Questa è una storia dolceamara. Di successo ma anche di sconfitta. Di fatica e di soddisfazioni parche anziché di allori e stardom. Di sentimenti autentici e rari come la gratitudine e l’ammirazione. Una storia working class e niente affatto glamour, che difatti non ha luogo nella solatia California o nella frenetica New York, patrie del music business, ma nella dimessa e provinciale Virginia e nel New Jersey che sogna mentre lavora a testa bassa. Ma andiamo con ordine.
Gary Levone Anderson nasce nel 1939 a Jacksonville, Florida e cresce a Norfolk, Virginia, dove, negli anni Cinquanta, seguendo l’usuale percorso di un cantante afroamericano di allora, si barcamena tra sacro (gospel) e profano (rhytmm & blues), finché non viene notato da Frank Guida. Costui, nato a Palermo ma newyorkese fin dall’infanzia, nel 1953 ha aperto un negozio di dischi, Frankie’s Got It, proprio a Norfolk; interessato ai suoni neri e fornito di doti compositive, fonda nel 1959 la Legrand Records, con l’intento di produrre musica oltre che venderla, e quel talentuoso cantante poco più che ventenne dalla pelle color caffellatte, dai lineamenti gentili, dal fisico asciutto e dal timbro esuberante appare il cavallo su cui puntare: l’accordo è subito trovato e il nostro uomo viene spedito in studio per incidere due brani per un 45 giri. C’è solo un problema, il nome del cantante: Anderson è troppo comune, e poi c’è bisogno di distinguersi in un mercato musicale ormai affollato; come fare?

La soluzione viene a Guida un giorno, per caso, mentre cammina per Church Street lambiccandosi il cervello su come ottenere passaggi radiofonici dei dischi che produce. Nota all’esterno di un negozio un cartello che invita a comprare titoli di Stato per sostenere l’economia; vi si legge “Buy U.S. Bonds”. Subito il filamento della proverbiale lampadina dell’eureka si fa incandescente: se il disco recasse la dicitura “U.S. Bonds”, riflette il discografico, i deejay lo riterrebbero un annuncio di pubblico servizio, e dunque ci sarebbe un maggiore incentivo a farlo passare in radio. Lo scaltro stratagemma viene subito applicato all’imminente sette pollici di quel giovane cantante, che esce così a nome di Gary “U.S.” Bonds. Soluzione ingegnosa quanto bislacca, ma quando New Orleans, il lato A del disco, finisce al numero 6 della classifica R&B e inaugura lo stile di produzione di Guida, fatto di esuberanza strumentale e registrazioni di voci a simulare il pubblico di un live, nessuno se ne lamenta. Le cose cominciano a muoversi in fretta, e tra maggio del 1961 e settembre del 1962 Gary U.S. Bonds (a quel punto le virgolette sono cadute) pubblica altri undici singoli di rhythm & blues scatenato e danzereccio, piazzandone sette nella Top 100 (tra cui un numero 1 con Quarter To Three, scritta da Guida e impressa su disco con un suono tanto grezzo quanto eccitante, e un numero 5 con una School’s Out innocente ma irresistibile); non altrettanta fortuna incontrano, invece, i due LP “Dance ‘Til Quarter To Three With U.S. Bonds”, del 1961, e “Twist Up Calypso”, del 1962, il primo una raccolta di singoli rimpinguata da un paio di cover incise ad hoc, il secondo un tentativo di agganciare le sonorità caraibiche (un vecchio pallino di Frank Guida) al canonico errebì festaiolo che ci si aspetta dall’uomo. Gary è un uomo da singoli, insomma, e la funzione della sua musica è di far ballare secondo i dettami più in voga del rhythm’n’blues e del twist. I tempi, però, stanno cambiando rapidamente quanto inesorabilmente, e quando il surf soppianta il twist come musica da ballo del nuovo decennio e il rhythm & blues si trasforma nel soul sembra non esserci più posto per il nostro uomo, abile vocalmente ma più debole in fase compositiva e, soprattutto, apparentemente incapace di percepire lo Zeitgeist. Accade così che dal 1963, nonostante un tour europeo da headliner con una giovane promessa inglese, tali Beatles, ad aprire i concerti, i suoi singoli non vanno più in classifica, e da quel momento il suo nome scivola progressivamente nell’oblio del grande pubblico, ormai alle prese con rivolgimenti musicali e sociali ben più profondi. A venticinque anni Gary U.S. Bonds si trova “bruciato”, il treno per il grande successo ormai irrimediabilmente perduto. Né ottengono particolari riscontri i successivi singoli (quindici; di album non se ne parlerà mai) incisi nel corso di tutti gli anni Sessanta, tentativi di aggiornarsi ai modi della nuova musica nera sempre più che dignitosi ma mai più che calligrafici. Le radio, però, hanno continuato a passare i suoi pezzi, soprattutto sulla East Coast, e a volte certi ascolti inattesi possono cambiare la vita. Di chi li fa ma non solo.

“Ricordava Springsteen in un’intervista del 1974: “Per diversi anni non ho avuto un giradischi. Più o meno da quando i miei si trasferirono a ovest a quando sono venuto a New York. Di conseguenza, si può dire che io non abbia ascoltato davvero alcun album uscito dopo il 1967”. […] Ecco, l’educazione musicale di Springsteen, dipanatasi attraverso le consuete quattro tappe, può essere così schematizzata: le canzoni ascoltate alla radio sono state la scuola elementare; quelle stesse canzoni fatte proprie imparando a suonarle alla chitarra, le medie inferiori; ancora quelle canzoni suonate con un gruppo, il liceo; le canzoni autografe a quelle ispirate, l’università. Per gli aspiranti a una laurea in rock’n’roll fra il 1958 e i tardi anni ’60 non vi era corso di studi migliore di quello offerto dalle radio americane in AM.” (E. Cilia, Bruce Springsteen – Strade di Fuoco, Giunti, 1998).
Il rhythm & blues di Gary U.S. Bonds aveva avuto il suo apogeo all’inizio degli anni Sessanta, con numerosi passaggi radiofonici, ma nel nuovo clima musicale era caduto in disgrazia, finendo relegato nel marginale circuito oldies. Tuttavia, i passaggi del periodo aureo contribuirono a fare da terra feconda per un seme, dal quale germogliò una pianta destinata a crescere fino a diventare una delle più massicce e longeve del rock; quel seme era Bruce Springsteen. Il futuro Boss aveva ascoltato la musica di Gary alla radio durante l’adolescenza e se n’era innamorato di un amore profondo e duraturo, di quelli che permettono di scoprire chi si è e come ci si relaziona col mondo. Non è un caso se Quarter To Three fu ripetutamente inserita in chiusura delle scalette del tour a supporto di “Born To Run”, nel 1975 (documentata anche nel video “Hammersmith Odeon, London ’75”), e di “Darkness On The Edge Of Town”, tre anni dopo (e ad oggi si calcola che la canzone sia stata suonata dal vivo da Springsteen più di duecento volte). Ma la vita è una ruota, e così, mentre a metà anni Settanta Springsteen trovava la sintesi perfetta delle sue influenze accedendo all’Olimpo dei più grandi, in quello stesso periodo Gary U.S. Bonds, reduce da qualche successo conto terzi con She’s All I Got, scritta con Jerry Williams, Jr. e divenuta nel 1971 un hit da Top 40 per Freddie North e un numero 2 nella classifica country per Johnny Paycheck, si era trasferito con la famiglia a Long Island e sbarcava il lunario esibendosi nei club della East Coast, privo di alcun contratto discografico. Una situazione senza prospettive, insomma, destinata ad andare avanti sino alla fine del decennio, perché la vita è per l’appunto una ruota: una sera del 1979, mentre sta lavorando a “The River”, Springsteen, che non ha mai dimenticato il suo eroe adolescenziale, va ad un concerto di Gary all’Hanger di Atlantic City; qui si presenta al cantante, dichiarandosi un suo fan, e gli chiede se può unirsi alla sua band sul palco per suonare un pezzo. Gary, che non conosce quel cordiale giovanotto bianco, accetta, salvo poi rimanere sconcertato dalla reazione esaltata del pubblico quando vede il Boss tra i musicisti. Springsteen gli offre quindi di incidere un brano scritto da lui, Dedication, un omaggio motivato dal fatto che “suona come te”, e ottiene una convinta adesione, ma poi è costretto a congedarsi, oberato dagli impegni in studio e dal vivo. Passeranno altri due anni prima che il Boss si rimetta in contatto con Gary U.S. Bonds, ma stavolta con qualcosa di più concreto, e comunque roba che farebbe tremare i polsi a molti musicisti: tre brani scritti da lui, alcune ore di studio pagate e la E-Street Band a fare da backing band.

“Dedication” esce nell’aprile del 1981 – per la EMI, che nel frattempo si è fatta avanti con un contratto, ingolosita dall’idea di strappare alla Columbia, anche solo temporaneamente, Springsteen e la sua banda – e la dice lunga già dal titolo, nella sua duplice accezione di “dedica” e “dedizione”: la prima quella del Boss ad uno dei suoi idoli di gioventù, la seconda quella di Gary nel mantenersi in attività nonostante i prolungati rovesci di fortuna. Dedizione che paga, peraltro, perché il disco che ne esce è di livello stupefacente: la E-Street Band, reduce dal giro di concerti a supporto di “The River”, è all’apice della forma e della coesione, gli ospiti sono tutti di alto profilo (il soul man Chuck Jackson, Ben E. King e persino Ellie Greenwich ai cori; l’intera sezione fiati di Southside Johnny & the Asbury Jukes; Rob Parissi, già leader dei Wild Cherry, alla chitarra e anche in veste di produttore) e anche la cura del suono è affidata a professionisti di prima fascia (Bob Clearmountain, Neil Dorfsman, Tony Bongiovi, oltre agli stessi Springsteen e Steve Van Zandt). Ma la sorpresa definitiva è il livello dei brani: è quest’ultimo versante che consente all’album di ergersi, grazie al sapiente ripescaggio di tre canzoni che il Boss aveva scritto e pensato per “The River” ma che erano poi apparse troppo intrise di rhythm & blues per inserirle in quel disco pure eclettico. Queste ultime compongono l’ossatura principale del lato A, a seguire l’apertura spiritata con una versione ancheggiante e irresistibile del traditional cajun Jole Blon, guidata dai cori e dalla fisarmonica di Danny Federici, e a dimostrare il talento dell’autore e dell’esecutore: This Little Girl si scatena danzerina, trasudando errebì verace e colpendo al cuore all’altezza di un ritornello debitore di Ray Charles anche più di quanto già il titolo denunci, Your Love declina ancora una volta la vitalità dolceamara tipica della scrittura springsteeniana e Dedication è nuovamente un invito a scatenarsi sulla pista al ritmo di un R&B indiavolato, come, del resto, il pubblico di Gary U.S. Bonds era abituato a fare già da inizio anni Sessanta. Tempo di aggiungervi la pacata Daddy’s Come Home, scritta da Miami Steve, che fotografa l’alba del reaganismo con una compostezza che il sax di Clarence Clemons rende struggente, e si fa strada il lato B, sorretto da cover, tutte all’altezza degli originali: It’s Only Love dispensa gli aromi aciduli dell’originale beatlesiana sostituendoli con fragranze soul, un pianoforte accogliente e un sassofono pungente; The Pretender arricchisce di impatto e di finezze soul (i cori femminili) l’arrangiamento di Jackson Browne; From a Buick 6 ancheggia ammiccante in shuffle, spoglia di tutta l’esuberanza campestre dell’originale dylaniana. Insomma, un disco onesto, vivido e concreto, contemporaneo non meno che fuori dal tempo; si potrebbe persino arrivare a definirlo un classico minore.
Ne esce un successo da Top 40 (numero 27 nella classifica generale, mentre nella classifica R&B si ferma al 34) e sbocciano autorevoli giudizi che definiscono questo strano album di Bruce Springsteen e la E-Street Band con un cantante soul alla voce “uno dei più riusciti ritorni della storia del rock ‘n’ roll”, mentre anche This Little Girl diventa un caso, issandosi al numero 11 della classifica dei singoli. È il trionfo di Gary U.S. Bonds, tornato per restare in un mondo che sembrava averlo respinto definitivamente vent’anni prima; ne seguono nutrite esibizioni a supporto (stavolta con la solita backing band, mentre le comparsate sul palco con Springsteen diventano occasionali) e una rinnovata domanda del pubblico per la musica di quella vecchia gloria del rhythm and blues e del twist. Nel frattempo si è fatto il 1982.

“On The Line” è l’ultimo album che vede una collaborazione tra Gary U.S. Bonds e Bruce Springsteen, ma stavolta il contributo si è fatto ancora più intenso, perché i brani a firma del Boss sono sette su undici, senza contare che in sala di incisione c’è nuovamente la E-Street Band con il suo leader, che nuovamente si accomoda in cabina di regia assieme a Miami Steve. Il risultato è un disco ancor più springsteeniano del precedente nei suoni, leggermente meno luccicante di qualità nella composizione ma non per questo privo di episodi degni di stare su “The River”, come, ad esempio, Out Of Work, ennesimo saltellante quadretto working class firmato dal Boss che descrive come meglio non si potrebbe la recessione di inizio anni Ottanta e che finisce incredibilmente in classifica al numero 21, o la lenta Club Soul City, in cui il vibrato del cantante è uno squisito cicerone per il luogo che il titolo indica. Ormai impazzano, però, gli anni del profitto che tutto divora, e infatti la Columbia costringe Springsteen a rimuovere le sue parti vocali dal duetto con Gary su Angelyne (rimedia Little Steven), pure scritta da lui, con l’effetto che di molte parti da lui cantate il Boss non è accreditato formalmente. Miserie umane di cui il disco non risente, proteso com’è nel descriverle in maniera accurata ma composta, consapevole della situazione difficile in cui ci si trova ma fiducioso che un domani migliore esista e sia raggiungibile. Arte springsteeniana, insomma, della quale è eloquente emblema lo scatto di copertina. In tutto ciò il contributo di Gary U.S. Bonds sembra minimale ma non lo è, perché, se pure il cantante risulta (co)autore di due sole canzoni, il suo tenore carico di emotività soul marchia indelebilmente i pezzi, smarcandoli da un’influenza così pervasiva come quella del Boss del New Jersey e rendendoli qualcosa di diverso; e non è poco. Ma proprio questo è il problema.
Che emergerà compiutamente due anni dopo, quando Gary ci riproverà in proprio con “Standing In The Line Of Fire”; Bruce ormai non c’è più e Miami Steve si limita a scrivere un brano e produrre. Ovviamente le classifiche resteranno un miraggio, e altrettanto ovviamente il cantante virginiano tornerà a esibirsi sui palchi minori del circuito oldies, grato dei quindici minuti di fama più quindici che il mondo gli ha concesso e sempre prodigo di elogi per quel giovane ragazzo bianco di cui fu mentore inconsapevole e pupillo maturo. Perché nella musica, come nella vita, si impara mentre si insegna e viceversa.
Oggi, a ottantuno anni, Gary Anderson continua a tenere spettacoli dal vivo in giro per gli Stati Uniti. Un buon investimento, quei bonds, non c’è che dire.