
Nessuno dotato di occhi e orecchie funzionanti può negare che la civiltà umana proceda per ibridazione: che riguardi persone propriamente dette o investa solo usanze ed abitudini, che venga accolto entusiasticamente o incontri una fiera opposizione, il meticciato è una costante in un certo senso inevitabile della storia umana, a causa della natura sociale e della sostanziale curiosità che caratterizza la specie. E questa caratteristica di ibridazione è particolarmente riscontrata nelle arti, invenzione umana per eccellenza. Tuttavia, a volte capita che differenti gruppi di persone, stanziati su territori diversi e dunque creatori e portatori di culture distinte, dovendosi misurare con l’esigenza di esprimere i propri sentimenti (questi, invece, sempre uguali ovunque), inventino codici culturali o artistici curiosamente, o forse no, molto simili tra loro, in certi casi nelle intenzioni ma spesso anche esteriormente. Di queste “convergenze parallele” culturali (che ad uno studio eziologico si dimostrano sovente incidenti, anziché parallele) la storia della civiltà umana abbonda: certe elaborazioni della filosofia greca trovano feconde analogie nelle concezioni cosmiche zoroastriana e buddista, solo per fare un esempio. E la musica, in quanto forma d’arte, non fa certo eccezione a questo meccanismo.
Restiamo in Grecia. Terra ibrida per eccellenza, culla di civiltà (Graecia capta ferum victorem coepit) ed ospite più o meno volontaria di altre (bizantina, ottomana). Della quale è caratteristica e temporalmente più recente espressione musicale il rebetiko. Nato nell’Ottocento, durante la dominazione ottomana, nelle ouzeri (taverne dove si beve l’ouzo) più malfamate e nelle fumerie di hashish, questo stile musicale germina in un certo senso spontaneamente dal bisogno espressivo dei ceti più bassi della società, che traspongono in note la propria condizione narrando, con il solo aiuto della voce e di strumenti semplici e popolari (soprattutto il bouzouki, ma a volte anche violini, fisarmoniche, tamburelli e clarinetti), storie di miseria e sfruttamento, di bevute e amori, di risse e violenza, di guerra e lavoro. Ovviamente il rebetiko non sorge dal nulla, ma costituisce un punto d’incontro tra esperienze musicali diverse però contigue: le scale modali vengono mutuate dall’uso mediorientale (non si dimentichi che, fino al grande esodo del 1923, buona parte dei Greci risiedeva nelle città della costa occidentale turca), mentre la modulazione armonica e la scelta degli strumenti rimandano alla musica popolare dell’Est europeo (e, quindi, anche alla musica ebraica ashkenazita). Da notare, quindi, il parallelismo con il blues, il fado e il tango, linguaggi musicali originati in contesti storico-sociali completamente diversi dal rebetiko ma ad esso molto vicini nelle intenzioni e nel significato culturale.
Con il tempo, il rebetiko si è diffuso in tutta la Grecia, assurgendo a musica popolare “nazionale”, anche alla luce della sua capacità di fornire sfondo sonoro a diverse esigenze collettive, quali l’intrattenimento e la danza (il sirtaki, per esempio), e il bouzouki ha mantenuto inalterato il suo status di strumento principe della musica tradizionale ellenica. Nel frattempo, però, il mondo è andato avanti, e il Secolo Breve ha cambiato profondamente le abitudini dei popoli, specialmente in Occidente (del quale, si tende oggidì a scordarlo, la Grecia è ineludibile primum movens). Come conciliare, dunque, innovazione e tradizione, il rigore acustico del bouzouki e la roboante novità della chitarra elettrica? La risposta, o perlomeno una di esse, viene dalla California. Ma, come quasi sempre accade in quel fatato angolo di mondo, non è autoctona.
Richard Anthony Monsour viene da Boston e ha nelle vene sangue libanese, per parte di padre, e polacco-bielorusso, per parte di madre. Ma dal 1954 risiede a Los Angeles, dove, diciassettenne, ha seguito la famiglia. Dalla tenera età nutre un interesse per la musica, specialmente il country, ma è lui il prescelto per portare a nuovo e rigoglioso germoglio le radici profonde che affondano nella sua stessa identità: “Mio zio mi insegnò a suonare il tarabaki, e lo guardavo suonare l’oud. Suonavamo al Maharjan [un importante festival di cultura libanese nell’area di Boston] mentre i parenti facevano la danza del ventre“. E le prime esperienze percussive (il tarabaki è un piccolo tamburo) lo portano a coniugare quell’approccio ossessivo alla chitarra elettrica, strumento allora nuovo e prescelto per dare sfogo a quella passione musicale, da unire con quell’altra, così tipica dei luoghi: il surf. Richard Mansour diventa così un chitarrista elettrico, che ha lo scopo di intrattenere e far ballare i coetanei adolescenti, narrando in note di quel mondo di onde, spiagge, tavole e bikini così affascinante quanto oleografico. E, sorpresa, la trama sonora viene fin da subito tessuta sì con gli emblemi musicali del benessere popular dell’America postbellica e pre-Vietnam (in primis la Fender Stratocaster), ma anche con quei preziosi materiali sonori che il nostro uomo ha trovato in casa propria: ritmo frenetico e melodie modulate su scale tipiche della tradizione mediorientale. Nasce, così, un nuovo stile sonoro: il surf. E, con lui, la sua prima stella: Richard Mansour, in arte Dick Dale.
Senza oltre dilungarsi sul surf, ne va rilevata la portata planetaria, al punto che, a distanza di oltre cinque decenni da quella prima febbre, esistono tutt’oggi nel mondo svariate formazioni intente a replicare immagini e suoni di quell’era ben delimitata (1962-1965 le invalicabili coordinate temporali), magari aggiungendovi sperimentazioni di varia natura (Lawndale, Man Or Astroman?) o anche solo irrorandoli dell’irruenza portata in dote dalla stagione punk (che indicherà nei Ramones e nei Dead Kennedys le sue anime più consapevoli dell’eredità surf). La quasi totalità di tali formazioni si pone sulla materia surf con l’approccio meticoloso e rigorosissimo del filologo, producendo risultati autoreferenziali e inutili nella loro gradevolezza, giacché riletture quasi mai variate di temi noti. Talvolta, però, qualcuno ancora ci prova a personalizzare la proposta, a cavalcare le onde con una tavola diversa dal solito vecchio surf intagliato da Dick Dale e verniciato dai Beach Boys. E, vista la sostanziale staticità del genere (non da ultimo a causa del limitato novero dei suoi stilemi), l’operazione può dimostrarsi interessante. Come in questo caso.
I Dirty Fuse sono tre ateniesi, anch’essi dediti al recupero intrasigente del sound da spiaggia dei Sixties californiani. Formatisi nel 2008 per opera di un chitarrista brasiliano e divenuti progressivamente un quintetto con l’inserimento di una seconda chitarra e di un sassofono, i nostri hanno navigato apprezzabilmente per un paio di album, fino all’idea. Anzi, l’Idea. Semplice, come tutte le idee, ma efficace: riportare tutto a casa o quasi. Come? Con il surf, naturalmente. Lasciare le coste del Pacifico nordamericano e raggiungere quelle del Golfo Saronico. Portare la musica americana, quella musica americana, in terra greca; e viceversa. Suonare il rebetiko… sul surf.
“Surfbetika!” è un 10″ (formato in disuso da circa trent’anni; filologia o integralismo?) uscito nel 2013. Contiene sette brani la cui migliore descrizione è fornita dal sottotitolo del disco, che fa bella mostra di sé in copertina: rebetika (plurale di rebetiko) greci dal 1925 al 1938 girata surf. E, se il surf (perlomeno quello strumentale, che è poi la maggioranza della produzione) origina proprio da quell’intuizione di Dick Dale di ibridazione della frenesia rock ‘n’ roll con gli aromi musicali mediorientali, o comunque mediterranei, si può dire che l’operazione costituisce proprio quel ritorno a casa osservata nel precedente paragrafo: l’andamento melodico e ritmico del rebetiko, infatti, richiama proprio quello stile inventato in California e diffuso ovunque dal chitarrista bostoniano (la prova del nove essendo che il suo successo più grande, l’universalmente nota Misirilou, altro non sia che la rilettura in versione surfed up di un canto tradizionale greco), e quindi la scelta dei Dirty Fuse si rivela quantomai azzeccata. Ed anche la resa è efficacissima, perché la forza evocativa delle prescelte melodie tralatizie esce rafforzata anziché vilipesa dal trattamento a base di chitarre intrise di riverbero a molla (tipica funzione degli amplificatori Fender anni Sessanta, assurta a stilema caratteristico del surf) e tamburi tonitruanti. Che poi la rilettura di tali brani ricalchi con assoluto rigore il canone timbrico del surf è, in questo caso, un non-problema, perché in questa occasione la scelta sincretistica richiede che almeno uno degli stili fusi (preferibilmente tutti) sia riconoscibile come tale. Ecco, dunque, un tassello nuovo nel mosaico altrimenti monocromo (e spesso monotono) del surf, il “surfbetika”. Godibile esperimento sonoro nonché ottima occasione per riflettere su come ogni conquista umana, e peculiarmente le forme espressive in senso lato artistiche, abbia radici in diverse esperienze culturali, che vanno tenute in considerazione prima di formulare una valutazione sulla portata della conquista medesima. Ben venga il “surfbetika”, dunque; per carezzarci le orecchie, scioglierci il bacino e magari anche aprirci la mente.
D’altronde, i Beach Boys ci avevano avvertito che il surf è un safari. E ad un safari si partecipa per osservare le bestie; alcune delle quali feroci, altre mansuete. Magari non si torna, perché hanno prevalso le prime. Ma se si torna, di solito si ama di più la vita e le forme variegate che essa è in grado di assumere. Ecco, quantomeno proviamoci, ad amarla di più. A partire dal surfbetika, a partire da qui.