Negli ultimi tempi ho accumulato numerosi ascolti, ognuno dei quali variabilmente interessante ed a suo modo meritevole di trattazione. Così ho deciso di cambiare approccio: non più una narrazione ampia, ma brevi recensioni dei dischi interessati, a mo’ di rivista. Chissà che funzioni. Buona lettura (e, spero, buon ascolto).

D.O.A. – Bloodied But Unbowed
Se ritenete sufficiente per valutare i D.O.A. il fatto che il loro leader sia soprannominato “testa di merda”, ripensateci. E nessuna occasione è migliore di questa eccellente antologia, che raccoglie le incisioni effettuate dal trio canadese tra il 1978 (anno di fondazione) e il 1983, dotate di un nuovo mixaggio che ne esalta la potenza. Voltaggio elevato, energia a profusione, dissenso sociale e, soprattutto, una sorprendente varietà, che impedisce di confondere l’un con l’altro i diciannove pezzi pur mantenendo la coerenza stilistica complessiva. Lo chiamano punk, ma in verità questo è rock ‘n’ roll del più puro e migliore, sanguinante ma con la schiena dritta come da titolo.

Dollhouse – Royal Rendez-vous
Gli svedesi lo fanno meglio. Il rock ‘n’ roll senza dubbio. Specie se si tratta di riesumare suoni eccitanti e a bassa fedeltà, in diretta dai migliori episodi dei Sessanta e Settanta. I Dollhouse erano partiti a inizio millennio con una miscela esplosiva di rock verace e grezzo e soul-funk essenziale ma dal groove irresistibile, entrambi di provenienza Detroit, e hanno progressivamente limato la seconda componente, spostandosi verso un rock più hard ma sempre memore dell’approccio lo-fi. Questo secondo LP, uscito nel 2006, li fotografa all’atto del cambiamento, ma l’integrità e la fedeltà alle radici garagistiche sono aiutate dalla produzione di Sua Maestà Nicke “Royale” Andersson, che permette ai Dollhouse di migliorare l’aspetto melodico pur non limitandone l’istinto alla jam, apprezzabilmente sfogato nei sei minuti della conclusiva I Just Don’t Care. Personalmente preferisco il debutto “The Rock And Soul Circus” (2004), ma i Dollhouse restano un cocktail di sicuro gradimento per chi si disseta abitualmente di MC5, Black Keys e Black Crowes.

Black Rainbows – Supermothafuzzalicious!!
Il migliore disco di stoner rock mai uscito in Italia. “Esagerato!”, penserete. Ebbene, provare per credere. Il terzo album del trio romano (del quale è cantante, chitarrista e compositore Gabriele Fiori, animatore anche dei Killer Boogie e patron dell’etichetta specializzata Heavy Psych Sounds, per la quale pubblicano gli stessi Black Rainbows) è un Moloch di potenza e groove come se ne vedono pochi, nel quale le ovvie derivazioni sabbathiane sono masticate e risputate fuori con suoni devastanti e indovinati dal primo all’ultimo: Burn Your Nation ci martella sulla testa senza pietà, Behind The Line ruba con stile il riff alla zeppeliniana Moby Dick senza per questo arretrare di un millimetro, e via così fino allo shuffle narcotico di Cosmic Flower Blues. Velocità non elevatissima, ma è sempre contro un muro che ci si va a schiantare. Siete avvertiti.

The Nomads – Showdown 2 – The 90’s
I Nomads sono i padrini del garage revival svedese fin dai primi anni Ottanta, e sulla loro scia sono nate nel Regno gialloblù moltissime band dedite al recupero dei suoni più spontanei, eccitanti ed istintivi del passato del rock. Ma, nonostante una fama di culto diffusa in tutta Europa e soprattutto negli U.S.A., i nostri non sono rimasti fermi e hanno raffinato costantemente il proprio sound, aggiungendovi dosi sempre più consistenti di influenze di scuola Detroit come pure di pop, mossa che ha ispirato molte formazioni poi salite alla ribalta nella breve stagione dello Scan rock: Hellacopters in testa, ma anche Flamin’ Sideburns, Thunder Express, Backyard Babies e altri. E così, per tributare i giusti onori ad una formazione più influente di quanto normalmente ritenuto (in Svezia non c’è gruppo rock che non riconosca la grandezza dei Nomads), ecco la seconda parte della antologia “definitiva” del gruppo, che raccoglie quarantadue brani, equamente divisi in due CD: il primo contiene il meglio dei lavori usciti negli anni Novanta (“Sonically Speaking”, “Powerstrip”, “The Cold Hard Facts Of Life”), mentre il secondo assomma episodi rari e più interessanti, dalle cover di Suicide (Magdalena ’93) e Saints (Demolition Girl) a brani originali estratti da 7 pollici di vinile stampati in tirature esigue da etichette spesso minuscole, fino all’eccellente tetralogia finale di riletture dal vivo, che traccia il manifesto stilistico dei Nomads come meglio non si potrebbe: Dictators (Minnesota Strip), Dead Kennedys (Let’s Lynch The Landlord), Saints (il classico (I’m) Stranded) e la devastante Kick Out The Jams finale, con ospiti alla chitarra Ross The Boss, Wayne Kramer e – ancora lui! – Nicke Royale. Poco meno che imperdibile.
Killing Floor – Killing Floor
Nonostante il nome che richiama uno dei brani più famosi di Howlin’ Wolf, questo classico minore del British blues non sfrutta il consolidato repertorio afroamericano per rileggerlo con energia giovanile e tipicamente rock, formula consolidata già da tempo all’epoca della pubblicazione, nel 1969. I Killing Floor, infatti, preferirono fare di testa propria, scrivendo autonomamente undici brani e affidando la dimostrazione della loro devozione alle radici alla sola Woman You Need Love di Willie Dixon (chiedete a Page e Plant se la conoscono). E se la decisione non pagò in termini commerciali, anche a causa dei dissidi interni al gruppo, il tempo ha fatto giustizia della riproposizione scarnificata e riarsa delle dodici battute a firma Killing Floor, dove un’armonica ululante graffia e morde come un lupo e la Gibson SG punge e ronza come un’ape da miele, senza scordare un pianoforte spumeggiante, autore in solitaria di due brevi ed autonomi intermezzi solisti, uno di stampo classicheggiante e l’altro un distillato di boogie. Energia e pathos, come è del migliore blues elettrico, con il quid pluris della scoperta di un tesoro semisepolto. Certo, si può vivere anche senza, ma perché vivere peggio?

Avvoltoi – Amagama
Da profeti del ritorno del bitt (la versione italiana del beat, che invase lo spettro sonoro nazionale nei Sessanta) negli anni Ottanta, gli Avvoltoi si sono trasformati in un’entità musicale sui generis: autori ormai maturi (merito anche di una formazione rimaneggiata, che oggi vede in organico il veterano Dome La Muerte), sanno coniugare la tradizione con una conoscenza ampia del rock e dei suoi modi. E così si passa con cognizione di causa dalla frenesia fuzzata di Storia Di Una Notte alla rilettura di Eh Eh Ah Ah del Balletto di Bronzo costruita su un riff boogie (che, poche ciance, è quello di La Grange), dalla malinconia muscolare di Federica ad una Quando Sarai Tu che congiunge i New Trolls di Una Miniera al Ligabue più meditabondo, fino alla cover conclusiva di Un Figlio Dei Fiori Non Pensa Al Domani che chiude l’album riportando tutto a casa (giusto per restare in Emilia). Indovinati i suoni, impeccabili nel loro connubio di definizione e delicatezza, come pure l’artwork in giallo-marrone, che suggerisce in anticipo le atmosfere sobrie del disco. Gli Avvoltoi non si cibano solo di carne morta, basterà che porgiate loro le orecchie per rendervene conto.