Surf Ozzies Must Die. L’onda corta dei Neptunes.

I Neptunes sono stati un quintetto di Perth. Formatisi nel 1987, suonavano una mistura di surf, power pop e garage e incidevano per la storica etichetta Citadel di Sidney, casa della miglior parte del rock australiano del periodo. Nel 1988 debuttarono con “Hydrophobia”, EP di sei pezzi, dei quali due strumentali. Tra di essi si stagliano My Mermaid, uno dei brani migliori mai usciti dal continente nuovissimo, un efficace riff di tre accordi a sorreggere un assalto adrenalinico eppure stiloso, e il surf carezzevole di Summer’s Almost Gone, fresca come la brezza che spira dall’Oceano Indiano, esercizio barracudesco (nel senso di Barracudas) che non si fa dimenticare. Come pure la simpatica copertina a tema marino. Eccola:

neptunes - hydrophobia

Poi concerti, un cambio di formazione (alla batteria Martin Moon sostituisce David Shaw) e nel 1991 il secondo episodio discografico: “Godfish”, un altro EP di sei canzoni, anch’esso edito solo in vinile. Opera graziosa, in sostanziale linea di continuità con il disco precedente ma più opaca in fase di scrittura, anche se non priva di momenti di interesse: Love Sign si dimena di un garage irsuto e coinvolgente, mentre il pop dalle tinte spagnoleggianti di Wait For The Sun cavalca abilmente le onde sul doorso di una tavola e Down South trapianta la California spiagge e palme nell’altrettanto solatia Australia sudorientale.

neptunes - godfish

Ma l’atmosfera è di stanchezza, e gli scarsi riscontri portano aria di smobilitazione, quindi i Neptunes si sciolgono subito dopo, lasciando ad altri il compito di portare avanti un monicker abbastanza frequentato (più di una decina le formazioni omonime). A suggellarne l’eredità, in quello stesso 1991 la Citadel raccoglie l’opera omnia del gruppo, dodici brani, in un unico CD, “Godfish”.

Da allora i Neptunes non hanno più combinato un cazzo.

E voi, invece?

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Come il vibrar di una molla: Dick Dale (1937-2019)

Dick_Dale

Un modo per dare un senso all’albosepolcrale festa del papà è celebrare un vero padre, qualcuno che ha dato origine a qualcosa di rilevante per la vita.

Il 16 marzo scorso è venuto meno l’ottantunenne Richard Mansour, in arte Dick Dale. La vulgata lo ricorda come “il chitarrista di Pulp Fiction”, alludendo a quella Misrilou che adorna i titoli di testa del film e che gli ha dato fama e profitti imperituri, ma non è per questo, o meglio non soprattutto per questo, che Dick Dale merita di essere ricordato, quanto, piuttosto, per essere stato uno dei più grandi innovatori e pionieri della chitarra elettrica: sua, infatti, è stata l’idea di usare il riverbero degli amplificatori Fender, per creare il suono spazioso e liquido della musica surf. Senza parlare della sua innovativa tecnica chitarristica, fatta di rapidissime pennate alternate che scandiscono melodie veloci e ossessivamente intense; accorgimento che non solo richiese un’ulteriore elaborazione degli amplificatori, ma anche l’uso di corde più spesse di quanto al tempo, i primissimi anni Sessanta, comunemente in uso, salvo poi diventare lo standard in epoca successiva e tuttora. Mancino, virtuoso, primo vero poster boy della Stratocaster (Buddy Holly ancora troppo compositore e Buddy Guy troppo stilisticamente settoriale) e consapevole del suo ruolo di strumentista d’eccezione, Dick Dale è stato il primo vero guitar hero, figlio adottivo della California (vi migrò diciassettenne con la famiglia, nel 1954) e del melting pot d’oltreoceano (padre libanese, madre polacco-bielorussa). Un Hendrix o un Eddie Van Halen ante litteram, insomma, capace di valorizzare le proprie radici inserendole nel vasto e allora plasmando campo del rock, introducendo nello stile chitarristico scale proprie della musica mediorientale e ampliando enormemente il vocabolario di tutti i chitarristi rock, a quel tempo fermi alla struttura armonica del blues e alla scala pentatonica.
Ecco perché Dick Dale è un padre. Nostro padre.

Il suo lascito musicale si compone di nove LP di materiale originale; pochi, per una carriera ultracinquantennale, ma monito del fatto che nel momento del massimo successo del nostro e del surf (1962-1964) l’industria andava principalmente a 45 giri. Sono quindi i singoli episodi il miglior modo di ricordare quest’uomo che tanto ha dato alla musica pur mantendendo sempre un basso profilo (eccetto che sul palco, dove non si è mai risparmiato): oltre al superclassico Misrilou (che, peraltro, è il riadattamento di una canzone tradizionale del Mediterraneo orientale), la sincopata Let’s Go Trippin’ (anticipo sulla Summer of Love?), la programmaticamente intitolata Shake ‘n’ Stomp, la frenetica rilettura del traditional ebraico Hava Nagila (a dimostrazione che il Mediterraneo è pur sempre il Mediterraneo) e la confessoria King Of The Surf Guitar. Una qualsiasi raccolta di singoli, insomma.

Il re della chitarra surf: questo è stato, il nostro Dick. Un re, il nostro Dick. Una vera festa del papà, non c’è che dire.

Bye Byalla, Richard.

Andergraund Saund 4

DESTROY ALL GONDOLAS

destroy all gondolas - laguna di satana

Dopo una demo di quattro pezzi in cassetta nel 2013 e un 45 giri con lo stesso numero di brani (e qualcuno identico) nel 2015, ecco infine i veneziani Destroy All Gondolas tagliare il traguardo del primo LP, inciso lo scorso inverno e uscito il 22 aprile per Macina Dischi in una essenziale quanto stilosa edizione vinilica con confezione semi-gatefold. E il passo avanti qualitativo si sente, perché la produzione di Maurizio Baggio ha reso i suoni più curati e definiti, aumentandone l’ottimo impatto e anche l’efficacia dei brani già noti (vale a dire tre dei quattro presenti sul 7″). Nessuna sorpresa musicale, però, perché la proposta del trio continua a ricondursi a ciò che i musicisti stessi hanno appropriatamente definito black-surf-punk, definizione che può precisarsi solo aggiungendo che “Laguna di Satana” si trova da qualche parte tra “Surfin’ Safari” e “Surf Nicaragua”, tra i Dead Kennedys e i Ventures, ma l’umore bilioso e i miasmi pestilenziali  che lo pervadono sono senza dubbio peculiari, siccome (o forse proprio perché) provenienti da una laguna che sotto apparenze affascinanti e acque placide (mal)cela in realtà poteri demoniaci difficilmente governabili. Consigliato per quando c’è il sole, ma in realtà colpisce sempre. Ci si infetta qui.

Means to an end. Altri scampoli di musica targata 2015.

BALU & DIE SURFGRAMMELN – LOS CHICHARRONES DEL SURFbalu & die surfgrammeln - los chicharrones del surfDifficile pensare a due realtà fra loro più distanti di Vienna e il surf, eppure a volte gli opposti si attraggono con successo. Come avviene a Balu & die Surfgrammeln, quartetto vidobonense di rock strumentale del tempo che fu, autore di un mini-LP, uscito lo scorso maggio, che sposa l’approccio demenziale di certo punk (date un’occhiata alla copertina, e poi cercate un po’ cosa significa “Grammeln”, ma anche “Chicharrones”) con le chitarre affogate nel riverbero a molla e le percussioni tribali. L’attitudine del gruppo, però, non è quella festaiola e caotica della California meridionale, ma quella un po’ oscura e weird della Mitteleuropa che, quando sente dire “pipeline“, pensa alla Russia più che alle Hawaii; prevedibilmente, magari, ma genuinamente, e il risultato sono otto piacevoli brani (tra cui due cover, incluso il classico anni Sessanta Comanche) interamente strumentali, eccezion fatta per un paio di estratti di dialoghi tratti da film d’epoca, che non sfigurano ascoltati a 45 giri. Già, perché i Ciccioli del Surf possono entrare in casa vostra solo in dieci pollici; però quando entrano, magari prima o poi escono, ma nel frattempo hanno tutto ciò che serve per soddisfarvi. Tiratura mondiale di 300 copie, a cura dell’etichetta greca di settore Green Cookie: ci vediamo an der surfer blauen Donau.

UNCLE ACID & THE DEADBEATS – THE NIGHT CREEPER
uncle acid & the deadbeats - the night creeperSi sa che le freccette sono uno degli sport nazionali dei britannici, e quindi non stupirà apprendere che anche musicalmente le formazioni d’Oltremanica possono fare ripetutamente centro sul piano discografico. Stavolta tocca a Uncle Acid e i suoi Deadbeats, che a settembre hanno inanellato il quarto successo con “The Night Crawler”. Se ne è parlato molto, di questo album, e di come il gruppo, forte della qualità dei suoi dischi, si candidi a diventare l’elemento più rappresentativo di quella scena stoner che fa dell’occultismo analogico la sua cifra stilistica e che, in quest’epoca di revivalismo non-stop, conosce una prolungata quanto inaspettata fioritura qualitativa. Ebbene, le impressioni precedentemente maturate possono essere confermate da questo LP, che ripropone l’ennesima versione dei primi (primordiali?) Sabbath passati a setaccio lisergico da voci tra l’angelico e l’inquietante, che aprono squarci policromi sulla tela nero pece. Poche idee ma ben chiare: riff possenti usati con parsimonia, groove irresistibile, distorsioni analogiche, atmosfere morbose ed avvolgenti come da titolo, per un risultato di psichedelia heavy che ha pochi (o magari nessuno) pari qualitativi nel 2015. Gruppo schizofrenico: lo Zio Acido schizza che è una meraviglia, i Battiti Morti smentiscono ad ogni passaggio il loro appellativo.

Parvi sed apti mihi

Sentendomi in dovere di aggiornare il blog, ho pensato di focalizzare l’attenzione sugli ultimi dischi, pochi, entrati in casa mia. Eccone, quindi, la minuta rassegna, nella speranza che essa possa ispirare a qualche lettore un nuovo ascolto o una scoperta.

TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS – TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS La copertina lo direbbe un disco hard rock (o, come lo si chiamava nell’anno in cui uscì, il 1976, heavy metal), ma quel cuore effigiato in alto sul frontespizio suscita una tenerezza fuori l(u)ogo in ambito metallico, e anche il monicker così sfacciatamente Sixties e il sorrisetto strafottente che solca il volto del leader Tom Petty denunciano un romanticismo che trascende il piglio trucido evocato da chiodo, cartuccera e Gibson Flying V. E infatti l’interno si assesta su suoni ben più tradizionali e articolati di quanto ictu oculi presagito, spaziando dallo struggimento bluesy di Breakdown al country danzabile di Mystery Man, dagli ancheggiamenti honky tonky di Hometown Blues a una Strangered In The Night intitolata a Sinatra ma in realtà devota agli Stones, e via così fino alla conclusiva American Girl, cori e squillar di Rickenbacker come dei Byrds primevi che si innestano su un telaio ritmico di frenesia rock ‘n’ roll, nonché primo capolavoro di un Petty che come autore si sta ancora scaldando, mentre un quartetto dall’impeccabile preparazione ne asseconda le ambizioni di raccordo tra passato e presente. Ambizioni perlopiù soddisfatte, perché se la produzione è quella tipica del rock di metà anni Settanta con intenti commerciali, i referenti, dai Fab Four in giù, si situano più indietro e sono tutti classici già allora, sicché gli augusti modelli mantengono sempre alta l’ispirazione. Del resto, che cosa li spinge all’azione Petty e i suoi ce lo confessano a metà percorso: Anything That’s Rock ‘n’ Roll, nientemeno. E nemmeno a Astbury Park sono così franchi.

JOHN NORUM – FACE THE TRUTH
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Vita dura quella del chitarrista di una band famosa fuoriuscito dall’organico proprio mentre il gruppo è sulla cresta dell’onda: devi riorganizzarti, far sapere ai discografici e al pubblico che ci sei ancora, trovare gregari di valore e comporre materiale di livello paragonabile a quello che ti aveva dato la fama sotto la vecchia ditta. Molti non ce l’hanno fatta, alcuni sono partiti per altre esplorazioni musicali e solo pochi hanno avuto successo perseverando nello stesso ambito stilistico del proprio passato. Di questi ultimi John Norum è un fulgido esempio: fuoriuscito dagli Europe all’indomani del vendutissimo “The Final Countdown”, l’uomo ha da subito pubblicato album di buon livello, mantenendo alta la propria reputazione anche in epoche poco generose con l’hard rock melodico ma ben piantato nella tradizione settantiana che è sempre stato la sua cifra stilistica. “Face The Truth”, uscito nel 1992, è il secondo LP del chitarrista svedese nonché, vista l’eccellente caratura della band che lo accompagna (nella quale spicca l’ugola di Glenn Hughes) e la felice vena compositiva, senz’altro il suo migliore lavoro: gettate alle ortiche le ruffianerie tastieristiche del suo gruppo-madre (con il quale comunque non taglierà i ponti, né personali né sonori, come dimostra il cameo di Joey Tempest su We Will Be Strong) e voltosi a braccia aperte all’amata tradizione Seventies, Norum si profonde in dieci pezzi di rock duro elettrizzante, riuscitissimo nel darsi un taglio classico senza per questo sacrificare la contemporaneità, in cui persino il florilegio di istrionismi chitarristici non è fine a se stesso o strumento di vacuo esibizionismo, ma elemento funzionale alla trama sonora ed alla sua riuscita in termini di impatto e coinvolgimento dell’ascoltatore. La title-track, Night Buzz (anche se il riff deve più di qualcosa a Smoke On The Water), Good Man Shining e la lirica rilettura di Opium Trail dei Thin Lizzy sono imperdibili, ma tutto “Face The Truth” viaggia a pieno regime.

THE BAMBI MOLESTERS – SONIC BULLETS: 13 FROM THE HIPbambi molesters - sonics bullets
Le spiagge e il mare della Croazia sono ben noti, ma alzi la mano chi ne ha mai sentito parlare per il surf. Ecco. Altrettanto vale per la musica omonima, che evoca invero immagini di oceani impetuosi e opulenti palmeti più che di placidità adriatica e levantinismo balcanico. Nondimeno i Bambi Molesters, da Sisak (che si trova peraltro non sulla costa, ma nel centro della Croazia), sono riusciti ad imporsi come una delle più credibili formazioni surf contemporanee, incontrando l’appoggio di musicisti famosi e di disparata estrazione in tutto il mondo e suonando di spalla a gente come Cramps, Flamin’ Sideburns e Man Or Astroman?. Questo album, uscito nel 2001, è il terzo capitolo discografico del quartetto e fa tesoro dell’esperienza e dei contatti precedentemente accumulati (a dare una mano Peter Buck, Scott McCaughey e Chris Eckman dei Walkabouts) in tredici segmenti strumentali che richiamano alla memoria cavalcate d’onda vintage (Bubble Bath, Bombora), strazi amorosi di sabor latino (l’arrembante rilettura del traditional cubano Malaguena, con tanto di tromba; il recitato in spagnolo di Corazon Del Loco Jorge, curato da “Speedo” Martinez dei finlandesi (!) Flamin’ Sideburns; il languore sensuale di Farewell Malasaña) o immagini cinematografiche variegate, dal miglior Tarantino gangsta (“Theme From Slaying Beauty“) al western delle cavalcate verso il sole tramontante (“Last Ride“), fino ad inquietanti atmosfere noir (la conclusiva “Chaotica“, il cui andamento jazzy ha già stregato i produttori di “Breaking Bad”). In effetti le suggestioni cinematografiche tarantiniane sono preponderanti, ed è facile concordare con quell’utente di YouTube che dall’ascolto di “Sonic Bullets” si è figurato di trovarsi alla guida attraverso il deserto, diretto verso il confine, con il bagagliaio colmo di bottino e una stronza sexy al fianco. Scegliete voi dove andare, certo è che i Bambi Molesters vi faranno viaggiare. Surf intelligente, evocativo e variegato per uno dei migliori lavori di area degli ultimi anni.

Onde più profonde: Dirty Fuse – Surfbetika!

Dirty Fuse - Surfbetika!

Nessuno dotato di occhi e orecchie funzionanti può negare che la civiltà umana proceda per ibridazione: che riguardi persone propriamente dette o investa solo usanze ed abitudini, che venga accolto entusiasticamente o incontri una fiera opposizione, il meticciato è una costante in un certo senso inevitabile della storia umana, a causa della natura sociale e della sostanziale curiosità che caratterizza la specie. E questa caratteristica di ibridazione è particolarmente riscontrata nelle arti, invenzione umana per eccellenza. Tuttavia, a volte capita che differenti gruppi di persone, stanziati su territori diversi e dunque creatori e portatori di culture distinte, dovendosi misurare con l’esigenza di esprimere i propri sentimenti (questi, invece, sempre uguali ovunque), inventino codici culturali o artistici curiosamente, o forse no, molto simili tra loro, in certi casi nelle intenzioni ma spesso anche esteriormente. Di queste “convergenze parallele” culturali (che ad uno studio eziologico si dimostrano sovente incidenti, anziché parallele) la storia della civiltà umana abbonda: certe elaborazioni della filosofia greca trovano feconde analogie nelle concezioni cosmiche zoroastriana e buddista, solo per fare un esempio. E la musica, in quanto forma d’arte, non fa certo eccezione a questo meccanismo.

Restiamo in Grecia. Terra ibrida per eccellenza, culla di civiltà (Graecia capta ferum victorem coepit) ed ospite più o meno volontaria di altre (bizantina, ottomana). Della quale è caratteristica e temporalmente più recente espressione musicale il rebetiko. Nato nell’Ottocento, durante la dominazione ottomana, nelle ouzeri (taverne dove si beve l’ouzo) più malfamate e nelle fumerie di hashish, questo stile musicale germina in un certo senso spontaneamente dal bisogno espressivo dei ceti più bassi della società, che traspongono in note la propria condizione narrando, con il solo aiuto della voce e di strumenti semplici e popolari (soprattutto il bouzouki, ma a volte anche violini, fisarmoniche, tamburelli e clarinetti), storie di miseria e sfruttamento, di bevute e amori, di risse e violenza, di guerra e lavoro. Ovviamente il rebetiko non sorge dal nulla, ma costituisce un punto d’incontro tra esperienze musicali diverse però contigue: le scale modali vengono mutuate dall’uso mediorientale (non si dimentichi che, fino al grande esodo del 1923, buona parte dei Greci risiedeva nelle città della costa occidentale turca), mentre la modulazione armonica e la scelta degli strumenti rimandano alla musica popolare dell’Est europeo (e, quindi, anche alla musica ebraica ashkenazita). Da notare, quindi, il parallelismo con il blues, il fado e il tango, linguaggi musicali originati in contesti storico-sociali completamente diversi dal rebetiko ma ad esso molto vicini nelle intenzioni e nel significato culturale.

Con il tempo, il rebetiko si è diffuso in tutta la Grecia, assurgendo a musica popolare “nazionale”, anche alla luce della sua capacità di fornire sfondo sonoro a diverse esigenze collettive, quali l’intrattenimento e la danza (il sirtaki, per esempio), e il bouzouki ha mantenuto inalterato il suo status di strumento principe della musica tradizionale ellenica. Nel frattempo, però, il mondo è andato avanti, e il Secolo Breve ha cambiato profondamente le abitudini dei popoli, specialmente in Occidente (del quale, si tende oggidì a scordarlo, la Grecia è ineludibile primum movens). Come conciliare, dunque, innovazione e tradizione, il rigore acustico del bouzouki e la roboante novità della chitarra elettrica? La risposta, o perlomeno una di esse, viene dalla California. Ma, come quasi sempre accade in quel fatato angolo di mondo, non è autoctona.

Richard Anthony Monsour viene da Boston e ha nelle vene sangue libanese, per parte di padre, e polacco-bielorusso, per parte di madre. Ma dal 1954 risiede a Los Angeles, dove, diciassettenne, ha seguito la famiglia. Dalla tenera età nutre un interesse per la musica, specialmente il country, ma è lui il prescelto per portare a nuovo e rigoglioso germoglio le radici profonde che affondano nella sua stessa identità: “Mio zio mi insegnò a suonare il tarabaki, e lo guardavo suonare l’oud. Suonavamo al Maharjan [un importante festival di cultura libanese nell’area di Boston] mentre i parenti facevano la danza del ventre“. E le prime esperienze percussive (il tarabaki è un piccolo tamburo) lo portano a coniugare quell’approccio ossessivo alla chitarra elettrica, strumento allora nuovo e prescelto per dare sfogo a quella passione musicale, da unire con quell’altra, così tipica dei luoghi: il surf. Richard Mansour diventa così un chitarrista elettrico, che ha lo scopo di intrattenere e far ballare i coetanei adolescenti, narrando in note di quel mondo di onde, spiagge, tavole e bikini così affascinante quanto oleografico. E, sorpresa, la trama sonora viene fin da subito tessuta sì con gli emblemi musicali del benessere popular dell’America postbellica e pre-Vietnam (in primis la Fender Stratocaster), ma anche con quei preziosi materiali sonori che il nostro uomo ha trovato in casa propria: ritmo frenetico e melodie modulate su scale tipiche della tradizione mediorientale. Nasce, così, un nuovo stile sonoro: il surf. E, con lui, la sua prima stella: Richard Mansour, in arte Dick Dale.

Senza oltre dilungarsi sul surf, ne va rilevata la portata planetaria, al punto che, a distanza di oltre cinque decenni da quella prima febbre, esistono tutt’oggi nel mondo svariate formazioni intente a replicare immagini e suoni di quell’era ben delimitata (1962-1965 le invalicabili coordinate temporali), magari aggiungendovi sperimentazioni di varia natura (Lawndale, Man Or Astroman?) o anche solo irrorandoli dell’irruenza portata in dote dalla stagione punk (che indicherà nei Ramones e nei Dead Kennedys le sue anime più consapevoli dell’eredità surf). La quasi totalità di tali formazioni si pone sulla materia surf con l’approccio meticoloso e rigorosissimo del filologo, producendo risultati autoreferenziali e inutili nella loro gradevolezza, giacché riletture quasi mai variate di temi noti. Talvolta, però, qualcuno ancora ci prova a personalizzare la proposta, a cavalcare le onde con una tavola diversa dal solito vecchio surf intagliato da Dick Dale e verniciato dai Beach Boys. E, vista la sostanziale staticità del genere (non da ultimo a causa del limitato novero dei suoi stilemi), l’operazione può dimostrarsi interessante. Come in questo caso.

I Dirty Fuse sono tre ateniesi, anch’essi dediti al recupero intrasigente del sound da spiaggia dei Sixties californiani. Formatisi nel 2008 per opera di un chitarrista brasiliano e divenuti progressivamente un quintetto con l’inserimento di una seconda chitarra e di un sassofono, i nostri hanno navigato apprezzabilmente per un paio di album, fino all’idea. Anzi, l’Idea. Semplice, come tutte le idee, ma efficace: riportare tutto a casa o quasi. Come? Con il surf, naturalmente. Lasciare le coste del Pacifico nordamericano e raggiungere quelle del Golfo Saronico. Portare la musica americana, quella musica americana, in terra greca; e viceversa. Suonare il rebetiko… sul surf.

“Surfbetika!” è un 10″ (formato in disuso da circa trent’anni; filologia o integralismo?) uscito nel 2013. Contiene sette brani la cui migliore descrizione è fornita dal sottotitolo del disco, che fa bella mostra di sé in copertina: rebetika (plurale di rebetiko) greci dal 1925 al 1938 girata surf. E, se il surf (perlomeno quello strumentale, che è poi la maggioranza della produzione) origina proprio da quell’intuizione di Dick Dale di ibridazione della frenesia rock ‘n’ roll con gli aromi musicali mediorientali, o comunque mediterranei, si può dire che l’operazione costituisce proprio quel ritorno a casa osservata nel precedente paragrafo: l’andamento melodico e ritmico del rebetiko, infatti, richiama proprio quello stile inventato in California e diffuso ovunque dal chitarrista bostoniano (la prova del nove essendo che il suo successo più grande, l’universalmente nota Misirilou, altro non sia che la rilettura in versione surfed up di un canto tradizionale greco), e quindi la scelta dei Dirty Fuse si rivela quantomai azzeccata. Ed anche la resa è efficacissima, perché la forza evocativa delle prescelte melodie tralatizie esce rafforzata anziché vilipesa dal trattamento a base di chitarre intrise di riverbero a molla (tipica funzione degli amplificatori Fender anni Sessanta, assurta a stilema caratteristico del surf) e tamburi tonitruanti. Che poi la rilettura di tali brani ricalchi con assoluto rigore il canone timbrico del surf è, in questo caso, un non-problema, perché in questa occasione la scelta sincretistica richiede che almeno uno degli stili fusi (preferibilmente tutti) sia riconoscibile come tale. Ecco, dunque, un tassello nuovo nel mosaico altrimenti monocromo (e spesso monotono) del surf, il “surfbetika”. Godibile esperimento sonoro nonché ottima occasione per riflettere su come ogni conquista umana, e peculiarmente le forme espressive in senso lato artistiche, abbia radici in diverse esperienze culturali, che vanno tenute in considerazione prima di formulare una valutazione sulla portata della conquista medesima. Ben venga il “surfbetika”, dunque; per carezzarci le orecchie, scioglierci il bacino e magari anche aprirci la mente.

D’altronde, i Beach Boys ci avevano avvertito che il surf è un safari. E ad un safari si partecipa per osservare le bestie; alcune delle quali feroci, altre mansuete. Magari non si torna, perché hanno prevalso le prime. Ma se si torna, di solito si ama di più la vita e le forme variegate che essa è in grado di assumere. Ecco, quantomeno proviamoci, ad amarla di più. A partire dal surfbetika, a partire da qui.

Andergraund saund. L’Italia che rocca sotterra (suo malgrado, o forse no).

L’Italia è ben poco un Paese da rock ‘n’ roll, ma questo non significa che non ci sia gente che ci prova. Troppo urgenti, d’altronde, i sentimenti ai quali dà voce quel sound così essenziale e fisico, corporeo fino all’inverosimile e viatico ideale per ogni pulsione, confessabile o meno, dell’umano spirito. Ecco quindi fiorire anche da noi un folto sottobosco di proposte che declinano convincentemente modelli quasi sempre nati altrove ma introitati e compresi appieno, le quali scontano esclusivamente l’assenza di una scena (locali, etichette, agenzie di management, promoter di concerti) organizzata per sostenerne lo sforzo artistico e produttivo, soprattutto in vista dell’affermazione internazionale. Non immediatamente imputabile ai musicisti la loro carenza di visibilità, nondimeno il livello delle proposte merita lo sforzo di promuoverne l’opera (o anche solo l’esistenza), sia pure con il limitato passaparola che questo spazio consente. Ci proviamo, dunque, con l’avvertenza che la scelta dei nomi riguarda il gusto personale e, ovviamente, non esaurisce il novero delle realtà indipendenti italiane di qualità.

PUSSY STOMP Duo sardo composto dal bassista e cantante Maurizio “Vanvera” Vacca e dalla chitarrista Roberta “Skip” Etzi, i Pussy Stomp si avvalgono di una batteria elettronica per proporre un rock essenziale, dall’impostazione garagistica e dalle tinte blues, porto con piglio deviato e minaccioso, ancorché non scevro di una vena surreale e comica. Ne risulta un’ipotesi di Frankenstein assemblato con pezzi di Cramps, Suicide e Killing Joke. Il primo album “Guide For Shy Boys”, che segue l’EP di esordio “Super Slut”, è uscito a gennaio 2015. Li potete ascoltare qui, oltre che, meglio ancora, dal vivo. Pussy Stomp - Guide For Shy Guys

DESTROY ALL GONDOLAS Trio composto da ex membri di band di una certa fama nel Nordest, tutte stilisticamente differenti (l’hardcore de L’Amico di Martucci, il punk ‘n’ roll dei Gonzales e il thrash-core dei Minkions), i Destroy All Gondolas emergono dalla città sulla Laguna per ributtare addosso al pubblico miasmi pestilenziali di rock ‘n’ roll deviato, malsano come gli scarichi di Porto Marghera. Brani brevi e velocissimi, in cui l’impeto dell’hardcore si fonde con una vena surf, che però sanguina nero e non pastello, per un risultato che trasuda passione e competenza, ad un ideale crocevia tra i Venom e Dick Dale. Ad oggi hanno partorito un demo in cassetta e un EP in sette pollici di vinile, mentre si vocifera da tempo, e con trepidante attesa, di un LP. Fatevi infettare qui. Destroy All Gondolas

SULTAN BATHERY Nomati da una città del Kerala, questi quattro vicentini non disdegnano le visioni colorate di quell’angolo fatato e problematico di mondo, affiancandovi, tuttavia, copiose dosi di robusto garage made in the U.S.A., richiami alla migliore psichedelia e giusto qualche inflessione noise, ed immergendo il tutto in un azzeccato contesto lo-fi. La miscela è eccellente, e non casualmente l’autorevole etichetta americana Slovenly Records si è accorta del gruppo, che, in mezzo alla gran copia di EP e partecipazioni a raccolte, ha trovato il tempo per pubblicare l’ottimo LP omonimo, in cui una copertina trippy racchiude la colonna sonora di una magnifica esplorazione lisergica in dodici cartoni…cioè, canzoni. Pronti a partire? Andate qui e premete “Play”.
Sultan Bathery - Sultan Bathery

COCONUTS KILLER BAND Dopo avere affinato per un paio d’anni il suo rock ‘n’ roll crudo e trascinante suonando in tutti i locali disponibili, soprattutto sul versante adriatico della Penisola, a circa a metà dell’anno in corso questo sestetto pescarese ha pubblicato il primo album omonimo per la romagnola Go Down Records. Dentro vi si trova un interessante impasto di rock ‘n’ roll letteralmente inteso (quello dei Cinquanta), garage e Detroit sound, in cui genuine scariche elettriche si alternano a momenti più orgiasticamente danzerecci. Magari c’è qualche ingenuità da smussare (è un’opera prima, dopotutto), ma la sostanza c’è eccome. Inutile dire che sonorità del genere si apprezzano al meglio dal vivo e/o a volumi da codice penale. Qui un assaggio.
Coconuts KIller Band - Coconuts Killer Band

THE DIPLOMATICS Ne avevo trattato a dicembre scorso, in occasione del concerto veneziano per la presentazione del disco di debutto “Don’t Be Scared, Here Are The Diplomatics”. Ebbene, il quintetto regge non solo alla prova del palco (stage don’t lie, parafrasando Rasheed Wallace), ma anche a quella del vinile (solo in questo formato, infatti, troverete l’album, e il CD vi verrà dato in omaggio; vera e propria dichiarazione di intenti): Svezia e Michigan che prendono casa nel profondo Nordest, facendo tappa a Londra e magari anche a Sidney. Bella roba; sempre la stessa, ma fatta bene e da chi sa cosa vuol dire sudare e soffrire su una sei corde, dietro ai tamburi o contro un microfono. Il consiglio è di tenerli d’occhio, perché andranno da qualche parte. Per capire dove, passate qui.
The Diplomatics - Don't Be Afraid, Here Are The Diplomatics

E per lo ‘nferno tuo nome si spande: Last Drive – Underworld Shakedown

Last Drive - Underworld Shakedown

Di questi tempi si fa un gran parlare della Grecia, e non certo per i suoi meriti culturali o le sue bellezze inestimabili. Accodiamoci, dunque, allo stanco rito di mantenere alta l’attenzione sul Paese ellenico, culla della civiltà europea, ma riferendo di un aspetto particolare che lo riguarda, senz’altro marginalizzato ma non per questo irrilevante: il suo rock, o almeno parte di esso.

E’ cosa nota che l’Ellade ha una delle più alte densità al mondo di gruppi metal per abitante, e infatti da lì sono emerse autentiche eccellenze come Rotting Christ o Septic Flesh. Ma negli altri settori del rock, inteso in senso lato, l’estremità meridionale dei Balcani non ha espresso nomi di rilievo a livello internazionale, nonostante la solita, debita, isolata eccezione (gli Aphrodite’s Child, essenzialmente). Ma quella penisola non è rimasta insensibile alle vibrazioni musicali provenienti da molte miglia incontro al vento di ponente, e infatti anche qui, come altrove, è germogliata una scena di complessini dediti al rock ‘n’ roll più essenziale ed istintivo, proposto ad un pubblico sparuto in localini infimi e raccolto, bene che andasse, in singoli a 45 giri stampati con tirature carbonare. Questo vale, in particolare, per il movimento della neo psichedelia e del garage revival degli anni Ottanta: i fermenti internazionali non hanno colto impreparata la terra di Dioniso e Apollo, e, contrariamente ad ogni aspettativa o facilona previsione, si è costituito un circuito di dimensioni e qualità apprezzabili, la cui sede in Atene appare in un certo senso scontata.

E dell’underground rock ellenico la punta di diamante (o meglio, la statua crisoelefantina) sono stati i Last Drive. Nati come un trio nel 1983 e presto diventati un quartetto con l’aggiunta di un secondo chitarrista, i Last Drive (così battezzatisi dal nome di un cocktail locale) hanno per anni animato il sottobosco ateniese con un rock crudo e ritmato, discendente in via diretta dai suoni americani e inglesi dei Sessanta, e dunque surf, beat e rhythm & blues selvatico, peraltro senza scordare il rockabilly e i primordi più distorti della psichedelia. Perseveranza encomiabile e fruttuosa, perché, dopo tre anni di gavetta e la naturale confluenza a 7″, i quattro riescono infine a debuttare a trentatré giri con “Underworld Shakedown”, opera che cattura subito le attenzioni dell’ubiquo ed esigente pubblico del garage revival, movimento che proprio allora vive il suo apice qualitativo (in Europa certamente; basti pensare che in quello stesso 1986 escono anche gli stupendi esordi di Sick Rose e Creeps), con la sola forza del suo contenuto, essendo al tempo la Hitch-Hyke Records, l’etichetta per i cui tipi il disco vede la luce, una minuscola indipendente ateniese con a stento un anno di vita e risorse risicate ed inadatte ad un’adeguata promozione internazionale. Eppure a “Underworld Shakedown” i riscontri non mancarono, e per scoprirne i motivi basta procedere all’ascolto.

Apre l’album uno strumentale surf-punk come Me ‘N My Wings, dalle parti dei Dead Kennedys, e si prosegue, attraverso la malinconia di Valley Of Death, come dei Rain Parade adombrati, e la concitazione garagistica di Poison, verso la versione calligrafica ma esaltante del classicissimo surf Misirilou. E poi, quando anche l’irsuto rhythm & blues di This Fire Inside è trascorso e tutto sembra scontato, ecco l’inattesa svolta: Blue Moon, scritta nel 1934 da Richard Rodgers e Lorenz Hart e già proposta da una lista di musicisti che include Billy Eckstine ed Eric Clapton, i Mavericks ed ovviamente Elvis, viene riletta in una versione sbalorditiva di oltre sette minuti, sorretta da chitarre sferraglianti che coniugano drive e jangle, pop e psichedelia, R.E.M. e Hüsker Dü, con un risultato non tanto distante, per coordinate sonore e qualità, dagli Screaming Trees, all’epoca debuttanti anch’essi. Ma dura poco, perché Sidewalk Stroll e The Shade Of Fever fanno irrompere nuovamente dagli altoparlanti il rock ‘n’ roll più osceno e malsano, i cui suoni scarni sono annegati nel riverbero e il cui beat vellica i più bradi istinti, come da lezione Cramps. E’, quindi, ancora una rilettura a stravolgere le carte del disco: stavolta si tratta di Every Night, cover delle meteore americane The Human Expression, pura foschia policroma di matrice psichedelica che si acconcia alla foggia doorsiana mercé un organo lugubre e una voce dimentica dell’usuale sguaiatezza per farsi improvvisamente ambasciatrice dell’altro lato della coscienza. Un gioiello, ma, a questo punto, l’ascoltatore è navigato e sa che con i Last Drive la ruvidezza rock ‘n’ roll è sempre dietro l’angolo, e infatti The Night Of The Phantom, prestata dagli oscuri Larry & The Blue Notes, non fa mistero della sua origine texana, lo Stato della Stella Solitaria essendo risaputamente la patria ultima del cosiddetto Sixties punk. A chiudere, infine, il caos di Repulsion, che effettivamente suscita in parte ciò che il titolo promette affidando i primi due minuti e mezzo a distorsioni pungenti e feedback chitarristici latenti, che sferzano senza ragione il brano impedendogli di trasformarsi subito in un valido stomp che congiunge, una volta di più, eccitazione rhythm & blues e cavernosità surf. E quando anche l’ultimo bending è sfumato, il display segna nuovamente 43:06: minutaggio sufficiente per delineare un progetto stilistico senza gravare inutilmente l’ascoltatore. Merito anche di una produzione asciutta ma perfettamente calibrata e dalla dinamica sufficientemente ricca per far emergere le molteplici sfumature ed influenze sonore; risultato poco meno che incredibile per un disco proveniente dal circuito indipendente e ancor più encomiabile se si considerano i precari mezzi della scena greca del periodo.

Aggiunge poco sul contenuto di “Underworld Shakedown” il fatto che i fermenti da esso suscitati consentirono ai suoi autori di girare l’Europa (Germania, Olanda, Francia e persino Italia) all’inizio del 1987, a fianco di grandi nomi come Fuzztones, Creeps e Stomachmouths, ottenendo persino l’interessamento dell’importante etichetta di settore Music Maniac Records e la produzione di Peter Zaremba dei Fleshtones per l’album successivo, “Heatwave”, uscito nel 1988 e già discosto dalle più tipiche influenze Sixties in favore di un approccio quasi psychobilly, mentre il successivo “Blood Nirvana” (1990) sposterà ancora l’asse, stavolta verso un rock più saturo e quasi hard, come degli ultimi Miracle Workers con una distinta vena Velvet Underground.

In una discografia di livello (i primi tre LP sono tutti validissimi; dei successivi ammetto di non avere contezza, ma il fatto che il gruppo sia ancora in attività sia concertistica sia discografica depone nel senso della sostanza più che dell’apparenza), il debutto dei Last Drive assume forse il maggior valore simbolico, ed infatti è l’unico album del gruppo che, sia per la qualità intrinseca della musica sia per il fanatismo e il proselitismo degli adepti del Sixties sound (al quale era essenzialmente rivolto), ha da subito assunto la qualifica di “disco di culto”. Qualifica che, però, è in uno riconoscimento e condanna: riconoscimento del potenziale tellurico dei solchi, ma condanna a dispiegarlo nel mondo sotterraneo. Poco male, perché l’inferno è un posto pieno di amici, e, soprattutto, è in grado di mettere paura ai vivi. E i Last Drive, come tutti i Greci, lo sanno bene.