di MC5, Black Keys e Black Crowes.


Black Rainbows – Supermothafuzzalicious!!

Il migliore disco di stoner rock mai uscito in Italia. “Esagerato!”, penserete. Ebbene, provare per credere. Il terzo album del trio romano (del quale è cantante, chitarrista e compositore Gabriele Fiori, animatore anche dei Killer Boogie e patron dell’etichetta specializzata Heavy Psych Sounds, per la quale pubblicano gli stessi Black Rainbows) è un Moloch di potenza e groove come se ne vedono pochi, nel quale le ovvie derivazioni sabbathiane sono masticate e risputate fuori con suoni devastanti e indovinati dal primo all’ultimo: Burn Your Nation ci martella sulla testa senza pietà, Behind The Line ruba con stile il riff alla zeppeliniana Moby Dick senza per questo arretrare di un millimetro, e via così fino allo shuffle narcotico di Cosmic Flower Blues. Velocità non elevatissima, ma è sempre contro un muro che ci si va a schiantare. Siete avvertiti.


The Nomads – Showdown 2 – The 90’s

I Nomads sono i padrini del garage revival svedese fin dai primi anni Ottanta, e sulla loro scia sono nate nel Regno gialloblù moltissime band dedite al recupero dei suoni più spontanei, eccitanti ed istintivi del passato del rock. Ma, nonostante una fama di culto diffusa in tutta Europa e soprattutto negli U.S.A., i nostri non sono rimasti fermi e hanno raffinato costantemente il proprio sound, aggiungendovi dosi sempre più consistenti di influenze di scuola Detroit come pure di pop, mossa che ha ispirato molte formazioni poi salite alla ribalta nella breve stagione dello Scan rock: Hellacopters in testa, ma anche Flamin’ Sideburns, Thunder Express, Backyard Babies e altri. E così, per tributare i giusti onori ad una formazione più influente di quanto normalmente ritenuto (in Svezia non c’è gruppo rock che non riconosca la grandezza dei Nomads), ecco la seconda parte della antologia “definitiva” del gruppo, che raccoglie quarantadue brani, equamente divisi in due CD: il primo contiene il meglio dei lavori usciti negli anni Novanta (“Sonically Speaking”, “Powerstrip”, “The Cold Hard Facts Of Life”), mentre il secondo assomma episodi rari e più interessanti, dalle cover di Suicide (Magdalena ’93) e Saints (Demolition Girl) a brani originali estratti da 7 pollici di vinile stampati in tirature esigue da etichette spesso minuscole, fino all’eccellente  tetralogia finale di riletture dal vivo, che traccia il manifesto stilistico dei Nomads come meglio non si potrebbe: Dictators (Minnesota Strip), Dead Kennedys (Let’s Lynch The Landlord), Saints (il classico (I’m) Stranded) e la devastante Kick Out The Jams finale, con ospiti alla chitarra Ross The Boss, Wayne Kramer e – ancora lui! – Nicke Royale. Poco meno che imperdibile.

 Killing Floor – Killing Floor

Nonostante il nome che richiama uno dei brani più famosi di Howlin’ Wolf, questo classico minore del British blues non sfrutta il consolidato repertorio afroamericano per rileggerlo con energia giovanile e tipicamente rock, formula consolidata già da tempo all’epoca della pubblicazione, nel 1969. I Killing Floor, infatti, preferirono fare di testa propria, scrivendo autonomamente undici brani e affidando la dimostrazione della loro devozione alle radici alla sola Woman You Need Love di Willie Dixon (chiedete a Page e Plant se la conoscono). E se la decisione non pagò in termini commerciali, anche a causa dei dissidi interni al gruppo, il tempo ha fatto giustizia della riproposizione scarnificata e riarsa delle dodici battute a firma Killing Floor, dove un’armonica ululante graffia e morde come un lupo e la Gibson SG punge e ronza come un’ape da miele, senza scordare un pianoforte spumeggiante, autore in solitaria di due brevi ed autonomi intermezzi solisti, uno di stampo classicheggiante e l’altro un distillato di boogie. Energia e pathos, come è del migliore blues elettrico, con il quid pluris della scoperta di un tesoro semisepolto. Certo, si può vivere anche senza, ma perché vivere peggio?


Avvoltoi – Amagama

Da profeti del ritorno del bitt (la versione italiana del beat, che invase lo spettro sonoro nazionale nei Sessanta) negli anni Ottanta, gli Avvoltoi si sono trasformati in un’entità musicale sui generis: autori ormai maturi (merito anche di una formazione rimaneggiata, che oggi vede in organico il veterano Dome La Muerte), sanno coniugare la tradizione con una conoscenza ampia del rock e dei suoi modi. E così si passa con cognizione di causa dalla frenesia fuzzata di Storia Di Una Notte alla rilettura di Eh Eh Ah Ah del Balletto di Bronzo costruita su un riff boogie (che, poche ciance, è quello di La Grange), dalla malinconia muscolare di Federica ad una Quando Sarai Tu che congiunge i New Trolls di Una Miniera al Ligabue più meditabondo, fino alla cover conclusiva di Un Figlio Dei Fiori Non Pensa Al Domani che chiude l’album riportando tutto a casa (giusto per restare in Emilia). Indovinati i suoni,  impeccabili nel loro connubio di definizione e delicatezza, come pure l’artwork in giallo-marrone, che suggerisce in anticipo le atmosfere sobrie del disco. Gli Avvoltoi non si cibano solo di carne morta, basterà che porgiate loro le orecchie per rendervene conto.