Happy birthday, the Dude!

Oggi Quincy Jones, il più grande musicista pop vivente (dove “pop” va inteso nel senso lato di popular, e non nel senso più strettamente letterale dello stile musicale, altrimenti il titolo andrebbe condiviso con Paul McCartney), compie 90 anni. L’ultimo di una stirpe morente – e anzi sostanzialmente morta, vista anche la recente dipartita del quasi coetaneo Burt Bacharach – di compositori, arrangiatori, direttori d’orchestra ed esecutori con competenza, idee e gusto. In una sola, e spesso abusata, parola: talento. Tantissimo talento.

È pressoché impossibile enunciare tutti i nomi che hanno incrociato la strada di “the Q”, e anche senza tralasciare gente del calibro di Frank Sinatra, Miles Davis, Ray Charles e Michael Jackson l’elenco sarebbe sterile e comunque incompleto. Limitiamoci a rilevare che senza Quincy Delight Jones Jr., classe 1933, da Chicago, la musica non sarebbe quella che noi tutti, volenti o nolenti, conosciamo.

Tanti auguri, Mr. Jones. Anche se vivrai in eterno, possa tu vivere ancora a lungo.

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Conosci te steso: Durand Jones & The Indications – Private Space

Giunti al traguardo del terzo LP in cinque anni, Durand Jones e gli Indications sorprendono e stupiscono con un’uscita che si richiama in maniera esplicita alla disco, approcciata, come di consueto, dal lato del soul d’annata, lasciando da parte interpolazioni elettroniche e puntando invece sul lato più morbido e seduttivo del genere, per un risultato, l’album “Private Space”, uscito il 30 luglio 2021, di grande suggestione. Il momento preso a riferimento dal gruppo dell’Indiana è quella stagione, iniziata a metà degli anni Settanta, in cui il soul, esaurita ormai la spinta propulsiva, sia ritmica che ideologica, del funk, si sdoppiava, da un lato, nel cosiddetto Philly soul, una proposta carezzevole che stemperava in languori e raffinatezze il grit degli anni “militanti” rallentando i tempi e stratificando gli arrangiamenti, e, dall’altro, nella disco, che manteneva l’acquis funk rivestendolo dell’edonismo necessario ad affrontare la me decade. Soluzioni entrambe commerciali anche se con diverse fortune presso i posteri, ché se la disco è entrata nell’immaginario collettivo come specchio di un’epoca, il soul morbido di Philadelphia (come anche il suo diretto erede, il quiet storm) è rimasto un genere di nicchia, per appassionati, pur influenzando le generazioni successive di musicisti. Tra questi, giustappunto, Durand Jones, cantante nero nativo della Louisiana che concentra in sé una formazione soul (apprendistato nel coro della chiesa) e jazz (studi di sassofono), e gli Indications, quattro ragazzi bianchi (il chitarrista Blake Rhein, il batterista e cantante Aaron Frazer, il bassista Mike Montgomery e il tastierista Steve Okonski) con la passione per l’epoca d’oro di soul e rhythm ‘n’ blues: infatti, se già “American Love Call”, uscito nel 2019, si lasciava alle spalle gli elementi più ruspanti del soul verace contenuto nel debutto omonimo (del 2016, poi ristampato nel 2018) per accogliere archi, mellotron e ritmi più eleganti, con “Private Space” l’operazione viene portata a compimento, inserendo nella mistura anche tratti marcatamente disco, che vengono così a fondersi con il soul morbido dimostrando che non vi è, né mai vi fu, antitesi tra le due forme espressive, soprattutto nel calderone popstalgico che è la scena musicale contemporanea.

Non si tratta, tuttavia, di un mero rimescolamento di generi, ma di un vero e proprio avanzamento qualitativo, perché il songwriting del gruppo ha fatto grandi passi in avanti e le melodie risultano ulteriormente cesellate, facendo dell’album un meraviglioso esemplare di musica nera che, però, è esercizio di reinterpretazione e non di supina riproposizione. Infatti, le sonorità rimandano al passato, ma la loro lettura è totalmente contemporanea e in grado di apportare qualcosa di ulteriore al canone espressivo di quel patrimonio musicale, peraltro con una godibilità che permea l’album da cima a fondo. Si passa così da una Love Will Work It Out che non ci si stupirebbe di trovare su “Let’s Get It On” al singolone d’impatto (diamo tempo a un dj di metterci le mani sopra…) Witchoo, che straccia Pharrell Williams al suo stesso gioco con impareggiabile eleganza, da una title-track che omaggia lo Stevie Wonder più languido a una The Way That I Do che riprende con efficacia roots i commerci con la disco compiuti dai Daft Punk con “Random Access Memories”, districandosi sinuosamente tra slow jam e funk in lamé fino ad I Can See, che conclude i 38:29 minuti del disco con un’ipotesi di Chic in veste di balladeer assistiti da una pacata drum machine quasi acid jazz e da soffusi sintetizzatori analogici. C’è, quindi, una certa varietà, pur restando all’interno di coordinate stilistiche volutamente (de)limitate ma proposte in maniera personale; anche, e forse soprattutto, grazie all’alternanza tra il tenore vellutato di Jones e il falsetto innocente di Frazer, che sovente si intrecciano con cori femminili, a creare suggestioni al calor bianco.

È quindi dolcissimo il naufragar nel mare di “Private Space”, LP improntato anche liricamente al gioco della seduzione e perfettamente in grado, forse per espresso intendimento dei suoi stessi autori, di commentarne la vittoria, facendosi forte di ritmi avvolgenti e coinvolgenti, melodie ricercate e non ovvie, arrangiamenti studiati ed eleganti, suoni curati e magistralmente amalgamati (notevole il missaggio dei bassi, capaci di costituire il necessario propellente ritmico senza risultare invadenti nello spettro sonoro, come spesso accade nelle produzioni più recenti). Tutto splendido, tutto odierno.

Quest’anno l’invecchiamento della popolazione si combatte in un “Private Place”.

Il sol bemolle dell’avvenir. Il ritorno di Gary U.S. Bonds.

Questa è una storia dolceamara. Di successo ma anche di sconfitta. Di fatica e di soddisfazioni parche anziché di allori e stardom. Di sentimenti autentici e rari come la gratitudine e l’ammirazione. Una storia working class e niente affatto glamour, che difatti non ha luogo nella solatia California o nella frenetica New York, patrie del music business, ma nella dimessa e provinciale Virginia e nel New Jersey che sogna mentre lavora a testa bassa. Ma andiamo con ordine.

Gary Levone Anderson nasce nel 1939 a Jacksonville, Florida e cresce a Norfolk, Virginia, dove, negli anni Cinquanta, seguendo l’usuale percorso di un cantante afroamericano di allora, si barcamena tra sacro (gospel) e profano (rhytmm & blues), finché non viene notato da Frank Guida. Costui, nato a Palermo ma newyorkese fin dall’infanzia, nel 1953 ha aperto un negozio di dischi, Frankie’s Got It, proprio a Norfolk; interessato ai suoni neri e fornito di doti compositive, fonda nel 1959 la Legrand Records, con l’intento di produrre musica oltre che venderla, e quel talentuoso cantante poco più che ventenne dalla pelle color caffellatte, dai lineamenti gentili, dal fisico asciutto e dal timbro esuberante appare il cavallo su cui puntare: l’accordo è subito trovato e il nostro uomo viene spedito in studio per incidere due brani per un 45 giri. C’è solo un problema, il nome del cantante: Anderson è troppo comune, e poi c’è bisogno di distinguersi in un mercato musicale ormai affollato; come fare?

gary us bonds

La soluzione viene a Guida un giorno, per caso, mentre cammina per Church Street lambiccandosi il cervello su come ottenere passaggi radiofonici dei dischi che produce. Nota all’esterno di un negozio un cartello che invita a comprare titoli di Stato per sostenere l’economia; vi si legge “Buy U.S. Bonds”. Subito il filamento della proverbiale lampadina dell’eureka si fa incandescente: se il disco recasse la dicitura “U.S. Bonds”, riflette il discografico, i deejay lo riterrebbero un annuncio di pubblico servizio, e dunque ci sarebbe un maggiore incentivo a farlo passare in radio. Lo scaltro stratagemma viene subito applicato all’imminente sette pollici di quel giovane cantante, che esce così a nome di Gary “U.S.” Bonds. Soluzione ingegnosa quanto bislacca, ma quando New Orleans, il lato A del disco, finisce al numero 6 della classifica R&B e inaugura lo stile di produzione di Guida, fatto di esuberanza strumentale e registrazioni di voci a simulare il pubblico di un live, nessuno se ne lamenta. Le cose cominciano a muoversi in fretta, e tra maggio del 1961 e settembre del 1962 Gary U.S. Bonds (a quel punto le virgolette sono cadute) pubblica altri undici singoli di rhythm & blues scatenato e danzereccio, piazzandone sette nella Top 100 (tra cui un numero 1 con Quarter To Three, scritta da Guida e impressa su disco con un suono tanto grezzo quanto eccitante, e un numero 5 con una School’s Out innocente ma irresistibile); non altrettanta fortuna incontrano, invece, i due LP “Dance ‘Til Quarter To Three With U.S. Bonds”, del 1961, e “Twist Up Calypso”, del 1962, il primo una raccolta di singoli rimpinguata da un paio di cover incise ad hoc, il secondo un tentativo di agganciare le sonorità caraibiche (un vecchio pallino di Frank Guida) al canonico errebì festaiolo che ci si aspetta dall’uomo. Gary è un uomo da singoli, insomma, e la funzione della sua musica è di far ballare secondo i dettami più in voga del rhythm’n’blues e del twist. I tempi, però, stanno cambiando rapidamente quanto inesorabilmente, e quando il surf soppianta il twist come musica da ballo del nuovo decennio e il rhythm & blues si trasforma nel soul sembra non esserci più posto per il nostro uomo, abile vocalmente ma più debole in fase compositiva e, soprattutto, apparentemente incapace di percepire lo Zeitgeist. Accade così che dal 1963, nonostante un tour europeo da headliner con una giovane promessa inglese, tali Beatles, ad aprire i concerti, i suoi singoli non vanno più in classifica, e da quel momento il suo nome scivola progressivamente nell’oblio del grande pubblico, ormai alle prese con rivolgimenti musicali e sociali ben più profondi. A venticinque anni Gary U.S. Bonds si trova “bruciato”, il treno per il grande successo ormai irrimediabilmente perduto. Né ottengono particolari riscontri i successivi singoli (quindici; di album non se ne parlerà mai) incisi nel corso di tutti gli anni Sessanta, tentativi di aggiornarsi ai modi della nuova musica nera sempre più che dignitosi ma mai più che calligrafici. Le radio, però, hanno continuato a passare i suoi pezzi, soprattutto sulla East Coast, e a volte certi ascolti inattesi possono cambiare la vita. Di chi li fa ma non solo.

gary us bonds bruce springsteen

Ricordava Springsteen in un’intervista del 1974: “Per diversi anni non ho avuto un giradischi. Più o meno da quando i miei si trasferirono a ovest a quando sono venuto a New York. Di conseguenza, si può dire che io non abbia ascoltato davvero alcun album uscito dopo il 1967”. […] Ecco, l’educazione musicale di Springsteen, dipanatasi attraverso le consuete quattro tappe, può essere così schematizzata: le canzoni ascoltate alla radio sono state la scuola elementare; quelle stesse canzoni fatte proprie imparando a suonarle alla chitarra, le medie inferiori; ancora quelle canzoni suonate con un gruppo, il liceo; le canzoni autografe a quelle ispirate, l’università. Per gli aspiranti a una laurea in rock’n’roll fra il 1958 e i tardi anni ’60 non vi era corso di studi migliore di quello offerto dalle radio americane in AM.” (E. Cilia, Bruce Springsteen – Strade di Fuoco, Giunti, 1998).

Il rhythm & blues di Gary U.S. Bonds aveva avuto il suo apogeo all’inizio degli anni Sessanta, con numerosi passaggi radiofonici, ma nel nuovo clima musicale era caduto in disgrazia, finendo relegato nel marginale circuito oldies. Tuttavia, i passaggi del periodo aureo contribuirono a fare da terra feconda per un seme, dal quale germogliò una pianta destinata a crescere fino a diventare una delle più massicce e longeve del rock; quel seme era Bruce Springsteen. Il futuro Boss aveva ascoltato la musica di Gary alla radio durante l’adolescenza e se n’era innamorato di un amore profondo e duraturo, di quelli che permettono di scoprire chi si è e come ci si relaziona col mondo. Non è un caso se Quarter To Three fu ripetutamente inserita in chiusura delle scalette del tour a supporto di “Born To Run”, nel 1975 (documentata anche nel video “Hammersmith Odeon, London ’75”), e di “Darkness On The Edge Of Town”, tre anni dopo (e ad oggi si calcola che la canzone sia stata suonata dal vivo da Springsteen più di duecento volte). Ma la vita è una ruota, e così, mentre a metà anni Settanta Springsteen trovava la sintesi perfetta delle sue influenze accedendo all’Olimpo dei più grandi, in quello stesso periodo Gary U.S. Bonds, reduce da qualche successo conto terzi con She’s All I Got, scritta con Jerry Williams, Jr. e divenuta nel 1971 un hit da Top 40 per Freddie North e un numero 2 nella classifica country per Johnny Paycheck, si era trasferito con la famiglia a Long Island e sbarcava il lunario esibendosi nei club della East Coast, privo di alcun contratto discografico. Una situazione senza prospettive, insomma, destinata ad andare avanti sino alla fine del decennio, perché la vita è per l’appunto una ruota: una sera del 1979, mentre sta lavorando a “The River”, Springsteen, che non ha mai dimenticato il suo eroe adolescenziale, va ad un concerto di Gary all’Hanger di Atlantic City; qui si presenta al cantante, dichiarandosi un suo fan, e gli chiede se può unirsi alla sua band sul palco per suonare un pezzo. Gary, che non conosce quel cordiale giovanotto bianco, accetta, salvo poi rimanere sconcertato dalla reazione esaltata del pubblico quando vede il Boss tra i musicisti. Springsteen gli offre quindi di incidere un brano scritto da lui, Dedication, un omaggio motivato dal fatto che “suona come te”, e ottiene una convinta adesione, ma poi è costretto a congedarsi, oberato dagli impegni in studio e dal vivo. Passeranno altri due anni prima che il Boss si rimetta in contatto con Gary U.S. Bonds, ma stavolta con qualcosa di più concreto, e comunque roba che farebbe tremare i polsi a molti musicisti: tre brani scritti da lui, alcune ore di studio pagate e la E-Street Band a fare da backing band.

gary us bonds - dedication

“Dedication” esce nell’aprile del 1981 – per la EMI, che nel frattempo si è fatta avanti con un contratto, ingolosita dall’idea di strappare alla Columbia, anche solo temporaneamente, Springsteen e la sua banda – e la dice lunga già dal titolo, nella sua duplice accezione di “dedica” e “dedizione”: la prima quella del Boss ad uno dei suoi idoli di gioventù, la seconda quella di Gary nel mantenersi in attività nonostante i prolungati rovesci di fortuna. Dedizione che paga, peraltro, perché il disco che ne esce è di livello stupefacente: la E-Street Band, reduce dal giro di concerti a supporto di “The River”, è all’apice della forma e della coesione, gli ospiti sono tutti di alto profilo (il soul man Chuck Jackson, Ben E. King e persino Ellie Greenwich ai cori; l’intera sezione fiati di Southside Johnny & the Asbury Jukes; Rob Parissi, già leader dei Wild Cherry, alla chitarra e anche in veste di produttore) e anche la cura del suono è affidata a professionisti di prima fascia (Bob Clearmountain, Neil Dorfsman, Tony Bongiovi, oltre agli stessi Springsteen e Steve Van Zandt). Ma la sorpresa definitiva è il livello dei brani: è quest’ultimo versante che consente all’album di ergersi, grazie al sapiente ripescaggio di tre canzoni che il Boss aveva scritto e pensato per “The River” ma che erano poi apparse troppo intrise di rhythm & blues per inserirle in quel disco pure eclettico. Queste ultime compongono l’ossatura principale del lato A, a seguire l’apertura spiritata con una versione ancheggiante e irresistibile del traditional cajun Jole Blon, guidata dai cori e dalla fisarmonica di Danny Federici, e a dimostrare il talento dell’autore e dell’esecutore: This Little Girl si scatena danzerina, trasudando errebì verace e colpendo al cuore all’altezza di un ritornello debitore di Ray Charles anche più di quanto già il titolo denunci, Your Love declina ancora una volta la vitalità dolceamara tipica della scrittura springsteeniana e Dedication è nuovamente un invito a scatenarsi sulla pista al ritmo di un R&B indiavolato, come, del resto, il pubblico di Gary U.S. Bonds era abituato a fare già da inizio anni Sessanta. Tempo di aggiungervi la pacata Daddy’s Come Home, scritta da Miami Steve, che fotografa l’alba del reaganismo con una compostezza che il sax di Clarence Clemons rende struggente, e si fa strada il lato B, sorretto da cover, tutte all’altezza degli originali: It’s Only Love dispensa gli aromi aciduli dell’originale beatlesiana sostituendoli con fragranze soul, un pianoforte accogliente e un sassofono pungente; The Pretender arricchisce di impatto e di finezze soul (i cori femminili) l’arrangiamento di Jackson Browne; From a Buick 6 ancheggia ammiccante in shuffle, spoglia di tutta l’esuberanza campestre dell’originale dylaniana. Insomma, un disco onesto, vivido e concreto, contemporaneo non meno che fuori dal tempo; si potrebbe persino arrivare a definirlo un classico minore.

Ne esce un successo da Top 40 (numero 27 nella classifica generale, mentre nella classifica R&B si ferma al 34) e sbocciano autorevoli giudizi che definiscono questo strano album di Bruce Springsteen e la E-Street Band con un cantante soul alla voce “uno dei più riusciti ritorni della storia del rock ‘n’ roll”, mentre anche This Little Girl diventa un caso, issandosi al numero 11 della classifica dei singoli. È il trionfo di Gary U.S. Bonds, tornato per restare in un mondo che sembrava averlo respinto definitivamente vent’anni prima; ne seguono nutrite esibizioni a supporto (stavolta con la solita backing band, mentre le comparsate sul palco con Springsteen diventano occasionali) e una rinnovata domanda del pubblico per la musica di quella vecchia gloria del rhythm and blues e del twist. Nel frattempo si è fatto il 1982.

gary us bonds - on the line

“On The Line” è l’ultimo album che vede una collaborazione tra Gary U.S. Bonds e Bruce Springsteen, ma stavolta il contributo si è fatto ancora più intenso, perché i brani a firma del Boss sono sette su undici, senza contare che in sala di incisione c’è nuovamente la E-Street Band con il suo leader, che nuovamente si accomoda in cabina di regia assieme a Miami Steve. Il risultato è un disco ancor più springsteeniano del precedente nei suoni, leggermente meno luccicante di qualità nella composizione ma non per questo privo di episodi degni di stare su “The River”, come, ad esempio, Out Of Work, ennesimo saltellante quadretto working class firmato dal Boss che descrive come meglio non si potrebbe la recessione di inizio anni Ottanta e che finisce incredibilmente in classifica al numero 21, o la lenta Club Soul City, in cui il vibrato del cantante è uno squisito cicerone per il luogo che il titolo indica. Ormai impazzano, però, gli anni del profitto che tutto divora, e infatti la Columbia costringe Springsteen a rimuovere le sue parti vocali dal duetto con Gary su Angelyne (rimedia Little Steven), pure scritta da lui, con l’effetto che di molte parti da lui cantate il Boss non è accreditato formalmente. Miserie umane di cui il disco non risente, proteso com’è nel descriverle in maniera accurata ma composta, consapevole della situazione difficile in cui ci si trova ma fiducioso che un domani migliore esista e sia raggiungibile. Arte springsteeniana, insomma, della quale è eloquente emblema lo scatto di copertina. In tutto ciò il contributo di Gary U.S. Bonds sembra minimale ma non lo è, perché, se pure il cantante risulta (co)autore di due sole canzoni, il suo tenore carico di emotività soul marchia indelebilmente i pezzi, smarcandoli da un’influenza così pervasiva come quella del Boss del New Jersey e rendendoli qualcosa di diverso; e non è poco. Ma proprio questo è il problema.

Che emergerà compiutamente due anni dopo, quando Gary ci riproverà in proprio con “Standing In The Line Of Fire”; Bruce ormai non c’è più e Miami Steve si limita a scrivere un brano e produrre. Ovviamente le classifiche resteranno un miraggio, e altrettanto ovviamente il cantante virginiano tornerà a esibirsi sui palchi minori del circuito oldies, grato dei quindici minuti di fama più quindici che il mondo gli ha concesso e sempre prodigo di elogi per quel giovane ragazzo bianco di cui fu mentore inconsapevole e pupillo maturo. Perché nella musica, come nella vita, si impara mentre si insegna e viceversa.

Oggi, a ottantuno anni, Gary Anderson continua a tenere spettacoli dal vivo in giro per gli Stati Uniti. Un buon investimento, quei bonds, non c’è che dire.

…bisogna farsi gli italiani: The Backdoor Society – The Backdoor Society

Mentre tutto il mondo neo-Sixties guarda lontano, all’America o alla Francia, io focalizzo lo sguardo su Piacenza, e il perché è presto detto.

Innanzitutto perché è vicina a Salsomaggiore. E a Pisa. E poi perché ci sono i Backdoor Society. Quattro individui che, assunta la più classica testudo rock (voce-chitarra-basso-batteria), si studiano di ricreare il più selvatico suono del rhythm & blues nella concezione che ne avevano i gruppi europei a metà anni Sessanta, dopo l’esplosione del fenomeno Rolling Stones, con particolare riguardo a quella ruspante versione delle declinazioni più esuberanti della British Invasion (Pretty Things, Animals, Birds) emersa nei Paesi Bassi ad opera di formazioni come Het, Q’65, Motions e Outsiders e ribattezzata “Niederbiet”. Riuscendoci peraltro egregiamente, come è spesso proprio dei gruppi italiani che si cimentano nel genere, e dunque ottenendo riscontri, prima concertistici, in patria e all’estero, quindi discografici, ad opera dell’attivissima Area Pirata, che ad aprile ha pubblicato il loro primo LP, l’omonimo la cui copertina si può vedere sopra, sagace riassunto di stilemi nella sua mistura di op art prettamente Sixties e tinte da Honey Bee che ronza sulle acque fangose; blues e psichedelia insieme, una volta di più.

Se si dovesse credere al “Dutch Beat album of the year” con cui la rivista inglese Shindig, una delle voci più autorevoli in materia di suoni dei Sessanta, ha incoronato “Backdoor Society”, il risultato degli sforzi dei nostri piacentini in studio di incisione dovrebbe essere eccellente. Ma alla stampa è meglio non credere più di tanto, preferendo, in materia, l’orecchio all’occhio. E a verifica aurale l’album non delude, confermandosi una forza della natura, una scarica di energia in dodici tracce che trasporta nel mezzo della Pianura Padana il jungle beat di Bo Diddley come riletto dagli zeekapers del Mare del Nord, riuscendo a suonare sincero pur nell’evidente derivatività della proposta musicale. Perché, obiettivamente, come si fa a restare fermi davanti al tarantolame di Story No. 2, o al battito animale di Go On Home? O a non volersi far risucchiare nel powwow malsano di What’s On Your Mind, tra Dead Kennedys e il garage più ruspante? A dire il vero ci sarebbero anche un paio di ballate, giusto per riprendere un minimo di fiato, ma sono a fondo corsa, come Better Than Me, e comunque evolvono sempre da arpeggi jangly a convulsi due quarti di elettricità e blues con gli amplificatori Vox a palla. E la malia di “Backdoor Society” è, alla fine, proprio questa: che è un album di puro rock ‘n’ roll, suonato con le attenzioni melodiche dei medi anni Sessanta ma pur sempre puntato sugli istinti bradi dell’ascoltatore, e in questa sua miscela fa un ottimo lavoro, tenendo insieme più che egregiamente i due elementi, la melodia e l’impeto, non da ultimo per la prova dei musicisti e per la produzione, filologica senza estremismi e dunque funzionale a una efficace resa fonica.

Davvero una sorpresa, questo album; una bella sorpresa. O forse no, non si deve parlare di sorpresa, perché qui da noi le condizioni ambientali vi sono tutte affinché le realtà musicali autoctone possano dimostrare quanto valgono (quando valgono, naturalmente), supportate da etichette parimenti nostrane e credibili sul piano internazionale, e infatti tanto è successo in questo caso. Però noi italiani siamo bravi a sabotarci da soli, e quindi vale la pena di ribadire che in quest’ambito, in particolare quello del Sixties revival, non siamo secondi a nessuno; al massimo amari, e senza ghiaccio.

Io, comunque, spero di vederla dal vivo, la Backdoor Society. Anche solo per comprare una maglietta che esibisca il logo della sua ragione sociale. Maglietta da vestire con scopo scaramantico e premonitorio non meno che lubricamente predatorio. Perché nella Primogenita lo sanno che, fatta l’Italia, bisogna farsi gli italiani.

Agosto madre mia se ti conosco.

Quando la temperatura sembra raggiungere vertici prima ignoti e nemmeno la notte, ossia il momento in cui la canicola dà o dovrebbe dare un po’ di tregua, porta ristoro, occorre prendere provvedimenti. Ma cosa fare se il caldo intollerabile non solo persiste anche durante la notte, ma ha stabile alloggio dentro? Cosa fare se la calura opprimente null’altro produce se non sudori freddi, che dalla fronte incrociano gli occhi in perpendicolare e ne offuscano lo sguardo?

La notte è il tempo del foro interno, dei conati di inconfessabile, dei rimorsi mordaci. Del sentirsi persino senza madre, il sancta sanctorum dell’essere vivi, irrimediabilmente soli con se stessi. Delle ombre nere che trascolorano in blu. O meglio, in blues. E chi di blues e di notti calde dentro e fuori ne sa, o persino ne ha mai saputo, di più di Ray Charles?

“La calda notte dell’ispettore Tibbs” uscì nel 1967, e per la prima volta un canadese guardava al Sud e ai suoi costumi con lucidità mista a indulgenza. Ma non era costui un musicista; per quello ci vorranno altri cinque anni e non son pochi, specie in quel periodo. I musicisti indigeni, invece, avevano ben chiaro cosa succedesse nelle afose notti giù in Dixieland, e sempre meno tema di farlo sapere, anche solo in tralice, descrivendo notti di autoconsapevolezza, e perciò di blues, con i modi squisiti, artistici e umani, a cui già allora da tempo ci avevano abituato. Lasciamo quindi a loro, alla struggente voce di brother Ray, all’organo sornione di Billy Preston e agli arrangiamenti impeccabilmente dosati di Quincy Jones, di condurci oltre la siepe e poi del buio che ivi ristagna, raggelandoci e contemporaneamente scaldandoci il cuore in una notte già difficile. In cui adesso naufraghiamo, madidi dentro e fuori a discrezione, o forse il contrario, ma pur sempre vigili affinché non ci colga il sonno esiziale, quello che genera i mostri. Perché a quel punto saremmo davvero in the heat of the night, e se al Sud, altrove o all’inferno non farebbe più tanta differenza.

Per la contradizion che nol consente: Mother’s Finest – Mother’s Finest (1976)

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Che il rock ‘n’ roll sia un’invenzione nera c’è poco da dubitare, nonostante Elvis, la Sun, Carl Perkins e tutto il resto. E però sappiamo tutti come è andata. Da quella volta i neri si sono fatti più guardinghi e hanno progressivamente diradato le loro partecipazioni nel rock, lasciandolo nelle mani dei bianchi; eccezioni eccellenti come Jimi Hendrix, Arthur Lee, Sly Stone o Phil Lynott valgono solo come conferma della regola. Non che sia (stato) un male: difficilmente, in caso contrario, avrebbero potuto manifestarsi rhythm&blues, soul, funk e hip hop, e quindi, alla lunga, questo sistema, ancorché poco commendevole sul piano sociale, ha prodotto comunque frutti musicali di sostanza. Però è un fatto che dagli anni Sessanta musicisti bianchi e neri americani hanno incrociato le proprie strade in un numero limitato di casi (ma con esiti sopraffini, basti pensare alla house band della Stax, artefice strumentale di ottima parte dei successi soul dei Sessanta, composta equamente dai bianchi Steve Cropper e Lewis Steinberg – poi Donald Dunn – e dai neri Booker T. Jones e Al Jackson Jr.), preferendo marciare in parallelo, complice anche una morale sociale che guardava con sospetto al meticciato. Ad onta di proclami, targhe e monumenti, la convivenza tra razze non è mai stata facile (anche al giorno d’oggi, figurarsi trenta, quaranta, cinquanta anni fa), e la musica ha fatto i conti, in termini di volontà di riforma o di più o meno tacito assenso, con questo stato di cose.

Ciò significa che, dagli anni Sessanta, i neri non hanno più nulla da dire in ambito rock ‘n’ roll? No, ovviamente. Solo che non hanno trovato possibile o conveniente dirlo, anche perché a quel punto questo linguaggio musicale era passato saldamente nelle mani dei bianchi (che lo hanno dapprima sviluppato sino a fargli perdere la componente “‘n’ roll” e poi anche riportandogliela a modo loro) e, come dicevamo, se c’è qualcosa che l’establishment guarda con sospetto e fregola repressiva è proprio il meticciato. “Non farà perire la posterità del suo eletto né distruggerà la stirpe di colui che lo amò” (Siracide 47,22); capito l’antifona?

Non hanno avuto vita facile, quindi, i Mother’s Finest da Atlanta, Georgia. E non perché provenissero da uno Stato dell’Unione che fino al 2001 ha mantenuto la stars and bars nella sua bandiera ufficiale e tuttora esibisce a vessillo le tredici stelle degli Stati ribelli, ma perché provavano a mettere insieme ciò che insieme non voleva stare, in quegli anni Settanta in cui l’identità personale giovanile si costruiva anche attraverso l’appartenenza a sottoculture musicali e in cui la percezione del conflitto sociale e la conseguente violenza politica erano alquanto frequenti. Vale a dire sonorità bianche e nere fra loro apparentemente antitetiche, quantomeno sul piano ideologico e culturale, ossia hard rock e funk, generi ciascuno sorto come estremizzazione di alcuni stilemi del calderone dei Sixties e teso a marcare una divaricazione netta tra musica bianca (generalizzando: rock) e nera (generalizzando: soul, R&B, funk, disco). O bianco o nero, o di qua o di là, niente posizioni intermedie; chiedete ai Kiss di “Dynasty”. Eppure laggiù nel Profondo Sud, dove la convivenza “forzosa” e i venti di rinnovamento sociale del movimento degli anni Sessanta avevano ispirato alle generazioni più giovani una maggior apertura mentale e una consapevolezza della necessità anche storica di superare certi consolidati schematismi, le cose piano piano si sono smosse e i musicisti, che più degli altri sono consapevoli che la musica essenzialmente unisce, hanno cominciato a suonare insieme solo per ragioni di abilità e feeling, e non di melanina. Di ciò i nostri sono un esempio lampante: sei musicisti, quattro neri e due bianchi. Con ripartizione peraltro inusuale, ché se sembra logico e quasi doveroso trovare dietro i microfoni come pure al basso i componenti neri, e alla sei corde un capellone bianco e biondo, viceversa desta sulle prime sorpresa rinvenire il diafano Barry “B.B. Queen” Borden dietro i tamburi a tessere le trame di un groove tanto fratturato quanto irresistibile e l'”abbronzato” Mike Keck alle prese con le tastiere, per antonomasia lo strumento della tradizione. Ma l’amalgama ha funzionato perfettamente, a dimostrazione che, se è vero che la bellezza è nell’occhio dell’osservatore, lo è altrettanto il fatto che gli steccati sono perlopiù nella mente dell’ascoltatore.

I Mother’s Finest nascono nel 1970 dall’incontro della coppia di cantanti e coniugi Glenn Murdock, ex componente dei Vondells (formazione autrice di un classico minore del northern soul, Hey Girl You’ve Changed), e Joyce “Baby Jean” Kennedy, titolare in proprio di qualche singolo soul a inizio anni Sessanta (si ascolti l’indiavolata I’m A Good Girl, successo locale nell’area di Chicago), con due giovani musicisti bianchi, il chitarrista Gary “Moses Mo” Moore (il destino nel nome?) e il batterista Barry “B.B. Queen” Borden. Quando ai quattro si aggiungono il bassista Wyzard (all’anagrafe Jerry Seay) e il tastierista Mike Keck, il gruppo è cosa fatta, e da subito il sestetto si incarica di dimostrare al mondo la propria valentia: esibizioni infuocate di un rock caleidoscopico che fonde ritmiche funk, impatto hard e vocalità soul permettono alla formazione di farsi strada dai club di Atlanta e del Sud sino alle grandi arene, dove aprono per gente come Aerosmith e Earth, Wind & Fire, Ted Nugent e Van Morrison, gli Who e i Black Sabbath, guadagnandosi una reputazione di insidiosissimo opening act per la loro capacità di scaldare il pubblico quant’altri mai e di farsi rimpiangere una volta salito sul palco l’headliner. Cosicché quando, poco dopo, la RCA offre al gruppo un contratto discografico, la fama sembra ad un passo; passo che, però, si rivela falso, giacché l’omonimo LP, uscito nel 1972, non riproduce il dirompente impatto fisico del sound che i Mother’s Finest sanno sprigionare dal vivo e, difatti, non soddisfa né la formazione né, soprattutto, l’etichetta, che scarica prontamente il sestetto. Poco male, perché il palco è sempre stato l’habitat naturale dei nostri, e la successiva ulteriore esperienza dal vivo permette ad un gruppo che ha bruciato le tappe di trovare il proprio equilibrio sul piano strumentale ma anche compositivo. Passano tuttavia tre anni – tre anni dei Seventies; a livello discografico, un’eternità – prima che della formazione si accorga un altro notabile, il produttore Tom Werman, e la trascini alla corte della Epic (dove, del resto, già alloggia il suo “protetto” Nugent ed a breve convoglieranno anche i Cheap Trick). Da queste premesse un’ulteriore prova discografica a trentatré giri sembra quasi una formalità, e infatti il gruppo si chiude ai Criteria Sound Studios di Miami proprio con Werman, spedendo sul mercato, a metà del 1976, un nuovo LP, anch’esso battezzato con il nome della band, scelta curiosa o forse emblematica della volontà di considerare il nuovo contratto un inizio a tutti gli effetti. E che inizio!

“Mother’s Finest” numero due non salirà mai più in alto della posizione 38 nella classifica americana, e ciononostante è uno dei migliori dischi hard rock di sempre. In soli sette pezzi, nessuno dei quali ripreso dal precedente LP, i Mother’s Finest identificano la formula probabilmente definitiva della fusione tra funk e hard rock, esperimento già tentato in quello stesso periodo (“Burn” e “Stormbringer” sono entrambi del 1974) ma mai portato a questi livelli di intensità ritmica. D’altronde, se nei Settanta l’hard batte incontrovertibilmente bandiera britannica (nonostante un fertilissimo sottobosco mondiale, in primis statunitense), nessuno ha mai messo in dubbio il passaporto a stelle e strisce del funk, e quindi le credenziali della formazione per riuscire nell’impresa (presenza di bianchi e neri in formazione, provenienza dalla Georgia madre di ogni rilevante sound sudista) erano ampie ed attendibili. Ma liquidare i “The Mother’s” come una formazione funk con le occasionali bordate hard non coglierebbe nel segno, perché il rapporto è invero quasi rovesciato, e una Fire posta in apertura, sorta di Highway Star versione concerto for group and gospel choir, sta lì a testimoniarlo, come pure i quasi otto minuti di groove carnoso e carnale che costituiscono Give You All The Love (Inside Of Me). I Settanta sono stati un periodo irripetibile anche per il gusto irriverente di molte proposte di (contro)cultura popular, e  valga ad ennesima conferma anche una piccola provocazione sarcastica come Niggiz Can’t Sang Rock & Roll, riff spaccamontagne e ritmica ancor più devastante a sancire che non servono muri di distorsione per sprigionare potenza irresistibile e che i negri, se ci si mettono, il rock ‘n’ roll lo sanno cantare eccome. E sul retro le cose non cambiano, perché se la rilettura di My Babe (classico del blues a firma di Willie Dixon, portato al successo dall’armonicista Little Walter nel 1955) è fatta coi piedi ben saldi in quella contemporaneità fatta di zeppe, lustrini e muri di Marshall, ed anche le concessioni radiofoniche di Dontcha Wanna Love Me trasudano in realtà sentimento ed espressività (e forse anche per questo non funzioneranno; eppure chissà dove avrebbero potuto portare una canzone del genere, chessò, Tina Turner, Chaka Khan, Dionne Warwick o Whitney Houston), mentre la conclusiva Rain funge da contraltare, magari più sottile ma non meno scrosciante, al fuoco d’apertura. Che si estingue dopo nemmeno trentacinque minuti di impatto, la cui coesione sonora è mirabilmente trasposta su nastro dall’orecchio ancora non esperto ma già impeccabile di Tom Werman.

Come detto, il disco non incontrò particolare successo, e nemmeno il singolo “Rain” si spinse oltre il numero 93 di Billboard. Perché, viene da chiedersi? Per due motivi, a mio avviso; uno musicale e l’altro socio-culturale. Il primo è il fatto che i Mother’s Finest nascono e si sviluppano essenzialmente come live band, creandosi nel tempo una reputazione tale da permettere loro di farsi strada dai localini del Sud fino agli stadi, e quindi scrivono e incidono pezzi che sono perlopiù escogitati per essere valorizzati dal vivo, dove rendono al meglio; e infatti dimostrazione di ciò verrà data da “Mother’s Finest Live”, uscito nel 1979. Poi perché una formazione meticcia che suona musica meticcia in un momento in cui il Vietnam scotta ancora sulla pelle, i ghetti bruciano non solo metaforicamente e la dimensione privata comincia a soppiantare quella collettiva non può che destare, se non sospetto, indifferenza più o meno consapevole: meglio, dunque, procedere in parallelo, noi di qua e voi di là, chi James Brown e i Funkadelic e chi Ted Nugent e i Van Halen, al massimo ci si vede al 254 della 54esima ovest ma poi ognuno a casa sua. E quindi anche il tentativo, compiuto col seguente “Another Mother Further” (1977), di valorizzare le radici nere per sfruttarne l’ottimo momento commerciale (Baby Love è a un passo da certa disco allora all’apice del successo) non ottenne particolare risultato, portando il gruppo a sfaldarsi all’alba degli Ottanta, salvo un successivo rientro che, tra riassestamenti di formazione e prove discografiche sempre quantomeno dignitose, perdura tuttora e che, prevedibilmente, vede nell’esibizione dal vivo la sua ragion d’essere.

Ma ciò nulla toglie al merito dei Mother’s Finest come coraggiosa entità di rottura, e nemmeno a “Mother’s Finest” quale impeccabile crogiolo in cui da ormai quarant’anni magmi musicali diversi ma incandescenti in pari grado ribollono mescolati e felici di essere tali. E no, non è stato solo un sogno, Doctor King.

Attenti a quei due #1: vendemmia d’ira tra fauna d’Africa e nervi saldi.

Lo so, manco da un po’. Non che sia un male eh. Però non avevo molto da dire, nonostante lo svariato accaduto medio tempore, e dunque, memore dell’avviso del Padrino del Soul, ho pensato fosse meglio evitare di talkin’ loud and sayin’ nothing. Ora, però, è estate sul serio, e siccome sopravvivere all’estate è da sempre uno dei compiti più ardui che si richiedono ad un bipede, eccomi intento nell’arduo compito con l’accompagnamento fonografico a fungere da ala al folle volo. Roba vecchia, perlopiù, ma nuova, per i più. Chissà che possa fungere da ombra riposante anche per altri.

La scelta, questa volta, è caduta su due soli dischi, fra loro molto diversi ma attraversati da un filo conduttore. Entrambi, infatti, vengono dalla California di quella fine anni Sessanta dalla quale la musica popolare mai si affrancherà, e in un certo senso si prestano a dimostrare come quella scena fosse, ad onta di certi triti cliché su Haight-Ashbury, allucinogeni e flower power, in realtà musicalmente variegatissima, ancorché avvinta ad alcuni minimi comuni denominatori concettuali, non sempre commendevoli, come la solita ineludibile smania di profitto. Ideali e guadagno, utopia e divertimento, tra loro saldamente impastati, in maniera inestricabile e culturalmente inspiegabile per i non provvisti di lucidità abbacinante. Questo fu la California dei Sessanta, non la terra promessa che spesso ci piace vagheggiare per allontanare le miserie del contingente e circostante. Tanto vale ricordarsene, nel quotidiano e inane vaticinio dell’indomani dell’Impero, se biondo o biondo vero.

RHINOCEROS – RHINOCEROS (1968)
rhinoceros
Nato nel 1967 a Los Angeles dall’iniziativa di Paul Rotschild, all’epoca produttore e talent scout per l’Elektra, il Rinoceronte si mostrava già sulla carta un animale compatto e spaventevole, giacché solidamente assemblato con pezzi di Iron Butterfly (il chitarrista Denny Weis e il bassista Jerry Penrod), Buffalo Springfield (il chitarrista Doug Hastings), Mothers Of Invention (il batterista Billy Mundi), Electric Flag (il tastierista Michael Fonfara) e dei canadesi Jon and Lee & The Checkmates (il cantante John Finley). Assemblato, per giunta, sotto la ferrea supervisione dell’apparato discografico, e, quindi, lanciato a testa bassa verso un successo che si pronosticava ampio e quasi ovvio. E tuttavia, nonostante gli ingenti sforzi promozionali, l’omonimo LP di debutto, uscito nel 1968 (ovviamente per i tipi di Elektra) raccolse un mero e magro numero 46 su Billboard; né il tentativo dell’anno seguente, dopo numerosi riassestamenti della formazione, sortì maggior fortuna, perché anche il pure valido “Satin Chickens” non decollò, trascinando il nome dei Rhinoceros nel gorgo delle formazioni dei gloriosi Sixties californiani dimenticate ormai da tutti o quasi. Il che è un vero peccato, perché questo debutto è un’efficacissima sintesi della piega che il rock del Golden State stava prendendo nel segmento tra Monterey e Woodstock. E non tragga in inganno la copertina florofaunicola, strizzata d’occhio di prammatica alla psichedelia allora imperante (We‘re only in it for the money, ricordate?), ché in questi solchi domina una miscela riuscitissima di rock blues arcigno e soul sudista, come degli Steppenwolf che rifanno Otis Redding o Marvin Gaye facendo tappa a Macon, Georgia. E, tra le chitarre armonizzate, l’andamento felpato, e la voce seduttrice od urlatrice alla bisogna dell’iniziale When You Say You’re Sorry, il lirismo drammatico di That Time Of The Year, il groove “animoso” di You’re My Girl (I Don’t Want To Discuss It), il Wilson Pickett sotto amfe di I Need Love (rifatta dai Blues Brothers sarebbe stata un probabile hit) e lo strumentale da ballo Apricot Brandy (rivistato anche dall’eccellente e sfortunato Danny Gatton nel 1990), “Rhinoceros” si rivela una pepita luccicante e godibilissima, nonché una preziosa istantanea di quell’irripetibile momento in cui il rock si interrogava sul senso di categorie musicali (ma anche stricto sensu umane) come “bianco” e “nero”, sforzandosi di diventare musica “totale”, nuova senza perdere le radici, americane e africane. Come il vinile, come il rinoceronte.

COLD BLOOD – COLD BLOOD (1969)
Cold Blood
Tutt’altro che sangue freddo è la reazione suscitata dalla copertina, recante sì la scritta con il monicker del gruppo, ma anche la foto della sua leader de facto Lydia Pense, bellezza scioccante e non avete ancora sentito niente. Perché la signorina è in possesso di un’ugola sopraffina, capace di profondità bluesistiche allora inesplorate per un’adolescente bianca ed anzi no, perché a tracciare la via ci pensava, all’incirca alle stesse coordinate spazio-temporali (la Bay Area della seconda metà dei Sessanta), una texana di nome Janis, e sarà quindi all’ombra del paragone con la Joplin che si svolgerà la prima fase della carriera della nostra. Carriera intrapresa proprio fronteggiando i Cold Blood, formazione inusuale persino in quell’allucinato potpourrì in riva al Pacifico, vista la scelta di accompagnare i canonici strumenti rock con una sezione fiati completa, e infatti da subito paragonata (complici anche le frequenti osmosi tra le formazioni) ai più fortunati e noti concittadini Tower Of Power. Ed esattamente sulla scia di tali referenti la carriera dei Cold Blood si è protratta fino al 1976, e cioè all’insegna di un intenso pastiche di rhythm & blues, soul, funk, jazz e rock, porto in una formula dilatata ma mai slabbrata ed anzi col gusto di chi suona per il pubblico ed i suoi corpi prima ancora che per sé ed il proprio ego. Miscela riuscita al meglio nell’album di debutto, dove sette pezzi di durata (solo uno sotto i cinque minuti) tratteggiano il ritmo e le speranze dell’America giovane che vuole mettersi a capo dei suoi destini, superando le divisioni del passato; tentativo che già allora apparve per ciò che era, utopia, come certificato in apertura da un gospel di intensità emotiva quasi insostenibile e dal paradigmatico titolo I Wish I Knew How It Would Be To Be Free, ma anche da squarci blues come la bene che vada sorniona If You Will e la carezzevole Let Me Down Easy, per cui non resta che farsene una ragione e viversela bene, come sottolinea, con fiati ed organo, una You Got Me Hummin’ che sta tra Pickett e Aretha, e come certifica una I Just Want To Make Love To You così carica di groove sensuale da porsi ai limiti del pen…ale. Dopotutto è estate. Ma se saprete avere sangue freddo, quella di miss Pense sarà la voce più bella che le vostre orecchie sentiranno cantare quest’anno.

Il secondo secondo me: Mr. Wob And The Canes – The Ghost Of Time


Qualcuno ha lasciato aperte le gabbie. Di nuovo. E di nuovo i Cani sono scappati, con la lingua a penzoloni e la voglia di libertà. E di nuovo alla loro testa c’era un segugio di nome Mr. Wob.

Dopo due anni sono ancora liberi, ma non più latitanti. E due anni non sono pochi, specie per un randagio: provateci voi a vagare senza meta (o con troppe mete, ciò che è lo stesso) in cerca di pubblico e musica, di note e parole. Però chi vaga e viaggia ha storie da raccontare, quando torna. Se torna. Ebbene, Wob e i Canes sono tornati.

Apparentemente “The Ghost Of Time” (uscito a maggio 2015) non dovrebbe differire di molto dal suo predecessore: stessi musicisti, stesso studio, stesso progetto, stesse tematiche. E invece no. È adagio comune che il secondo sia l’album più difficile di una carriera, perché richiede di confermare ciò che di buono il debutto aveva lasciato intravedere nel contempo affinando le asperità dell’inevitabilmente meno maturo esordio. Operazioni che possono stroncare una carriera, perché complesse e spesso compiute senza reale autonomia di giudizio o anche solo accortezza, in dispregio della sostanza del contenuto e con in mente altre e più pressanti esigenze, non da ultimo di carattere mercantile. Non così i nostri tre canidi, che hanno debitamente ponderato il ritorno, incidentalmente ed una volta di più dimostrando di possedere apprezzabile spessore artistico e rammentando al pubblico l’idea che il ruolo del musicista contempla un percorso, e dunque manifestando la loro necessità di spaziare per trovare, o addirittura tracciare, il proprio. 

Ecco quindi il trio lasciare sullo sfondo le più spiccate ambientazioni voodoo che avevano reso affascinante “Invitation To The Gathering” (operazione non solo metaforica; basta guardare la copertina), utilizzandole come base per esplorare nuove e più variegate sonorità, anche con l’ausilio di altri e diversi strumenti, perché qui tromba, trombone e organo Hammond prendono il posto di armonica e fife, che avevano insaporito il primo album.

Il risultato? Interessante. Aggettivo il cui utilizzo non serve per avanzare la solita stroncatura mascherata, ma per descrivere esattamente ciò che la musica qui contenuta suscita: interesse. Perché la carne al fuoco è molta e di ampia varietà, anche se la qualità delle pur variegate pietanze è, curiosamente, altalenante: se, infatti, l’apertura con Time Is Gone, litania monocorde ed amelodica dall’incedere minaccioso, sconcerta ed un po’ tedia, 2 o’ Clock blues deliziosamente gigioneggia tenendo il piede in due staffe, residenza a Congo Square e domicilio al Cotton Club, il banjo il contatto con la Big Easy di Kid Ory e la tromba e l’andamento pigramente swingante un ponte gettato verso la Big Apple della big band era; e mentre Coward Blues, a dispetto del nome, profuma di Mediterraneo e sembra De Andrè accompagnato da una PFM a organico dimezzato, Bourgeois gal, trascinante e sorretta da un’ottima slide acre, è esposta con voragine ellenica nei confronti della versione “cremosa” di Crossroads come della Rollin’ And Tumblin’ del Calore Inscatolato; e la dicotomia prosegue, perché l’incedere a passo di marcia rende il pacato folk delle isole britanniche che anima la seguente Ohio State davvero toccante, mentre il dinoccolato shuffle di Blue Blue si atteggia da tenebroso senza esserlo appieno. Un discorso a parte richiede, poi, la rilettura di Come On In My Kitchen, che cerca di coniugare pigrizia sudista e ritmiche frammentate di sapore quasi hard-bop, riuscendo nell’esperimento solo a metà e dimostrando che il repertorio del più grande bluesman di sempre è difficile da maneggiare per chiunque, tanto che questa interlocutoria versione di uno dei classici di Robert Johnson si pone, per intenti ed esiti, in un curioso parallelismo con quella offerta dalla Allman Brothers Band su “Shades Of Two Worlds”. Poco male, perché a risollevare le cose ci pensa un trittico finale di assoluto valore: prima This Nation, una coinvolgente zingarata che il banjo trascina a rotta di collo, ricreando un’atmosfera picaresca simile a quella di diversi pezzi del primo album; quindi l’irresistibile The Real Old BLUSE, forse il brano migliore del lotto, in cui il rhythm ‘n’ blues si incrocia nientemeno che col mambo, complici fiati sbarazzini e una ritmica su cuscinetti a sfera; infine una Just Lies che, pur con indubbie reminiscenze nordamericane, è nondimeno una cartolina dall’Africa Nera. Perché la vita è un grande cerchio e deve chiudersi laddove è cominciata. Laddove gli sciacalli non hanno pretese di essere altro che sciacalli, e dove i cani possono infine fare i cani.

Ora dovrebbe venire la parte “tecnica”, che dovrebbe riferire dei suoni e della registrazione. Risparmiatemela, ché siamo tra amici; basta sottolineare che tutto è fatto a regola d’arte. Tutto. A parte la scelta di inframezzare i brani con sei piccoli sketch sonori, di pochi secondi ciascuno, che dovrebbero simboleggiare altrettante apparizioni spettrali, visto che si intitolano tutti Ghost # e sono ordinati progressivamente. La ragione di tale scelta non mi è chiara, perché lo scorrimento del disco ne viene pregiudicato, mentre è difficile coglierne l’eventuale funzione “narrativa” e collocarla all’interno dell’ascolto. Ma non importa, perché coi fantasmi è inutile cercare ragioni: quelli, delle ragioni, non sanno che farsene. Perché le ragioni appartengono alla vita e, una volta trascorso il tempo, non resta che un’ombra di ciò che fu. Ma anche in vita il fantasma del tempo non commercia in ragioni, ma in sentimenti. Normalmente lo fa in silenzio, ma a volte si fa preannunciare. Dai segnali più strani. A volte persino dall’abbaiare di un cane. O dei Cani.

Indubbio stacco stilistico e, ad onta dei  descritti saliscendi qualitativi, notevole passo avanti rispetto all’opera prima, “The Ghost Of Time” lancia definitivamente Mr. Wob And The Canes nell’orbita di quelli che hanno qualcosa da dire in ambito musicale. Scusate se è poco.

P.S.: anche questo album è autoprodotto, e potete procurarvelo, con poco sforzo e spesa contenuta, qui. Se lo farete, senz’altro migliorete la vita di tre o più musicisti, ma forse anche la vostra. Pensateci.

Were kisses all the joys in bed, one woman would another wed: Lisa And The Lips – Lisa And The Lips

  
Ike Turner è sottoterra e Tina naviga verso gli ottanta immersa in una melassa di stardom ottenuta dal pop plastificato. Dimenticateli.

I nuovi Ike e Tina non vengono dal Sud, ma dalla California. Né sono entrambi neri. E, a quanto pare, la loro vita familiare non è per nulla burrascosa. I nuovi Ike e Tina non hanno bisogno di inventare il rock ‘n’ roll e una delle sue più convincenti ipotesi di crasi con il soul, perché sanno che i vecchi glielo hanno lasciato in eredità e quindi basta raccogliere questa eredità. I nuovi Ike e Tina Turner si chiamano Bob Vennum e Lisa Kekaula.

Lui chitarrista bianco innamorato del rock ‘n’ roll più istintivo e selvatico, lei cantante meticcia (padre hawaiiano, madre nera) dalle movenze di un felino a cui è stata tirata la coda e dal tono profondo e sexy, le cui caratteristiche quasi ovviamente la indirizzano verso sonorità della tradizione afroamericana. Insieme per la forza della passione musicale e per il principio potente per cui gli opposti si attraggono. Nascono così, nel 1990, i BellRays, formidabile macchina da rock ‘n’ roll che batte palchi di ogni tipo in ogni dove e imprime a fuoco solchi di vinile. Ma non basta. Col passare del tempo tutta quella elettricità diventa un copione già visto e già sentito, una scusa per scaricare watt e decibel sul pubblico senza curare i dettagli, la profondità, le emozioni. Ci vuole un cambiamento.

E così, in cerca di nuovi stimoli, Ike e Tina si muovono. Oh se si muovono! Ingaggiano, infatti, cinque musicisti provenienti da almeno quattro diversi Paesi (Spagna, Olanda, Messico e USA), inventano la nuova ragione sociale Lisa And The Lips e si producono in una rilettura delle sonorità che nei Sessanta e i Settanta hanno reso immortale il contributo dei musicisti neri americani alle sette note novecentesche. Ne esce il debutto omonimo, datato 2014 ma non si direbbe. Opera pregna di un groove non comune e però classico, in cui niente è nuovo ma tutto è bello: le avvolgenti spire funk di Stop The DJ come lo sfrenato rhythm & blues di Mary Xmas, il gioiello southern soul di The Pick Up come la raccolta consolazione di cuori spezzati che risponde al nome di It Only Takes A Little Time. Dieci brani di rock ‘n’ soul, definizione scontata e però la più pertinente, con ritmiche orgiastiche, ottoni martellanti, chitarre ficcanti e, a sovrastare tutto, il ruggito lubrico di Lisa la pantera. Tutta roba che dal vivo promette di diventare esplosiva. Se poi si considerano i suoni giusti (né integralismo analogico né eccessi digitali), la durata esemplare (poco sotto i 40 minuti) e la copertina perfetta, evocativa nella sua semplicità, diventa difficile dimandare di più a un disco soul nel Ventunesimo secolo.

Dimenticate Ike e Tina, ora è il tempo di Bob e Lisa.

P.S. Lisa and The Lips sono attualmente in tour in Italia (oggi, 4 luglio, al Festival Beat di Salsomaggiore (PR), lunedì 6 all’Altroquando di Zero Branco (TV), sabato 10 all’Hana Bi di Marina di Ravenna). Se volete espellere un po’ di tossine, sapete come fare.

Il Re è morto, viva il Re: B.B. King (1925-2015)

B.B. King In Concert - San Rafael, CA
E così è andato anche lui. Anche l’ultimo Re del blues ha abdicato. Ad età veneranda, senza dubbio, però nulla è più lo stesso quando finisce un regno, soprattutto con l’incombente spettro di un interregno anarchico e di durata potenzialmente illimitata.

Re lo è stato senza dubbio, Riley B. King, nel nome e nel portamento. Un blues regale, il suo, verace ma elegante, sempre intessuto di preziosi arrangiamenti orchestrali o ravvivato da scoppiettanti inserti degli ottoni, eppure mai dimentico della scala pentatonica minore con la quarta nota aumentata, vero e proprio ABC di quella musica quintessenzialmente afroamericana dalla quale è germogliato, che sia per aggiornamento, rilettura o rigetto, ogni idioma sonoro popular del Novecento. E infatti il Re del Blues ha regnato per quasi tutto il secolo sulle dodici battute, con autorevolezza e self-restraint, con saggezza e lungimiranza. Mai sopra le righe e sempre impugnando il fido scettro a sei corde, nero e di nome Lucille. E la vita lo ha ripagato di tutte queste qualità.

Detta così, sembra che la vita del nostro sia stata una passeggiata. Ma chiunque sa qualcosa di storia americana, e magari anche di blues, capisce subito che non è stato così. Nato nel 1925 a Indianola, Mississippi, Riley B. King perde in rapida successione madre e nonna, e all’età di nove anni vive già da solo in una baracca, raccogliendo cotone nei campi per sopravvivere e pagare i debiti ereditari. Quattro anni di fatica e solitudine, parlando coi conigli per non impazzire ed ascoltando lo “zio” Jack che canta l’holler, il tipico canto di lavoro dei contadini neri, andando nei campi a dorso di mulo. Da qui (ma soprattutto dalle sparute visite di Bukka White, cugino della madre e bluesman di gran vaglia) l’interesse per la musica e la fuga a Memphis, al tempo la più tollerante città del Sud, posta sul Grande Fiume (c’è bisogno di dire quale?) e viatico degli scambi col ricco Nord, in particolare Chicago. E nella città più popolosa del Tennessee Riley lavora come cantante e conduttore radiofonico, con conseguente nom de plume: prima Beale Street Blues Boy, quindi solo Blues Boy, ergo B.B. E sempre a Memphis, città del rhythm & blues, inizia, nel 1949, la carriera discografica del Re (curiosamente alle dipendenze di Sam Phillips, futuro fondatore della Sun Records e autore dell’incoronazione di un altro Re, quello del rock ‘n’ roll), che lo condurrà a soddisfazioni impensabili per un bluesman nero: oltre quindici Grammy, cinquanta LP (senza contare singoli e raccolte), concerti affollatissimi ai quattro angoli del globo, una laurea ad honorem dalla Yale University, tre diverse onorificenze dal governo americano e una lista di ulteriori riconoscimenti impossibile da rendere con pretese di completezza.

E così, dopo avere tenuto a battesimo, padrino non unico epperò distinto, un genere musicale (il rhythm & blues), dopo avere per decenni influenzato i musicisti più diversi (encomiabile, ed anzi una delle sue più preziose caratteristiche, l’onestà personale ed intellettuale di B.B. King, quest’ultima manifestata proprio nel riconoscere come l’influenza tra bluesman neri e bianchi, e soprattutto tra americani e inglesi, sia stata a doppio senso, tanto per lo stile musicale quanto per la reciproca esposizione al grande pubblico) con un fraseggio chitarristico istantaneamente riconoscibile, nella sua fluidità come nel tono rotondo ed emotivamente florido di ogni nota, e con una vocalità perfettamente impostata senza per questo perdere spontaneità e sensualità, e dopo avere allietato le più numerose e disparate platee sulla crosta terrestre, ieri B.B. King, da ormai un ventennio sofferente di diabete (patologia, del resto, che ha messo fine alla vita della madre e di una delle sue figlie; di ventuno che lui ce n’ha), è partito da Las Vegas per il Grande Viaggio.

Lo vidi dal vivo una volta sola, a Treviso, nell’estate 2006. Era già enorme, adagiato a centro palco su una sedia larga con la fida Lucille a tracolla, e già allora sembrava sull’orlo del precipizio. Eppure quell’ultraottantenne, ovviamente spalleggiato da una notevole backing band, si dimostrò più arzillo di quanto le apparenze suggerissero, in grado di passare disinvoltamente dall’intensa sensazione di lacerazione emotiva che promana da alcuni suoi classici slow blues (su tutti, ovviamente, The Thrill Is Gone) alla vitalità swingante dei pezzi più rhythm, senza per questo venire meno al dovere, particolarmente sentito dagli uomini di spettacolo americani, di intrattenere il pubblico tra un brano e l’altro, in questo caso producendosi in stralci di cabaret esilarante persino per un pubblico non aduso alla massima comprensione della lingua inglese. Ma la cosa che mi colpì maggiormente, al di là dell’ovvia qualità della proposta musicale e dell’elevatissima professionalità nel porgerla, fu la palpabile serenità dell’uomo e l’atteggiamento di semplicità ed umiltà che promanava da ogni suo atteggiamento, dal fraseggio chitarristico al motto di spirito fino ai ripetuti e sentiti ringraziamenti al pubblico accorso per tributare i giusti onori al Re (o forse per passare una serata diversa dal solito). E quel sorriso, smagliante e contagioso, una mezzaluna perlacea incastonata nel caffelatte del suo viso, non mi abbandonerà mai.

Il Re è morto, viva il Re. E vive: vivrà per sempre.