Happy birthday, the Dude!

Oggi Quincy Jones, il più grande musicista pop vivente (dove “pop” va inteso nel senso lato di popular, e non nel senso più strettamente letterale dello stile musicale, altrimenti il titolo andrebbe condiviso con Paul McCartney), compie 90 anni. L’ultimo di una stirpe morente – e anzi sostanzialmente morta, vista anche la recente dipartita del quasi coetaneo Burt Bacharach – di compositori, arrangiatori, direttori d’orchestra ed esecutori con competenza, idee e gusto. In una sola, e spesso abusata, parola: talento. Tantissimo talento.

È pressoché impossibile enunciare tutti i nomi che hanno incrociato la strada di “the Q”, e anche senza tralasciare gente del calibro di Frank Sinatra, Miles Davis, Ray Charles e Michael Jackson l’elenco sarebbe sterile e comunque incompleto. Limitiamoci a rilevare che senza Quincy Delight Jones Jr., classe 1933, da Chicago, la musica non sarebbe quella che noi tutti, volenti o nolenti, conosciamo.

Tanti auguri, Mr. Jones. Anche se vivrai in eterno, possa tu vivere ancora a lungo.

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21 colpi a salve.

Fino a non troppo tempo fa a 21 anni si diventava maggiori di età. Forse è ancora così, più per contingenze esterne che per disposizione normativa. Come che sia, anche il ventunesimo anno della Ventesima Era (quella che comincia per 20, naturalmente) sta per concludere il suo moto rivoluzionario perisolare (per isolare?), lasciandosi alle spalle la solita scia di defezioni e di “dischi” (facciamo “pubblicazioni musicali”, va’) recanti la fatidica data 2021. Quanto alle prime, ricordo Joey Jordison, talentuosissimo batterista già negli Slipknot, Jeff LaBar, sfortunato ma capace chitarrista dei Cinderella, il fu cantante dei Trouble Eric Wagner, il giornalista musicale inglese Malcolm Dome e naturalmente Charlie Watts, mentre degli altri, pure illustri (Phil Spector, Chick Corea, Marco Mathieu), mi ero dimenticato. Pace a costoro. Quanto alle uscite discografiche, l’anno non è stato dei più fecondi, per ragioni varie e già esplicitate in precedenza. Non mi resta, quindi, che procedere alla solita elencazione, non in ordine qualitativo bensì meramente espositivo, nella speranza che la situazione complessiva possa migliorare. Un augurio a tutt* ($i $crive co$ì, giu$to?).

1. Les Grys-Grys – To Fall Down

Qui. Nel frattempo il gruppo si è sciolto; niente male come testamento olografo. Nell’attesa del comeback (from the grave).

2. Durand Jones & The Indications – Private Space

Qui. Con il passare degli ascolti si conferma un album di grande livello; forse il migliore dell’anno, per quanto se ne può capire da queste parti. In attesa che Witchoo diventi un singolo di successo mercé qualche remix.

3. Pearl & The Oysters – Flowerland

Easy listening 4.0 per questo duo franco-statunitense di stanza in Florida, giunto al terzo album in quattro anni, che porge un cocktail (mescolato, non agitato) di trip hop, disco pacata, slow jam, armonie bossa nova, orchestrazioni anni ’60, elettronica ed exotica. Lalo Schifrin che beve un Martini coi Portishead e Martin Denny, insomma. Il sincretismo che è la cifra del pop contemporaneo è qui presentato ad alti livelli e scorre dissetante e inebriante dal primo all’ultimo sorso. Da consumarsi, naturalmente, liquido.

4. Mild High Club – Going Going Gone

Elettronica gentile, ai profumi di jazz, trip hop e musica brasiliana. Un Nightmares On Wax primevo ma più stiloso, per così dire. Anche qui è impossibile scegliere singoli brani, e anche qui la fruizione raccomanda un aperitivo di accompagnamento. Cocktail music con spirito.

5. David Crosby – For Free

Una sorpresa davvero, questo “For Free”. L’atmosfera è schiettamente yacht rock (e per chi scrive ciò è un bene), come testimoniano River Rise con Michael McDonald alla voce e Rodriguez For A Night di e con Donald Fagen, e, tra il country rock jamestayloriano di I Think I, i ricami blues di Ships In The Night e l’emozionante duetto vocale con Sarah Janosz nell’ossuta rilettura di For Free di Joni Mitchell, la qualità si mantiene alta per tutti i 37 minuti del disco, peraltro ottimamente prodotto da James Raymond, figlio “ritrovato” di Crosby. Cosicché l’ascoltatore si trova a desiderare ardentemente che nel commovente congedo di I Won’t Stay Long, su cui aleggia una tromba che è specchio dei rimpianti di chi sa di aver dato più di ciò che ha ancora da dare, l’autore non faccia sul serio. Un gran bel disco e probabilmente il modo migliore con cui il neo-ottantenne Crosby potrebbe chiudere la propria carriera discografica.

6. Helloween – Helloween

Premetto di non essere mai stato un grande fan, ma, per motivi che non so ancora ben spiegarmi, l’entusiasmo più o meno posticcio per una reunion che mettesse tutti insieme e d’accordo ha contagiato anche me. Il disco, però, non merita dubbi di sorta: livello compositivo alto (da quanto tempo gli Iron Maiden non scrivono un pezzo della qualità di Best Time, onestamente?), performance solide da parte di tutti i musicisti coinvolti (soprattutto i cantanti) e melodie che si fanno ricordare senza per questo sacrificare l’impatto complessivo. Al punto che anche le eccessive divagazioni progressive, noiose come al solito e non sempre centrate (serviva davvero un pezzo, Skyfall, di oltre 12 minuti?), si fanno perdonare. Con la tolleranza che a tratti si può accordare alle vecchie glorie, un ritorno sorprendente e infarcito di idee, al quale fa piacere ritornare ripetutamente. La copertina è, a suo modo, un epitaffio. Bravi, zucconi.

7. Unto Others – Strength

“Strength” è il secondo album per la formazione di Portland, Oregon da quando ha cambiato nome in Unto Others. E che album! Metallo gotico che sa tenere insieme al meglio classicità (le chitarre che suonano linee melodiche armonizzate) e modernità (echi di growl e passaggi in doppia cassa), inserendovi in maniera convincente le influenze dark (io, che conosco poco il genere, ci sento soprattutto i Sisters Of Mercy), mentre le melodie carezzano potenti eppure malinconiche e i testi affrontano le mestizie della vita adulta senza disperazioni posticce. La scoperta dell’anno e un gruppo da seguire.

8. Mortal Vision – Mind Manipulation

Giovani, ucraini e disoccupati, i Mortal Vision partoriscono un debutto che per loro espressa ammissione suona come se fosse uscito dal Brasile del 1987. Come i Sepultura di “Schizofrenia” e “Beneath The Remains”, dunque. A cui, però, i Mortal Vision aggiungono qualche elemento di compattezza midtempo derivato dai Sodom di quel periodo. Il risultato è un disco di thrash metal della vecchia scuola (o meglio, di una delle vecchie scuole) che, però, complici la giovane età e la “fame” del gruppo e una produzione accurata ma non plastificata, suona molto più autentico di molti album di formazioni più celebrate e patinate, esodate o meno. Niente di nuovo sotto il sole, direte; senonché quella luce che sta là in alto non è il sole, ma un’esplosione nucleare, ed è molto più credibile sentirlo dire da quattro ventenni ucraini che da “rockstar” ultracinquantenni californiane.

9. The Night Flight Orchestra – Aeromantic II

Solitamente i sequel non promettono bene, e il fatto che il titolo dell’ultimo LP del gruppo svedese richiamasse espressamente quello del precedente “Aeromantic”, uscito appena un anno fa, non faceva ben sperare per risultati di livello. L’ascolto, però, ha parzialmente smentito questo pregiudizio, perché, se è vero che la formula è ormai consolidata e lo “slittamento” verso il pop ballabile continua inarrestabile, la qualità compositiva si conferma alta e la capacità del gruppo di ricostruire un’atmosfera spazio-temporale (ma soprattutto spazio-) rimane ammirevole. E il disco è, naturalmente, divertente e ottimamente prodotto. Menzione speciale per la sequenza How Long Burn For Me – Chardonnay Nights, la prima all’insegna di un AOR danzereccio da colonna sonora e le altre tra Toto e Survivor, e per il singolo White Jeans, una cavalcata che si stempera in un ritornello da aerobica. Una gAORanzia.

10. Labyrinth – Welcome To The Absurd Circus

Un ritorno di inattesa qualità. Sarà per il nuovo batterista, che ha infuso linfa giovan(il)e, o l’ispirazione fornita dalla pandemia e dalle conseguenti misure restrittive, ma “Welcome To The Absurd Circus”, incentrato proprio sulle questioni sollevate dall’abbattersi del COVID-19 sul mondo, funziona dall’inizio alla fine dei suoi 60 minuti. Rimane una quota di assoli inutilmente virtuosi e prolungati, ma nel complesso i riff ariosi, le armonizzazioni chitarristiche, le andature ritmiche variegate senza essere cervellotiche, le melodie insidiose (quelle di The Absurd Circus e di One More Last Chance si rivelano indimenticabili) e la “solita” rilettura di un brano di synth pop (stavolta Dancing With Tears In My Eyes degli Ultravox) rendono il disco un piacere per le orecchie. Per giunta uscito su Frontiers, ed è bello sapere che in Italia musicisti, produttori e discografici compongono, incidono e pubblicano (ancora) dischi di questo livello. Nell’attesa che il circo dell’assurdo leaves town

L’altro 2021

Pride Of Lions – Lion Heart

È uscito nel 2020 ma mi è entrato in circolo solo quest’anno, complice la diffidenza verso un gruppo che non presentava più molto dell’appeal del suo naturale predecessore, i Survivor. Però questo album coinvolge fin dal primo ascolto, e brani diretti, arrangiamenti lineari ma ragionati, melodie convincenti e memorabili (tutte, incredibilmente) e, in generale, scelte stilistiche in favore di un AOR più schiettamente tradizionale, come quello della casa madre”, anziché delle rielaborazioni contemporanee del genere, che si svolgono quasi sempre all’insegna di aggiornamenti spesso posticci, lo rendono vincente. In una collezione di canzoni che non vuole saperne di levarsi dagli ascolti si segnala particolarmente Carry Me Back, dal ritornello inobliabile. Considerazioni a latere: il disco è stato pubblicato il 9 ottobre 2020, circa un mese prima delle elezioni presidenziali americane, da un gruppo del Midwest composto di soli uomini bianchi per un pubblico composto quasi solamente di uomini bianchi; i testi parlano, fra l’altro, di essere bravi cristiani ed esercitare la carità (Lionheart), degli eroi in divisa che proteggono i cittadini dai brutti e cattivi (Heart Of The Warrior), dell’importanza di concentrarsi sui veri valori e non sul diventare “il più ricco del cimitero” (Give It Away) e dell’illusorietà delle lusinghe offerte dello show business losangeleno (Rock n’ Roll Boom Town). Immagino dica qualcosa dell’America profonda.

Pellegrino & Zodyaco – Morphé

Anch’esso datato 2020, questo LP (letteralmente: si può ascoltare solo a 33 giri o in streaming) del produttore e dj partenopeo Pellegrino, animatore anche dell’etichetta Early Sounds Recordings, condiviso con gli Zodyaco, formazione musicale napoletana dedita ad uno stiloso jazz-funk, produce un lavoro di notevole impatto a partire dalla copertina, sognante e spettacolare riproposizione del Golfo di Napoli. La musica non è da meno, però, con la sua accattivante quanto equilibrata mistura di Italo-disco, jazz, funk morbido, tocchi fusion e house di ispirazione mediterranea. Ottimo sottofondo come pure ascolto piacevole, “Morphé” dimostra, una volta di più, che in Italia talento ce n’è eccome.

Halford – Resurrection

In attesa di rivedere/risentire i Judas Priest dal vivo e/o su disco, la riscoperta di questa uscita dello storico cantante del gruppo inglese, nel periodo in cui viveva ancora della sola carriera solista, è stata una soddisfazione. Nel 2000, esauriti gli esperimenti con i progetti Fight e 2wo, di qualità altalenante e dai tiepidi riscontri, Halford si era reso conto che il suo destino era l’heavy metal più puro, e, venendo a patti con la sua essenza musicale, aveva accettato di entrare in società con Metal Mike, entusiasta chitarrista polacco trasferitosi in America, e il produttore Roy Z, responsabile del mantenimento in vita del suono più classicamente heavy nella tempesta degli anni ’90. Ne uscì un album, significativamente intitolato “Resurrection”, quasi che fosse un ritorno alla vita dopo un lungo sonno mortale, dove il sound priestiano dei primi anni ’90 rifioriva, forte della produzione eccezionalmente compatta e di brani di potenza tuttora ineguagliabile come la title-track, Made In Hell e il duetto con Bruce Dickinson in The One You Love To Hate. Il disco è forse troppo lungo e non tutti i passaggi sono sempre a fuoco, ma la gioia di sentire Halford tornare ad esprimersi su tali registri e con tante consapevolezza e autorevolezza non può che commuovere e far agitare avanti e indietro la testa, in segno di approvazione e non solo. Al cor gentsteel rempaira sempre amore.

Richie Sambora – The Stranger Returns

Per qualche motivo, forse il trentesimo anniversario, nello scorso anno è apparsa in formato streamingzito la storica registrazione radiofonica, che circolava con vari nomi in formato bootleg già dagli anni ’90, del concerto tenuto dal chitarrista dei Bon Jovi al Pecos Theater di San Diego il 16 novembre 1991, nel corso del tour a supporto del suo primo album solista, “Stranger In This Town”. E vale dunque la pena parlarne. Anche perché la qualità della registrazione è indubbiamente alta, ma ciò non varrebbe nulla se non fosse per la qualità elevatissima della prestazione musicale: Sambora, oltre che chitarrista di vaglia e compositore, è sempre stato un eccellente cantante, e l’esibizione in proprio, senza Jon Bon Jovi a fare ombra, gli permette di dimostrarlo in maniera definitiva. Impeccabile la scaletta, che per metà pesca dal disco allora appena uscito (senza mancanze di rilievo, a parte, forse, Ballad Of Youth) e per la restante metà dal repertorio dei Bon Jovi (Bad Medicine, I’ll Be There For You e Wanted Dead Or Alive; saggia la scelta di non cavalcare l’effetto nostalgia o di somministrare un greatest hits), da cover indiscutibili (Midnight Rider in acustico, più Gregg Allman che Allman Brothers Band, e With A Little Help From My Friends secondo il canone joecockeriano) e da brani composti conto terzi (quella We All Sleep Alone che Cher trasformò in una hit), e caloroso e accogliente il sound, che sfronda gli “eccessi” hard rock in favore di arrangiamenti più sobri e toni più classicamente rock, spesso acustici o all’insegna di un blues a tratti leccato ma suonato con sincerità e devozione da una formazione di immense capacità (un plauso alla cantante Crystal Taliafero), per un risultato finale sbalorditivo, da ascoltare dall’inizio alla fine, scoprendosi coinvolti più di quanto si potesse pensare in principio. E non sono molti i dischi dal vivo di cui si può dire lo stesso, specialmente se privi di ritocchi in studio. Un album eccellente, nonché la testimonianza definitiva sul valore di un musicista di enorme talento finito intrappolato nei cliché della rockstar. Nell’attesa che qualcuno si decida infine a pubblicarlo ufficialmente su formato fisico.

Diventi, inventi. Pillole musicali dell’anno incorso.

Non l’anno migliore della storia umana, bisogna dire. Nemmeno musicalmente, per quanto qui interessa. Naturalmente il giudizio sconta la situazione discografica attuale, in cui le uscite si susseguono in numero soverchiante e al pur benintenzionato ascoltatore-recensore, ancorché con poco tempo a disposizione, non resta che affidarsi all’intuito, ai suggerimenti, a letture e al caso, con ovvie ricadute in termini di rispondenza del giudizio più al gusto e alla percezione del recensore che all’effettivo contenuto del disco. Ma questo fa parte del rischio di leggere una recensione scritta da altri. In ogni caso, da queste parti il 2020 è risultato ancor più avaro di uscite memorabili che l’anno pregresso, al punto che risulta difficile persino compilare la canonica lista di dieci, e ciò che resta di più memorabile in assoluto sono, ahimè, i lutti eccellenti tra gli operatori musicali: Ennio Morricone, Little Richard, Eddie Van Halen, Neal Peart, Ken Hensley, Keith Olsen, Martin Birch, Charlie Daniels, Lee Konitz, Sean Malone, Justin Townes Earle, Leslie West e tutti gli altri. Sarebbe bello lasciarci tutto alle spalle, ma probabilmente questa volta sarà più difficile. Proviamoci, quindi. Proviamo a lasciarci tutto alle spalle, tranne qualche disco da tenerci stretto.
Auguri.
P.S.: come sempre, la numerazione non implica giudizi di valore, ma costituisce una mera elencazione.

1. Green Day – Father Of All Motherfuckers
Qui. Con il progredire dell’anno il clima sereno che qui si respira, forse perché mancava la percezione della tragedia imminente, è diventato quasi assurdo, e però sempre piacevole e utile. Mi tocca ribadire la considerazione formulata al tempo: non avrei mai pensato di dover spendere ancora soldi per i Green Day. Bravi.

2. Night Flight Orchestra – Aeromantic
Qui. Rimane confermato il giudizio iniziale: gradevole ma inferiore ai due dischi che lo hanno preceduto; sarà la matrice maggiormente pop o la stanchezza che comincia ad insinuarsi nella composizione secondo coordinate intrinsecamente limitate. In ogni caso, per gli amanti di queste sonorità è una chicca.

3. X – Alphabetland
Qui. My my, hey hey, rock ‘n’ roll is here to stay.

4. Devon Williams – A Tear In The Fabric
Qui. Non mi pare di aver letto peana di questo disco e del pensoso pop chitarristico e cantautorale che vi alligna. E va bene così; etiamsi nemo, ego sic. Si parla di uno strappo nel tessuto, d’altronde.

5. Evildead – United $tate$ of Anarchy
Qui. Non è un capolavoro e nemmeno aspira ad esserlo, però non escono più tanti dischi così, lucide e impietose istantanee spazio-temporali con i suoni che sono nubi di ieri sul nostro domani odierno. Meno male, verrebbe da dire. O forse no.

6. Kylie Minogue – Disco
Partiamo da una constatazione: per essere una cantante professionista, l’australiana non ha una gran voce, in termini sia tecnici che espressivi. Però ha intuito, e ha capito che adesso è il momento di divertere la mente del pubblico dalla situazione attuale. E cosa c’è di più divertente delle sonorità che furono dello Studio 54, disco e R&B spruzzato di funk, rilette secondo lo stile già collaudato dai Daft Punk con “Random Access Memories”? Il risultato è un disco sorprendentemente godibile, cantabile come il migliore pop, ballabile come la migliore disco e colmo di idee melodiche variegate e altamente orecchiabili. E altrettanto sorprendentemente regge a plurimi ascolti. Sorprendente, appunto; soprattutto se prima di quest’anno sciagurato non avevate mai ascoltato un disco della popstar australe. Ora potete.

7. Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia
Qui. Musica radicata, solida e inscalfibile, eppure carica di emotività ed empatia, come il suo autore. A cui, qualcosa mi dice, il futuro prossimo non cesserà di fornire spunti.

8. Mr. Bungle – The Raging Wrath Of The Easter Bunny Demo
Non è tuttora chiaro per quale ragione Mike Patton abbia deciso di ripescare dall’archivio il primo demo dei Mr. Bungle, inciso nel 1986, e riproporne i pezzi di grezzo thrash-core con la formazione originale integrata da alcuni amici musicisti, che rispondono al nome di Dave Lombardo e Scott Ian. Certo è che ne è uscito un manicaretto di thrash metal, che si lascia alle spalle gli sperimentalismi che hanno sempre caratterizzato questa band per gettarsi a capofitto in un vortice di tupa tupa e riff affilati, sovrastati dalla voce proteiforme di Patton, per un risultato non dissimile da “Speak English Or Die” dei S.O.D., non fosse che per i titoli dei brani (Hypocrites/Habla Espanol O Muere), o dai Corrosion of Conformity degli esordi, omaggiati con l’arrembante rilettura di Loss For Words, che rivaleggia con l’originale. La dimostrazione definitiva che il thrash metal, se fatto bene, non invecchia.

9. Once & Future Band – Deleted Scenes
Il secondo album di questo trio di San Francisco tesse le trame di un rock d’altri tempi, o forse proprio di questi, epoca di riciclo e recupero. Infatti, tengono qui banco le sonorità del periodo compreso tra la fine dei Sessanta e i primi anni Settanta, le armonie (vocali e non) di scuola liverpool-californiana e la stratificazione progressive, il pop evoluto degli Steely Dan, un tocco di psichedelia e un pizzico di teatralità che si potrebbe ricondurre ai primissimi Queen, per un risultato eccellente in cui i nove brani (dei quali solo due superano i cinque minuti, e uno per soli tre secondi) sono composti ed eseguiti per farsi ascoltare, senza indulgere in contorsioni strumentali o soluzioni artificiosamente inusitate. Godibile, intelligente e ottimamente costruito, questo disco è permeato dal senso della misura e dalla comprensione degli elementi decisivi nel confezionare un’opera di qualità (non da ultimo i suoni, che restituiscono un’atmosfera schiettamente naturale agli strumenti). Rock progressivo in senso ampio, insomma; progressista, persino.

10. Dining Rooms – Art Is A Cat
Un affascinante mélange di dilatato trip hop, morbidi tocchi funk, languide voci femminili, soffusa tromba jazz, arpeggi acustici, atmosfere da colonna sonora anni ’60/’70, dettagli elettronici e altro ancora, per un risultato di grandissima suggestione, che sa essere in uno romantico e (a tratti) malinconico. Una volta di più il duo Ghittoni-Malfatti non delude, allargando ancora i già ampi orizzonti musicali frequentati e arricchendo il progetto Dining Rooms di un altro capitolo significativo e piacevole. Sarebbe bene ricordarsi, ogni tanto, che in Italia ci sono anche musicisti di questo livello.

Altri dischi

Harry Beckett – Joy Unlimited
Ad agosto, nel disinteresse generale, la Cadillac Records ha ristampato il disco più celebre del trombettista Harry Beckett, pubblicato originariamente nel 1973, mai ristampato e da allora praticamente sparito dal mercato. Incredibilmente, perché si tratta di una delle migliori incisioni mai realizzate nell’ambito del cosiddetto jazz elettrico: infatti, le linee suonate da Beckett si inseriscono in un contesto modale senza mai perdere di vista la melodia e dimenticare la solarità caraibica che ha accompagnato il trombettista per tutta la carriera (si ascolti il tema di Glowing), mentre il pianoforte elettrico tesse trame armonicamente sofisticate su cui la chitarra può guizzare su registri ora rock-blues ora latineggianti, con la sezione ritmica a sospingere un funk sinuoso e poliritmico di ascendenza afrocaraibica. E il risultato, al crocevia tra il jazz-rock, il funk e i primi Santana, è meraviglioso. Un disco imperdibile.

Little Richard – Southern Child
Negli anni ’70 Little Richard aveva tutte le carte in regola per beneficiare della risorgenza dei suoni rock n’ roll e dell’ondata di revival degli anni ’50 allora in corso. Invece, scelse di abbracciare due lati misconosciuti della sua formazione musicale, il country e il blues: nel 1972, un anno dopo “The Second Coming”, registrò undici pezzi in quegli stili, con un orecchio alla musica nera contemporanea, presentando quindi alla Reprise, con cui all’epoca aveva un contratto discografico, le incisioni per un nuovo disco, corredate di titolo, “Southern Child”, e artwork. Per motivi mai realmente chiariti, l’etichetta accantonò il master, che rimase così a prendere polvere sino al 2005, quando i brani rientrarono in una raccolta, e infine a quest’anno, in cui è stato infine pubblicato nella forma e nelle intenzioni di mister Penniman, che non ha fatto in tempo a vedere la sua creatura venire alla luce con trentotto anni di ritardo. Gran peccato, perché, tra funk sensuale (California (I’m Comin’), Burning Up With Love), country verace (Ain’t No Tellin’, Over Yonder) e imbastardito con il rock (If I Pick Her Too Hard), blues campagnolo (la title-track, I Git A Little Lonely) e umori southern soul (In The Name), questo disco è un affresco di sorprendente qualità, nonché una finestra sul talento poliedrico di un artista che è facile liquidare sbrigativamente come one-trick pony. Un degno epitaffio per uno dei più grandi musicisti pop del Novecento.

L’altro 2020

Teaze – One Night Stands
Avevano tutte le carte in regola per accedere al grande successo, i canadesi Teaze: bella presenza, perizia strumentale, talento compositivo, capacità di stare sul palco. E mai questa sensazione è stata più forte che nel 1978, quando, dopo due album che ne avevano stabilmente aumentato le quotazioni sui mercati internazionali, il quartetto aveva ottenuto un contratto con la potente Capitol anziché con la limitata Aquarius. “One Night Stands”, l’album che ne uscì, pubblicato l’anno seguente, soddisfaceva tutte le aspettative riposte nel gruppo, ma, schiacciato tra la coda dell’era della disco e l’alba della new wave, senza peraltro riuscire ad agganciare le sonorità del rock radiofonico del periodo, fu un fallimento commerciale, che sancì la fine delle speranze di gloria dei Teaze, che si sciolsero l’anno seguente, lasciandosi alle spalle quattro album, tra i quali spicca questa gemma di hard rock dei tardi anni Settanta, in cui convivono spinte verso sonorità più dure e furbe strizzate d’occhio alle esigenze radiofoniche del periodo: Touch The Wind sono gli Iron Maiden ante litteram, Loose Change indica la via a What’s Up? delle 4 Non Blondes, mentre Young And Reckless potrebbero essere gli Aerosmith che maneggiano la disco e Red Hot Ready sembra uscita da un album dei Rose Tattoo. Il tutto corredato da accenni di sintetizzatori, chitarre roboanti che spesso si intrecciano in linee melodiche armonizzate e ritmi a tratti fratturati. Connotato da grande varietà di stili pur senza perdere in coerenza e qualità del songwriting e rilegato da una produzione impeccabile, “One Night Stands” è un recupero meritorio, nonché un’altra dimostrazione che il Canada è il naturale trait d’union tra Stati Uniti e Inghilterra, in questo caso tra hard rock radiofonico e quella che sarebbe diventata la NWOBHM. Tra le varie stampe disponibili, è meglio evitare quella americana, la cui scaletta inserisce brani dai dischi precedenti (Boys Night Out dal debutto omonimo e Stay Here da “On The Loose”) rimpiazzando Loose Change, uno dei brani migliori; scelta, quest’ultima, curiosamente condivisa anche dalla recente ristampa in CD della Rock Candy.

Wall Of Silence – Shock To The System
I canadesi Works non ebbero fortuna con il loro unico album di AOR, “From Out Of Nowhere”, pubblicato nel 1989. Mutati tre componenti del gruppo su cinque, decisero di cambiare anche nome, in Wall Of Silence, scrivendo nuove canzoni e trovando un accordo discografico con la A&M. Ne uscì questo “Shock To The System”, unico parto della formazione, datato 1992 e quindi condannato in partenza, nonostante un AOR tosto e curatissimo, di qualità superiore, non da ultimo per la produzione e il contributo compositivo e strumentale di quel gran genio di Mike Slamer. Chitarre distorte ma non invadenti e sempre arrangiate con varietà e cognizione di causa, panneggi di tastiere ad aggiungere sfumature, suoni scintillanti e dinamica impeccabile ci sono e si sentono, ma ciò che fa la differenza sono la qualità di scrittura e le melodie sempre vincenti, in contesti duri (il sofisticato esercizio leppardiano di Addicted, probabile singolo mancato) o languidi (It’s Only Love, power ballad memorabile come poche altre e ancor più sorprendente perché autografa). Dieci brani che lambiscono i territori di Giant, Signal, Unruly Child e Harem Scarem pur mantenendo una propria identità, a costituire un’altra hidden gem in ambito AOR, come confermato dal fatto che l’album non è mai stato ristampato e oggi passa di mano a prezzi rilevanti.

Bullet/Alan Tew – The Hanged Man OST
“The Hanged Man” era una serie di genere poliziesco ambientata nello Yorkshire e trasmessa dalla televisione britannica nel 1975. Alan Tew è un compositore inglese di musica per il cinema e la televisione, sia mirata che in forma di library music, e fu lui a ricevere l’incarico di scrivere il commento musicale alla serie citata. Le partiture furono quindi girate a un gruppo di turnisti delle etichette specializzate KPM e Themes International, il bassista Les Hurdle, il batterista Barry Morgan, il chitarrista Alan Parker, il percussionista Frank Ricotti e il tastierista Alan Hawkshaw. Costoro incisero a Monaco le musiche scritte da Tew e, quando fu il momento di pubblicarle, si battezzarono, per la prima e unica volta, Bullet. Ne uscì uno sfavillante LP di funk polizi(ott)esco, dal groove irresistibile e dalle atmosfere avvincenti come e più delle immagini, capace di superare in qualità lo sceneggiato che era stato chiamato a corredare e vivendo di luce propria come una delle migliori uscite in assoluto nel genere, a suo agio indistintamente con vibrafoni e sintetizzatori, trombe e pianoforti elettrici, chitarre “grattugiate” e ottoni pungenti. In breve: un capolavoro. Del quale l’ascoltatore saggio vorrà preferire la ristampa in CD su Vocalion, che alle diciotto tracce originali aggiunge, oltre a un booklet ricco di dettagli e fotografie, ventidue brani incisi nelle medesime sessioni, già usciti sui due volumi della raccolta “Drama Cues” di Alan Tew, e sette temi in stile di Alan Parker, James Clarke e Alan Hawkshaw.

Unleash The Archers – Apex
In ambito hard ‘n’ heavy, il Canada è particolarmente famoso per due stili: un AOR cristallino e nitido e un heavy metal classico particolarmente epico e arrembante. Ad ulteriore (dopo Cauldron, Striker, Skull Fist e molti altri) conferma che quest’ultimo stile è uno degli export di punta del vessillo con la foglia d’acero si pongono gli Unleash The Archers, che sono in giro da più di dieci anni e hanno recentemente pubblicato il loro quinto album “Abyss”. Ma non è a questo che ci si deve rivolgere per trovare un’uscita sorprendente in un panorama stilistico dalle coordinate limitate e molto affollato, bensì al predecessore “Apex”, del 2017. Qui le varie anime del metal che guarda alle classiche sonorità heavy senza però volersi arroccare in filologiche quanto stantie riproposizioni si saldano al meglio, complici le capacità compositive del gruppo, l’enorme abilità strumentale dei musicisti (soprattutto i due chitarristi e il batterista) e la varietà nel dosaggio degli stilemi. In questo disco il tipico suono power metal convive con ritmiche fratturate di doppia cassa e inserti di matrice groove, le chitarre armonizzate di ascendenza maideniana non stonano a fianco di una voce occasionalmente in growl, riff stradaioli ripresi dalla NWOBHM si saldano ad epiche andature cadenzate e a falsetti sia maschili che femminili. Ottimamente prodotto (nonostante le recenti tendenze “polimeriche” della Napalm), “Apex” tiene magnificamente insieme tutto ciò che di buono ha prodotto l’heavy metal negli ultimi anni, suscitando tuttavia il timore che i suoi autori non siano in grado di superarlo in qualità, rendendo così il titolo un inequivoco nomen omen. E se anche fosse, poco male, perché resterebbe comunque “Apex” a confermare che si può ancora dire qualcosa in ambito heavy metal, e dirlo bene.

Damnatio memoriae

Metallica – S&M 2
Non ho idea di chi, maggiorenne, e non solo di età, possa averlo ascoltato.

Death of the cool: Lee Konitz (1927-2020)

Lee Konitz
Ogni momento può sempre essere l’ultimo, soprattutto quando uno ha novantadue anni. E Lee Konitz li aveva. Fino a ieri, quando il tributo chiesto dal virus al jazz si è aggravato, aggiungendo alla lista (dopo il trombettista Wallace Roney) anche uno dei sassofonisti più dinamici che si ricordino. Difficile ricostruire una carriera ultrasettantennale che va da collaborazioni proto-free jazz con Lenny Tristano all’immortalità sancita dalla partecipazione alle sessioni da cui fu tratto “Birth Of The Cool”. Il suggerimento per una commemorazione, allora, è di puntare su “Lone-Lee”, del 1974, inusuale eppure riuscito album solista in cui Konitz suonava senza accompagnamento per oltre cinquantacinque minuti; perfetto per assaporare il tono policromo del suo sax tenore e apprezzarne lo stile poliedrico, che passa da note lunghe pregne di anima a scattanti grappoli di sequenze non prive di swing, il tutto racchiuso in improvvisazioni ragionate. Un ottimo modo per riconoscere un talento purissimo, alfine arrestato nella sua lunga corsa.

Hats off to you, Mr. Konitz.

Dc a 9: i dischi

Ed ecco, dopo due mesi di assenza e qualche tentativo di articolo abortito, l’annuale adempimento del dovere compilativo. Anno musicalmente avaro, questo 2019, che ha visto più defezioni rilevanti (João Gilberto, Dr. John, Dick Dale, Roky Ericsson, Rik Ocasek, Ginger Baker, Andre Matos) che album degni di menzione, tanto che a stento mi riesce di individuarne dieci per la consueta playlist. Un anno da dimenticare, insomma. Procedo dunque all’elencazione ritenuta adeguata, in no particular order come sempre, confidando che il 2020 possa portare un netto miglioramento da tutti i punti di vista. Augh.

Dischi notabili

1. REFUSED – WAR MACHINE
Qui. E il passare del tempo non attenua ascolti e riscontri. Il disco dell’anno, per quanto se ne può sapere da queste parti.

2. THE BACKDOOR SOCIETY – THE BACKDOOR SOCIETY
Qui. Confermati impatto e mestiere; una promessa, e chissà che il gruppo riesca a mantenerla.

3. EX HEX – IT’S REAL

ex hex - it's real

Questo trio americano interamente femminile ha pubblicato quest’anno il suo secondo ellepì, colmo di un power pop accattivante e ben costruito, che tiene insieme la freschezza melodica di matrice pop, l’esuberanza irruente di stampo punk e un vago ascendente hard rock nelle partiture di chitarra. E il coloratissimo risultato non delude affatto. Delle Go-Go’s per il Ventunesimo secolo, come peraltro suggerito dalla copertina.

4. THE NIGHT TIMES – HERE WE GO

the night times - here we go

Avete presente il detto anglofono secondo cui non si può giudicare un libro dalla sua copertina? Ecco, dimenticatelo, ché il debutto dei californiani Night Times confessa apertamente e con orgoglio le sue intenzioni già dalla foto di frontespizio: proporre una mezz’oretta del più puro e selvatico garage punk di stretta osservanza Sixties, le chitarre una pulita e una fuzzata, l’organo Farfisa o Vox, i ritmi convulsi, i tamburelli, le maracas, le urla e tutto il resto. Operazione riuscita alla perfezione, in un disco (uscito solo su vinile, peraltro) che trasuda eccitazione senza dimenticare la ballabilità, riuscendo così a trasmettere la sensazione di esuberanza ormonale che ha sempre costituito il primum movens del genere. Difficile e forse insensato selezionare singoli brani, ma mi pare comunque preferibile farsi scorticare cento volte da un pezzo come I Don’t Mind o agitarsi in preda alle convulsioni surf di Go Mental o al febbrile rockabilly di Charmed che cedere alle lusinghe di uscite più blasonate o sedicenti originali. Santino (?) dei Sonics in tasca e pepe al culo, insomma. Ben arrivati, tempi notturni.

5. AMYL AND THE SNIFFERS – AMYL AND THE SNIFFERS

amyl and the sniffers - amyl and the sniffers.jpg

Debutto sulla lunga distanza dopo due EP in tre anni per questi quattro australiani, capitanati dalla magnetica Amy Taylor e autori di un tellurico punk garagistico, che richiama da vicino le più urticanti proposte proposte rock n’ roll di quella terra spargendo energia a piene mani grazie alla foga esecutiva dei musicisti e alla voce abrasiva e allupata della cantante, ideale continuatrice della scuola di Wendy O. Williams e Poly Styrene senza peraltro dimenticare un vago sentore pop preso a prestito dalla Debbie Harry degli esordi, che fa capolino qui e là e che l’ascoltatore attento potrà cogliere a tratti, negli interstizi del muro chitarristico e ritmico eretto dagli Sniffatori. Punk fatto come si dovrebbe, con il rock n’ roll come ragione di vita e anche un po’ più in basso. Down under, d’altronde.

6. RIOT CITY – BURN THE NIGHT

riot city - burn the night.jpg

L’ondata di revival del metal classico è ormai grandemente scemata rispetto all’inizio del decennio, ma ciò non significa che non continuino a uscire ottimi dischi ispirati alle sonorità heavy degli anni Ottanta; anzi, la sopravvenuta riduzione della platea permette di apprezzare ancora di più i risultati più alti e di commuoversi per la dedizione di chi continua a praticare il genere prediletto a prescindere dalle mode. Questa volta il plauso cade sui Riot City, giovani canadesi (provenienza geografica che stupisce ben poco per questa proposta) che a maggio hanno debuttato con un gioiellino di heavy speed totalmente ottantiano, che guarda a Judas Priest, primi Iron Maiden, Raven, Vicious Rumors e Savage Grace per produrre una colata di acciaio ispirata al power metal americano e forgiata sulle chitarre armonizzate e sugli acuti perforanti di Cale Savy. Intensità costante, riff perfettamente concatenati, ritmica serrata, oltre ad una produzione che valorizza i singoli strumenti senza cedere a tentazioni ottusamente filologiche (proverbiale la mancanza di dinamica di molti album storici del metal anni Ottanta) e ad una copertina che riesuma l’Hellion, custode del priestiano “Screaming For Vengeance”, fanno di “Riot City” il miglior album di heavy metal uscito quest’anno. Chissà che fine hanno fatto gli Striker, a proposito.

7. DUFF MCKAGAN – TENDERNESS
Qui. Ribadisco: chi l’avrebbe mai detto.

8. LES GRYS-GRYS – LES GRYS-GRYS

les grys grys - les grys grys

Francesi di Montpellier, i cinque Grys-Grys hanno esordito quest’anno con un LP di ascendenza sessantiana di qualità incredibile, maturo nei riferimenti stilistici e nella scrittura: sfacciatezze mod si fondono a umori psichedelici, l’esuberanza garage si appaia all’allusività rock-blues, suoni ricercati corredano essenziali jungle beat e la ricercatezza melodica non pregiudica l’impatto. Who, Stones, Bo Diddley, Electric Prunes, Yardbirds, Sonics e molti altri copulano felici in questo disco. Come dei Creation Factory più raffinati, insomma. Davvero incredibile.

9. JEFF DAHL – ELECTRIC JUNK

jeff dahl - electric junk.png

Questo disco non è nemmeno indicato su Discogs, e di mister Dahl a tutt’oggi non esiste nemmeno una pagina di Wikipedia, nonostante le decine di uscite a suo nome e le comparsate in dischi e progetti musicali altrui, a conferma della natura elusiva di questo piccolo eroe dell’underground, attivo sin dalla fine degli anni Settanta e in qualche modo riuscito a eludere persino quel fazzoletto di notorietà quantomeno settoriale che l’informazione telematica garantisce a praticamente chiunque. Merito, o colpa, di un atteggiamento a suo modo incompromissorio, incentrato sulla riproposizione costante di un punk n’ roll coinvolgente anche se raramente memorabile (mirabile eccezione “Wasted”, uscito nel 1991) e dunque presto archiviato nella sezione del revivalismo carbonaro come materia per cultori. A riprova della coerenza dell’uomo si pone questo “Electric Junk”, autoprodotto e pubblicato con diffusione streamingzita e una volta di più zeppo delle solite melodie trascinanti flagellate da chitarre essenziali, rese con mezzi e suoni parimenti essenziali, nel più puro spirito del ’77. La presenza è motivata più dal valore simbolico della coerenza stilistica e attitudinale che dall’effettiva consistenza dell’opera, e nondimeno “Electric Junk”, pur non essendo più di quanto il titolo promette, si fa ascoltare con un certo piacere anche più di una volta.

10. TUXEDO – TUXEDO III

tuxedo - tuxedo III

Se Michael Jackson fosse vivo e facesse un disco così sarebbero in tanti a spellarsi le mani in applausi. E invece ne è autore un duo di produttori americani, giunti ormai al traguardo del terzo album e animati dall’intento ben preciso di rivitalizzare la disco, aggiornandone lo spirito all’epoca del #metoo e del reggaeton. Divertirsi e divertire con stile e colorando di glamour le lenti deformanti della popstalgia è lo scopo di “Tuxedo III”, ed è pienamente raggiunto: le drum machine essenziali conducono al bersaglio il ritornello appiccicoso di You And Me, Tuxedo Way anima party di ieri e di domani cavalcando un basso insidioso con commento di coretti da Studio 54 e c’è persino tempo per abbassare luci e ritmi con un accenno di ballata, quella Toast 2 Us che ha fatto propria la lezione del R&B anni ’90 senza peraltro dimenticare qualche aroma jazz, a dimostrazione che anche la più filologica delle riproposizioni non è mai una totale copia carbone del passato. Un disco con dichiarati intenti mercantili e tuttavia realizzato con una certa classe e la giusta dose di leccata sfrontatezza. Gli(lle)tterati e orgogliosi.

Altre pillole di 2019
SPIDERGAWD – V: una garanzia: rock duro ma composto e suonato con intelligenza, con in mente first and foremost la canzone e le sue esigenze, la melodia in primis. Che in questo album è un po’ più presente rispetto al passato, ma che nondimeno non comporta alcun sacrificio in termini di qualità e integrità. Magistrali per continuità.

BELLRAYS – PUNK FUNK ROCK SOUL VOL. 2: una garanzia vol. 2: la miscela si è fatta più blended, con più rock classico e soul a sopperire alla foga punk degli esordi, ma la classe non è acqua e qui si sente ancora una volta: Bob Vennum e i ragazzi sprigionano il fulmine o la scossa alla bisogna, e Lisa Kekaula è la solita pantera che sa cavalcarla con sfrontatezza, aggressività o sensualità. Si nota un leggero appannamento della scrittura rispetto al passato anche recente (leggi: anni Dieci), ma che suonino tozzo hard (Perfect), boogie lascivo (Bad Reaction) o pensosi blues (Every Chance I Get), i Bellrays restano sempre la solita, grandiosa macchina da rock n’ roll.

SACRED REICH – AWAKENING: non esattamente perfetto, ma un incoraggiante segnale nell’ottica del rientro nel genere, che poi è il thrash metal legato alla vecchia scuola, quella degli anni Ottanta, suonato con intelligenza e senza fanatismo, come è proprio di chi quel periodo lo ha vissuto in prima persona. Certo, i giorni di gloria (?) sono alle spalle, ma fa sempre piacere sapere che, in tempi di sommovimenti politici latinoamericani, c’è chi suona, oh se suona, la sveglia.

KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD – INFEST THE RATS NEST: gli imprendibili e imprevedibili australiani da due LP l’anno colpiscono ancora, forgiando nove tracce di heavy metal misto a speed metal ottantiano e con una punta di hard rock, suonato con intelligenza e senza cadere in frusti stereotipi. Impatto, atmosfera, coinvolgimento e la solida, mefitica voce di Stu MacKenzie. Davvero notevole, poi, in chiave di estetica metal, la gigeriana copertina. Ci stava bene in Top 10 (anche perché, diciamocelo, ‘sto Jeff Dahl, ma chi cazzo è?), però ormai è andata così. Da ascoltare senza esitazione.

ATLANTEAN KODEX – THE COURSE OF EMPIRE: il metal in uno dei suoi massimi picchi emotivi: heavy cadenzato e crepuscolare per descrivere la fine di un’epoca, quella della civilità occidentale. Mai troppo veloce e sempre decadentemente melodico, per un risultato incredibilmente icastico. Difficile da descrivere a parole, ed è un buon segno. Sarebbe stato bene in Top 10, ma è la fine di un’epoca, per l’appunto.

L’altro 2019
UNIDA – COPING WITH THE URBAN COYOTE
Questo disco mi ha letteralmente salvato la vita, nel periodo buio da fine agosto a inizio ottobre. L’ho scoperto per caso, qui, e altrettanto casualmente ho deciso di ascoltarlo; la sua potenza, quel suono pastoso e saturo, quel basso di inaudito spessore, quella foga esecutiva mi hanno investito, facendomi capire che c’era ancora qualcosa di valido nella vita e un motivo per lottare. Mi ci sono quindi aggrappato, e la voce ululante di John Garcia mi ha sorretto. Anzi: il “your eyes don’t look just the same” all’inizio di If Only Two mi ha inchiodato alle mie responsabilità di vivente, spingendomi a cercare un rilancio, che ogni ascolto di questo disco ha spinto sempre un passo oltre. Non potrò mai ringraziare abbastanza gli Unida (e chi me li ha fatti scoprire) per ciò che hanno fatto, e cioè “Coping With The Urban Coyote”, che, per quanto mi riguarda, trasmoda da titolo a missione. Mi accorgo adesso che il testo della canzone in realtà dice “your eyes both look just the same“: mi piace pensare che non sia un caso.

J.P. BIMENI & THE BLACK BELTS – FREE ME
Dopo gli Excitements, è ancora Barcellona via l’Africa a dettare i tempi del nuovo vecchio soul: J.P. Bimeni è ruandese, risiede nella città catalana e possiede una voce di potenza e sensualità incredibilmente prossima a quella di Otis Redding e Marvin Gaye; i Black Belts sono un quartetto indigeno dedito al soul strumentale sulla scia di MGs e Bar-Kays. Insieme firmano un LP, uscito nel 2018, di ottima qualità, in cui convivono ballate col cuore in mano (I Miss You) e agrodolci esuberanze (Honesty Is Luxury), in un contesto che distilla il suono Stax per l’epoca di Trump. Se l’onestà è un lusso, come il disco proclama, vale nondimeno la pena concederselo, e sul piano musicale “Free Me”, clamorosa opera prima, è un lusso d’altri tempi.

SIZIKE – U ZEMLIJ CUDA
Recentemente ristampato, questo LP uscito originariamente nel 1986 è opera dei Data, un collettivo jugoslavo a prevalenza serba autore di un pop sintetico e ballabile, tipico del periodo, proteso ad emulare i dettami modaioli imperanti illo tempore eppure nient’affatto privo di quella cifra estetica e stilistica di area slava, fatta di kitsch inconsapevole e senso del ridicolo nullo o quasi. Sintetizzatori analogici, batterie elettroniche d’antan e vocalizzi femminili prevalentemente in lingua realizzano un gioiellino di esotica motilità (facile prevederne l’acquisto/acquisizione da parte di dj hipsterici desiderosi di stupire la platea) senza per questo impedire l’ascolto casalingo o l’uso a mo’ di tappezzeria sonora. A corredo della ristampa ci sono anche tre brani altrimenti inediti dei Data, sempre in stile. Una godibile mezz’ora di new wave danzabilmente hipster e un inusuale angolo prospettico per riflettere sulla globalizzazione e sugli abiti in materiali sintetici; avvertenza: forte potenziale di culto.

ROY AYERS UBIQUITY – RED, BLACK & GREEN
Il soul jazz dei Settanta, il decennio d’oro del genere, al massimo della sua forza espressiva: ritmo irresistibile anche nelle sue declinazioni più pacate, arrangiamenti curati, varietà nell’improvvisazione e orgogliosa esibizione delle radici. La disco e le sue sbornie sono poco oltre (siamo nel 1973) e non saranno ignorate, ma qui Ayers suona ancora perché deve, per sé e per gli altri, per il corpo e per la mente; non a caso aprono e chiudono rispettivamente le riletture di Ain’t No Sunshine (Bill Withers) e Papa Was A Rolling Stone (Temptations), con la consapevolezza afrocentrica della title-track, posta a metà, a fare da spartiacque. Uno degli album migliori di uno dei maestri del vibrafono a capo di una delle sue formazioni più solide.

Damnatio memoriae
BLIND GUARDIAN TWILIGHT ORCHESTRA – LEGACY OF THE DARK LANDS
Il disco orchitestrale, finalmente.

BRUCE SPRINGSTEEN – WESTERN STARS
Come sopra. Ma la goduria vera è leggere gli inerpicamenti dei critici musicali per giustificare, contestualizzare, interpretare. Your eyes both look just the same.

La città è urbs, struttura fisica, è civitas, società, ed è polis, governo – Gerardo Iacoucci, Mario Vinciguerra – Urbanistica

Negli anni d’oro del cinema italiano, i Sessanta e i Settanta, era prassi degli studi e dei produttori commissionare ai compositori brani musicali da usare a commento delle pellicole. Questi brani, spesso anonimi, dovevano servire a scene ricorrenti nei prodotti cinematografici di genere (scena nel nightclub, scena romantica, inseguimento, duello, ecc.), e dunque venivano composti in serie, a formare vere e proprie librerie sonore, da cui i registi potevano attingere per le loro esigenze filmiche. Vista la natura seriale dell’operazione, spesso questi componimenti restavano anonimi, senza che i reali meriti di ciascuno potessero essere resi noti, e tuttavia queste condizioni consentirono ai compositori e ai musicisti una libertà creativa inimmaginabile in altri contesti di edizione musicale massiccia: basti pensare che i primi timidi abbozzi, all’inizio dei Settanta, dell’uso del sintetizzatore in Italia avvennero proprio in questo settore; per non dire dell’assorbimento delle più recenti tendenze d’oltreoceano (come il funk, che si stava impossessando delle colonne sonore dei film blaxploitation), recepite appieno e declinate secondo un gusto melodico in linea con la tradizione nazionale, o degli esperimenti con strutture armoniche ostiche, vicine a certe elaborazioni del jazz più avanguardistico e allora inaudite in campo cinematografico. Insomma, la library music, come venne battezzata da coloro che nei decenni successivi, in Italia e all’estero, si dedicarono alla sua riscoperta e divulgazione, aveva molto da offrire in termini di creatività, godibilità e potenziale immaginifico; caratteristiche che mantiene tuttora, e per la definitiva consacrazione le manca solo una versione musicale di Quentin Tarantino.

Tra le varie uscite, che ormai si susseguono ininterrotte ad opera di etichette specializzate, dedite al recupero dei master tape originali e alla loro rimasterizzazione e pubblicazione (spesso per la prima volta in assoluto, a decenni di distanza dall’incisione), va segnalata “Urbanistica”, opera del compositore romano Gerardo Iacoucci, con l’aiuto di Mario Vinciguerra (qui sotto lo pseudonimo M. Fusciati), uscito originariamente nel 1971 per la Octopus Records, etichetta specializzata nella library music, e riportato sul mercato con una ineccepibile ristampa su vinile (180g, busta antistatica e confezione in cartone spesso) dalla romana Four Flies Records. I brani di “Urbanistica” erano stati pensati come commento musicale di un documentario omonimo sullo sviluppo incontrollato delle città italiane, e infatti si trattava di “stacchetti”, ognuno denominato in base al luogo urbano oggetto di descrizione e di durata raramente superiore ai due minuti, e si può dire che per essi l’obiettivo del compositore di realizzare brani dall’alto potenziale immaginifico-descrittivo sia pienamente raggiunto: la mistura di funk sornione, aperture armoniche di jazz elettrico e soluzioni più classicamente cinematografiche a base di strumenti acustici disegna un paesaggio urbano ben leggibile nei suoi elementi principali, punteggiandolo nel contempo di dettagli visivi (per l’occhio della mente, beninteso) nitidi e caratterizzanti, realizzando la funzione forse più alta della musica, ossia il trasporto mentale. Ne esce un disco godibilissimo, in continuo movimento come la moderna metropoli e però reso disincantato dall’osservazione dei guasti prodotti dall’impetuoso sviluppo, economico e urbano, dei decenni postbellici sino ad allora. Perché i problemi che la città in espansione poneva già al tempo (inquinamento, sovraffollamento, scarsa qualità edilizia, mancanza di pianificazione territoriale, mancata previsione di spazi pubblici e, più in generale, di elementi identificativi e identitari) sono per molti aspetti gli stessi che odiernamente ci affliggono, a volte con significativi miglioramenti, altre con stasi o persino peggioramenti. Un brano come Speculazione Edilizia, che si direbbe uscito dalla penna di Henry Mancini, è emblematico sul punto sin dal titolo.

Insomma, un piccolo classico italiano dimenticato, che dell’Italia espone bene virtù, la creatività, e vizi, l’autolesionismo, e ci ricorda cos’è la città: luogo magnifico e terribile, fonte di identità e di alienazione, spazio di edifici e individui. Urbs, civitas e polis contemporaneamente, come ricorda la definizione di Edoardo Salzano che intitola l’articolo. Dedicato a lui, nel giorno del trasloco in un’altra area del PRG, la fascia di rispetto cimiteriale. Chissà se ha mai conosciuto quest’opera musicale, peraltro di un autore di sensibilità a lui vicina (Iacoucci, sopraffino pianista jazz, fu tra i fondatori, negli anni Settanta, della Scuola Popolare di Musica di Testaccio); ormai è troppo tardi per scoprirlo, però non per noi che, ascoltatori e cittadini, siamo ancora qui.

Tutta nostra la città. E la sua scienza.

Bella e d’annata.

Brevi aneddoti di ciò che è e ciò che non dovrebbe mai essere.

herbie mann - muscle shoales nitty gritty

Herbie Mann è una figura tutto sommato poco nota, soprattutto al di fuori del jazz, nonostante una carriera quasi cinquantennale e una varietà stilistica poco usuale nell’ambito di riferimento; circostanza forse dovuta allo strumento di elezione, il flauto traverso, che poco appeal ha per le masse e che conosce rilevanti limitazioni sonore. Ciò, tuttavia, non ha impedito al nostro uomo di attraversare a testa alta diverse epoche musicali, dal bebop al soul-jazz fino alla disco e oltre, e di realizzare taluni dischi di ottimo livello. Tra questi si segnala proprio “Muscle Shoals Nitty Gritty”, classe 1970 e si sente tutto. Registrato, naturalmente, a Muscle Shoals, Alabama, e anche questo si sente eccome, i musicisti quelli che hanno prodotto gli esiti a tratti leggendari a marchio Stax o Atlantic (Barry Beckett, Roger Hawkins, Eddie Hinton, David Hood, Wayne Jackson, Andrew Love) e a coronamento l’apporto di quel maestro del groove che è il vibrafonista Roy Ayers. Ne esce un capolavoro di jazz che, imbevutosi come da titolo del soul più rustico e verace, è pronto ormai a trasmigrare nel funk senza per questo barattare la ricchezza armonica per il coinvolgimento ritmico; su questi presupposti, classificarlo come jazz ci può stare (valga, al riguardo, il posizionamento al numero nove della classifica di Billboard dedicata al genere), ma sarebbe nondimeno riduttivo. Nel fluire non-stop delle suggestioni, una menzione speciale va fatta per la curiosa rilettura di Come Together dei Beatles, a cui il basso dell’ospite Miroslav Vitous dona una particolare ed avvolgente elasticità ritmica. Nel mio locale ideale, prima di una certa ora e dopo una certa ora la musica è questa.

jimmy smith - the cat

In inglese lo chiamano bachelor pad jazz, jazz per appartamento da scapolo, e che mi venga un colpo (cit.; cit. Carson, naturalmente) se la definizione non è perfettamente appropriata per descrivere una musica il cui scopo precipuo è di fungere da elegante sottofondo per attività lato o stricto sensu edonistiche: piacevole se effettivamente ascoltata ma mai invadente al punto da richiedere attenzione; idonea a coprire eventuali pause di silenzio della conversazione o a commentare sornionamente fruscii di durata e intensità variabili (della puntina, beninteso); stimolante per menti e, all’occorrenza, corpi abbisognevoli di intrattenimento. In questo ipotetico sottogenere psico-musicale, quasi esclusivamente strumentale, l’organo elettrico troneggia, siccome strumento dai plurimi registri e dal timbro variabile, capace di carezzare e di schiaffeggiare, di liquidità come di consistenza. Ma il solo organo a lungo andare stanca (sic!), e dunque quale miglior modo per stemperarne la monotonia polifonica che non affiancargli un’orchestrina organizzata sul modello delle big band dello swing ma in formato ridotto, in grado di apportare ulteriori spinta ritmica e policromia sonora e di atmosfera? Il dubbio deve essere venuto anche a Jimmy Smith, l’uomo che ha sdoganato l’Hammond in ambito jazz, perché nel 1963, un anno dopo essere passato dalla Blue Note alla Verve, decide di collaborare con Lalo Schifrin, compositore e arrangiatore argentino in bilico tra jazz, musica brasiliana e colonne sonore (opera sua, in un futuro allora relativamente lontano, l’immortale tema di “Mission Impossible” e l’inquietante funk elettrico posto a corredo dei film che vedono protagonista l’ispettore Callahan). Ne esce una delle pietre miliari del jazz per scapoli (più C.C. Baxter che Rudy Radcliff, a onor del vero), dove l’organo sa accentare sornione scopofili passaggi blues senza dimenticare di esibirsi in impennate di guizzanti cromatismi da maschio alfa, mentre gli ottoni incitano e punteggiano e rinfocolano e la sezione ritmica sospinge con dolcezza e senza rudezza veruna. Insomma, un sound (av)vincente per chi non può rinunciare e nondimeno non vuole legami. Eccetto che con la musica.

jimmy davis & junction - kick the wall

Da un Jimmy all’altro e il cambiamento è totale, perché il qui sopra effigiato Davis è stato una fulgida meteora della stagione d’oro dell’AOR, con un unico album, questo “Kick The Wall” del 1987, a lungo dimenticato e ristampato solo nel 2017 in Australia. Gran peccato, perché il contenuto è solido e costituisce, complice forse la provenienza del leader e dei suoi Junction (il chitarrista Tommy Burroughs, il tastierista John Scott e il batterista Chuck Reynolds) da Memphis, uno di più validi esempi di collegamento tra il suono patinato dell’AOR e la solidità anche concettuale dell’heartland rock che da John Mellencamp arriva a certo country ruffiano ma a suo modo autentico: emblematiche sul punto la sudista Shoe Shine Man, come dei Georgia Satellites che incidono per la Stax, e Why The West Was Won, tra Blasters e Bryan Adams. Siamo a metà degli anni Ottanta, però, e si sente, soprattutto nella ballad Just Having Touched, che i ricami pianistici e il languido sassofono riconducono al tipico AOR soft del periodo (certe cose di Michael Bolton, ad esempio), nonostante tra i solchi allignino rocker di tutto rispetto come Over The Top, in grado di insegnare un paio di cosette a Stan Bush, e l’emblematicamente intitolata Are We Rockin’ Yet?, impreziosita dalla slide di Joe Walsh. Disco emblematico del periodo e tuttavia (o forse per questo) dalla scrittura solida, dall’esecuzione impeccabile e dalla produzione accurata, “Kick The Wall” non ebbe fortuna, nonostante un certo riscontro guadagnato dal video della title-track su MTV, finendo per pagare in maniera probabilmente troppo salata il suo porsi al crocevia tra mondi, quello scintillante e (sub)urbano dell’AOR e quello down home del southern e dell’heartland rock, apparentemente inconciliabili. Di esso, dunque, non è inutile né sgradita una riscoperta.

Aerosmith-Music-From-Another-Dimension

Sedici tracce per oltre settantadue minuti, e già questo basterebbe. Ma, volendo fare le cose in grande, si possono aggiungere gli altri tre brani della versione deluxe, per ulteriori tredici minuti circa. Neanche fossimo a inizio anni Novanta, quando sembrava che ciascuno dei settantaquattro minuti di musica a disposizione del CD, supporto ormai assurto definitivamente a standard dell’industria, dovesse essere riempito ad ogni costo. Del resto, che i cinque bostoniani ancora considerino l’inizio dei Novanta come una loro personale età dell’oro è evidente, giacché è da allora che la qualità media dei loro dischi ristagna pericolosamente, nonostante occasionali guizzi, come fa notare il guru John Kalodner. Non sorprende dunque che l’ultimo lavoro discografico degli Aerosmith in ordine di tempo sia proiettato a recuperare almeno in parte la, beh, magia del periodo che va da “Permanent Vacation” a “Get A Grip”. A voler essere più prosaici, si può ritenere questo “Music For Antoher Dimension!”, ormai vecchio di sette anni, il probabile epilogo discografico della formazione di Steven Tyler, al netto delle raccolte e dei dischi dal vivo ormai di prammatica; come valutare, altrimenti, il coinvolgimento del chitarrista Rick Dufay, che sostituì Brad Whitford nel periodo 1981-1984 (circostanza che, peraltro, ben dimostra le gerarchie interne al gruppo, atteso che di Jimmy Crespo, sostituto di Joe Perry dal ’79 all’84, non c’è traccia nella lista degli ospiti)? È dunque comprensibile che in questa uscita gli ormai non più giovani musicisti abbiano voluto convogliare tutte le presunte buone idee partorite e elaborate negli ultimi anni, ossia dal poco meno che tedioso “Just Push Play”. E il risultato è valido ma interlocutorio: infatti, se l’album si fosse limitato ai primi otto brani (che durano comunque 37:23 minuti), “Music From Another Dimension!” si porrebbe inequivocabilmente come il miglior disco degli Aerosmith dal 1993, a tratti arrivando persino a insidiare “Get A Grip”, che ha sì picchi inarrivabili, ma anche una certa stanchezza nella seconda metà; così, invece, zavorrato dall’eccessivo minutaggio e dalle idee non sempre a fuoco, resta “solo” una solid(issim)a testimonianza di quella che ebbe il fegato di autodefinirsi la più grande rock ‘n’ roll band d’America e, in ogni caso, un ascolto che è piacevole ripetere numerose volte. Nota a margine: produce Jack Douglas, l’artefice del suono Aerosmith dell’epoca d’oro, e si sente. Eccome se si sente. Salutiamo gli Aerosmith incisi, dunque, e con loro tutto un approccio a come registrare e far suonare i dischi.

Humbly to express A penitential loneliness: Tommy Bolin – Teaser

tommy bolin-teaser

Quando è stata l’ultima volta che avete sentito parlare di Tommy Bolin? Onestamente.

Probabilmente da qualche profondo esperto viola, che vi rammentava dei talenti di quel chitarrista americano tanto capace quanto sfortunato, o pure scemo a sprecare l’occasione d’oro offertagli dall’essere chiamato a sostituire nientemeno che Sua Maestà Ritchie Blackmore, finendo male per contrappasso sostanzialmente faustiano, e passiamo oltre ché è meglio. Magari qualche critico vi ha segnalato che il nostro uomo, proprio quello che faceva annullare interi concerti per overdosi non richieste, era stato, prima e dopo, anche solista di vaglia, ma hai voglia a dare retta ai critici quelli veri, che ogni tanto ti imbeccano sul disco della vita, ma il più delle volte ti fanno comprare roba che sì però e se per caso ti tocca il com’è umano Lei. Ma anche là, che cosa ne sanno i critici, perlopiù? Chiedetevi quando è stata l’ultima volta che avete sentito parlare di Tommy Bolin e avrete la risposta.

Non è del Tommy Bolin che ventunenne ha già tre LP di hard blues all’attivo con gli Zephyr che ci occupiamo qui. Né del sostituto pieno di inventiva che seppe agevolmente calzare scarpe di taglia enorme quali quelle di Joe Walsh e Ritchie Blackmore. No, qui parliamo di Bolin come Bolin, Thomas Richard Bolin al servizio di se stesso. Parliamo di “Teaser”, l’album capolavoro. Quello che, foss’anche pretermesso il resto, proprio bisognerebbe avere ascoltato.

Lasciati gli Zephyr nel 1972, omaggiato il talento di Billy Cobham prestandogli il proprio sull’eccellente “Spectrum” (1973) e infine raccolto meno del previsto (commercialmente; come chitarrista nessuno mai ebbe dubbi) nei James Gang di “Bang” e “Miami”, nel 1975 il nostro uomo, a stento ventiquattrenne, debutta da solista con “Teaser”, nove brani per neanche trentotto minuti, ma di quelli che lasciano il segno: riassunto di stili chitarristici, l’album dimostra la versatilità di Bolin, a suo agio chitarristico nei cangianti panni del rocker tutto d’un pezzo (The Grind, che non poco insegnò ai Van Halen in termini di impatto e swing; Teaser, tra hard e funk color porpora profondo) come del jazzista che guarda a sud (la deliziosa bossa nova di Savannah Woman, sospinta dalle percussioni di Phil Collins), del libertario in levare (People, People, che fa vergognare Clapton anche solo di aver pensato di poter sparare allo sceriffo) e del fusionist consapevolmente post-hendrixiano (la strumentale Marching Powder, con ospiti Narada Michael Walden, Jan Hammer, Sammy Figueroa e David Sanborn), senza per questo dimenticare le abilità canore (la grinta di The Grind che trasmoda senza sforzo nella versatilità confidenziale di Wild Dogs), compositive (tutti i pezzi tranne uno sono firmati o cofirmati dal nostro uomo) e produttive, nonostante l’aiuto dei capaci Lee Kiefer e Danny MacKay e, soprattutto, l’uso di studi di punta come il Record Plant, gli Electric Lady e i londinesi Trident. Ma i suoni curati, lungi dal coprire carenze di idee, servono qui a esaltare una sostanza musicale di prim’ordine. Ogni pezzo è una sorpresa su “Teaser”, e il passaggio da uno stile all’altro è perfettamente naturale e, soprattutto, è porto con sicurezza e competenza tali da risultare sempre armonico e mai posticcio. Una lezione di eclettismo di cui è difficile non innamorarsi, se si hanno a cuore le musiche chitarristiche e ciò che ci ostiniamo ellitticamente a chiamare pop.

La Nemperor Records, nata un anno prima per volontà di Brian Epstein (quel Brian Epstein) e casa di delfini del jazz-rock del calibro di Jan Hammer e Stanley Clarke, coglie immediatamente l’occasione offertale da un talento così puro, ma nemmeno la distribuzione Atlantic di cui l’etichetta può fregiarsi consente a “Teaser” di decollare, complice anche l’entrata di Bolin nei Deep Purple poco dopo, con conseguente assenza di tournée promozionale del disco e, soprattutto, aggravarsi irrimediabile di una dipendenza da eroina iniziata molto presto e altrettanto presto divenuta ingovernabile, fino all’esito supremo, nella Miami di quel maledetto 4 dicembre 1976. Venticinque anni compiuti da poco e una vita davanti: ecco chi era Tommy Bolin, nonostante tutto.

Anche “Teaser” ha una vita davanti. Venite anche voi a ricordaglielo, prima che lui si ricordi di voi e, come ogni spacciatore che si rispetti, venga a vendervi il suo prodotto. Uno di quelli che ti svolta la giornata, ma solo fino a quella seguente. Uno stuzzichino, insomma. E allora ne vuoi ancora. E ancora. E ancora. Vuoi il pasto completo e non sei mai sazio. Finché, un giorno, a forza di pasteggiare, ti ritrovi a Miami.

Summer’s almost gone…

…e quindi sono stato a fare scorta. Eccone il resoconto, con l’avvertenza che da queste parti, un centinaio di anni fa, Hemingway veniva ferito in combattimento, e che quindi write drunk, edit sober resta un’opzione perfettamente in linea con il genius loci. Si parte.

Heart – Heart
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Solo per rimpiazzare la mia copia vinilica, una stampa portoghese comprata per due soldi alla Feira da Ladra anni addietro. Perché certe cose suonano meglio se sanno di plastica, si sa; e se non lo si sa, basta guardare la copertina, che da sola vìola come minimo il Protocollo di Kyoto. Ma che suoni, signori! Una glassa, di quelle capaci di coprire il gusto se non si fa attenzione con i dosaggi, rilega il tutto, conferendogli quella patina affascinante che avvince inscindibilmente immagine, suoni e musica, legandoli al periodo storico di emissione. Ma la musica è il fattore dirimente, ed è qui di alto livello, non un brano meno che di immediata memorizzazione grazie alle corde vocali seriche e alla performance stellare della solita Ann Wilson nonché a una scrittura che saggiamente chiede aiuto all’esterno, conscia che le buone idee non sono monopolio di alcuno e meno che mai a Seattle. Sulle fortune commerciali del Cuore numero due vi rimando a fonti più competenti, significando, tuttavia, che ci troviamo in zona podio dell’aor e che l’opera di Ron Nevison in fase di produzione, uno per cui la qualifica di esperto dello studio di registrazione è alquanto riduttiva, tocca qui uno dei suoi apici. E sì, per larghi tratti suona meglio in CD (ma i mixaggi delle due stampe analogica e digitale sono rilevantemente diversi, senz’altro in Never; ascoltare per credere). Nove corrusche istantanee dalla scala mobile che rallenta; magari l’ha fatto anche per fermarsi a contemplare Ann e Nancy. Tira più un eccetera eccetera.

Kinks – The Ultimate Collection
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Prima sorelle, ora fratelli. Cos’altro si può aggiungere sui due Davies che non sia stato già scritto o detto? Nulla. Solo, onestamente, che, per quanti non si scoprano hardcore fan e si sentano quindi in dovere di procurarsi la cospicua opera omnia dei quattro inglesi, questa doppia raccolta è uno dei migliori modi, se non il migliore, per divenire membro onorario della K.I.N.K.S. Appreciation Society KBE. Dentro vi sfilano quarantaquattro dei brani più celebri dei Kinks, e alla lista manca davvero poco, anche se i dischi “narrativi” della seconda metà degli anni Sessanta sono nel complesso sottorappresentati (un titolo su tutti: Drivin’ da “Arthur”). Ma lagnarsi non è possibile, ché qui si hanno le radici del nostro bitt (Death Of A Clown, ma senza struggimenti, perché un fiore appassisce quando pensa all’autunno) e del Brit pop (negli “and I see you and you see me” di Wonderboy gli omofoni di She’s Electric degli Oasis con venticinque anni di anticipo), del garage (All Day And All Of The NightI Gotta Move e tutto il resto) e dell’hard rock (You Really Got Me; mi spiace, Eddie e Alex: vincono loro, Ray e Dave), e più in generale molteplici delizie di prim’ordine selezionate accuratamente. E scusate se è troppo.

Down – NOLA
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Né più né meno che un classico realizzato da una formazione classica. “I Black Sabbath alle prese con l’umidità della Crescent City” (espressamente omaggiata nel titolo) potrebbe essere un buon riassunto del contenuto, ma peccherebbe per difetto, omettendo di dar conto del grande balzo in avanti che questo dream team formatosi quasi per caso è riuscito ad imprimere ad un genere, il doom metal, altrimenti arroccato in vizze ancorché fascinose coordinate tralatizie. Si potrebbe dire che con “Nola” si passa definitivamente (?) dal doom allo sludge, che non a caso significa “fango” e qualcosa sul genius loci del luogo di provenienza del genere deve pur dircelo. Senonché non si tratta solo di importanza storica (anno 1995), perché il disco è un capolavoro di composizione hard ‘n’ heavy, riff elefantiaci che progrediscono con insospettabile leggiadria e intenzioni viceversa chiaramente bellicose, mentre l’ugola di Phil Anselmo si produce in una prestazione che è non solo l’ultima cantata (dal verbo “cantare”) della sua carriera, ma anche una delle migliori in assoluto. E c’è persino spazio per un singolo, Stone The Crow, da dare in pasto alla Generazione X che vagheggia di andare oltre ma che, quanto al rock, più di un aggiornamento di punk e metal non ha saputo realizzare. Brutte notizie, peccatori: il Messia è tornato. Sta a Nòrleens, fuma Blue Dream e madido di sudore ondeggia mollemente la testa, sorridendo beota ai nipotini di Tony Iommi. Pentitevi finché siete in tempo.

Sleep – Sleep’s Holy Mountain
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Come sopra, ma stavolta siamo nella California del nord, il cui clima è un toccasana per certune realizzazioni botaniche. Niente allucinazioni desertiche da sole rosso, dunque, né frenesia futurista da valle del silicio. Qui dominano rigogoglio umido e lunghe ombre sinistre, proiettate da oggetti di cui non si intravede l’esatta forma ma pur sempre in grado, all’occorrenza, di coprire ogni raggio di luce di provenienza esterna. Si tratta perlopiù di paesaggi dell’anima, resa ricettiva come sappiamo e meno male ché i nostri sono solo in tre. Riff oscuri ma inconfondibilmente bluesy, controtempi ritmici bene assortiti, sui tamburi tocchi ora felpati ora squassanti stile Ward, misticismo lirico, esperimenti con pedali ed effetti chitarristici; ma soprattutto tempi e spazi dilatati, a preconizzare il delizioso delirio del seguente ed eloquente “Dopesmoker”. In breve: lo stoner parte da qui.

Herbie Hancock – Fat Albert Rotunda
herbie hancock - fat albert rotunda
Dipartita dal variegato jazz (vicino all’hard bop prima, sperimentale con Miles Davis poi) dei Sessanta, in anticipo sull’elasticità funkeggiante dei primi Settanta e ben lungi delle sperimentazioni elettroniche che verranno e porteranno a Herbie Hancock grande successo, “Fat Albert Rotonda” nasce come colonna sonora per “Hey, Hey, Hey, It’s Fat Albert”, un lungometraggio ibrido di animazione e attori dal vivo incentrato su Fat Albert (da noi Albertone), nero corpulento e sorridente che interagisce con i suoi amici in avventure picaresche e slapstick, come pure con Bill Crosby in carne ed ossa, che presenta lo show e doppia i personaggi. Quando Hancock pubblica il disco corre il fatidico 1969 e si sente, perché frequentemente i fiati starnazzano e si imbizzarriscono sul groove granitico e gommoso allestito dal basso e soprattutto dalla batteria di Albert “Toothie” Heat, e neanche le divagazioni del leader al piano elettrico, il marchio Warner Bros. e la produzione di Rudy Van Gelder riescono a tenere fuori dal disco la ruvidezza delle strade del ghetto, da cui, del resto, questa musica trae la prima e principale ispirazione. Ne escono trentotto minuti strumentali di funk-jazz intenso e trascinante, con occasionali aperture soul e l’atmosfera di creatività poliedrica della cultura nera di quel periodo restituita intatta nel fermento e nel fascino. Potrebbe quasi essere un disco da isola deserta; Cantaloupe, naturalmente.

Alice In Chains – Dirt
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Ne torno nuovamente in possesso, dopo che una furia destruens di qualche anno fa mi aveva spinto a liberarmene incerimoniosamente senza reale motivo. Sul contenuto non c’è molto da dire, se non che è il solito classico del rock anni Novanta, talmente perfetto da sembrare un greatest hits. La disperazione si sente meno che su “Facelift” e sul seguente “Jar Of Flies”, ma l’afflato emotivo nella voce di Layne Staley è tutt’altro che assente o finto. Se proprio vogliamo muovergli una critica, diciamo che suona troppo “leccato” e da classifica e troppo poco terroso e terreo. Ma io non me la sento, onestamente; non oggi, quantomeno. E in ogni caso questo è il periodo giusto per fare proprio un nuovo disco degli Alice In Chains, nuovo o meno che sia.

Johann Sebastian Bach – Concerti Brandeburghesi 1-6 – Musica Antiqua Köln, Reinhard Göbel

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Al tempo di pubblicazione, anno Domini MCMLXXXVI, questa edizione dei sei Concerti Brandeburghesi destò grande scalpore per l’inaudita velocità esecutiva con cui gli spartiti bachiani venivano riproposti, tanto che non poche critiche piovvero in capo all’ensemble coloniese e, soprattutto, al suo giovane ma già famoso direttore, Reinhard Goebel. Si rimproverava a costui un’esecuzione eretica, inutilmente ed ottusamente virtuosistica, lontana da ogni canone filologico della tradizione interpretativa del corpus forse più elevato del barocco. Una volta di più, però, il tempo è stato galantuomo, ed oggi si riconosce pacificamente alla versione “anfetaminica” dei Musica Antiqua Köln il valore di spartiacque esecutivo, rispettoso del rigore filologico ma al tempo stesso capace di conferire nuova linfa all’approccio interpretativo libertario inaugurato da Karl Richter a Monaco nel 1964, valorizzando al massimo la forma del concerto in tre movimenti (a parte la controversa decisione di includere anche il quarto movimento “Minuetto – Trio I – Polacca – Trio II” del primo Concerto, da taluni ritenuta un’aggiunta apocrifa), secondo gli intendimenti originari dello stesso Bach, e consegnando ai posteri una pietra miliare nella storia dell’esecuzione del repertorio barocco, incorniciata da una resa sonora di altissimo livello (merito della ristampa della serie Masters della Archiv, che incrementa ulteriormente il già alto nitore dell’edizione originale in digitale; avendo ascoltata anche quest’ultima, concessami in prestito tempo addietro, sono in grado di fare alcuni paragoni) e da un libretto in tre lingue esaustivo sulla genesi dell’opera e le scelte filologiche dell’esecuzione. Ma questa è la parte tecnica; per quanto riguarda la restante parte, mi congedo osservando che, limpida e rigorosa, virtuosa ed emozionante, la musica dei Concerti Brandeburghesi riflette l’anelito trascendente che spesso, per non dire sempre, mosse Bach alla composizione. Comporre musica per avvicinarsi il più possibile a Dio; un movente su cui, in tempi di streaming, potrebbe essere non inopportuno riflettere.

MC5 – High Time
mc5 - high time

Un orologio rotto segna le cinque. L’ora del tè, anche a Ann Arbour, Michigan. Quando si interrompe ciò che si sta facendo, che sia la rivoluzione o altro, e ci si raduna in un salotto per bere una tazza e conversare. Passa-tempo alto, appunto. Come questo scorcio di 1971, la rivolta ormai sedata ed anzi in larga parte collassata su se stessa e il ripiegamento delle rivendicazioni dal piano collettivo a quello individuale. Cose già note dalle parti degli MC5. Ma questo colpo di coda finale, al netto dell’amarezza nel vedere la band più riottosa d’America imborghesirsi sino ad implodere rapidamente, è un saggio di rock ‘n’ roll bruciante nell’impeto e nell’afflato emotivo, forse proprio per la consapevolezza della sconfitta, ma stilisticamente capace di spingersi oltre all’elaborazione precedente (la marcetta fiatistica che chiude gli oltre sette minuti di boogie indiavolato di Sister Anne, il gospel che incontra i Lynyrd Skynyrd di Baby Won’t Ya, i Bad Company a passeggio nei giardini della mente di Future/Now, il free jazz ‘n’ roll per cavernicoli della conclusiva Skunk (Sonicly Speaking)), dimostrando che anche tra i rivoluzionari signori si nasce e gli MC5, modestamente, lo nacquero. “Kick Out The Jams” è il documento storico del Sessantotto che sappiamo e “Back In The U.S.A.” il successivo riuscitissimo ritorno a casa, ma di stare senza “High Time” non ne vale la pena.

Pretty Things – S.F. Sorrow
pretty things - s.f. sorrow
Il primo concept album inequivocabile che gli annali del rock ricordino (dicembre 1968; Tommy chi, quello del maggio del ’69?) vede i Pretty Things staccarsi dai fragorosi lidi di alcolico rhythm & blues che alla metà del decennio li avevano visti crescere ruspanti ma validi adepti di Animals e Rolling Stones per avventurarsi in mari in cui domina ormai la scoperta della psiche umana e delle sue tortuosità. Infatti la musica di “S.F. Sorrow” è lontana anni luce dal selvaggio jungle beat del passato e si ammanta di coltri cangianti, ora spesse ora impalpabili ma sempre evocative ed ammalianti, per narrare la storia di Sebastian F. Sorrow, uomo qualunque d’Inghilterra costretto ad attraversare abissi personali a loro volta incastrati in, o direttamente causati da, catastrofi storiche e proprio per questo condannato a vagare nella vita privo di ogni speranza e senza nemmeno ricordare come ci è finito, in questa situazione; prototipo dei Tommy e degli Arthur a venire e dunque anti-eroe par excellence e icona popolare ma non necessariamente popular del martire dell’industrialismo. Non è però il solo fil rouge narrativo, innovativamente monotematico, a rendere il disco di importanza storica, perché il contenuto musicale non è da meno: le trame acustiche non contrastano con occasionali ostentazioni di virilità, gli archi rafforzano anziché affossare (merito di Abbey Road, probabilmente, ma io non riesco a non paragonare questo aspetto di “S.F. Sorrow” a “Forever Changes” dei Love, parimenti portato in trionfo proprio dalle sapienti orchestrazioni), i cori tappezzano e il fuzz sulle chitarre colora e spiega invece di coprire tutto e fungere da alibi. L’influenza scarafaggesca si sente eccome (sarà lo studio di registrazione?) e certo non è un male, ma la presenza di menti creative come Twink (ex leader dei Tomorrow e poi solista), Phil May e Dick Taylor, oltre che del produttore Norman Smith, mantiene l’album a debita distanza da tutto quanto l’UFO Club e la Swingin’ London dischiudono dai loro petali multicolore, rendendolo, in ultima analisi, una delle perle creative più sottovalutate di quella irripetibile stagione. Un capolavoro, nelle molteplici accezioni del termine. E con buona pace del povero Sebastian F. Sorrow.

Laura Nyro –  Time And Love: The Essential Masters
laura nyro

Ve lo racconto un’altra volta, ché l’estate sta finendo. Comunque qui si gode così così, come con una dose tagliata troppo e male. Meglio di questa raccolta sono gli album, specialmente “New York Tendaberry”; cercate quelli e, trovatili, non vi mancherà nulla. Ma a quel punto sarà già inverno.

Microphone Colossus: Rudy Van Gelder (1924-2016)

rudy van gelder

Quattro giorni fa, il 25 agosto, se ne è andato, novantunenne, Rudy Van Gelder. Un optometrista del New Jersey con il pallino dell’acustica che ha cambiato la storia della musica. Registrando nel salotto di casa dei suoi (ad Hackensack, NJ), prima, e in uno studio propriamente detto (i Van Gelder Studios a Englewood Cliffs, NJ), poi, alcuni dei più grandi jazzisti che animavano la scena newyorkese negli anni Cinquanta: Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk, Sonny Rollins, Charles Mingus, il Modern Jazz Quartet e molti altri, più o meno noti, più o meno importanti. Da là il cont(r)atto con l’etichetta Blue Note e il contributo determinante (fu il responsabile di praticamente tutte le incisioni della casa discografica dal 1952 al 1967), in termini di resa sonora, alla creazione della leggenda musicale che sotto quel marchio continua a prosperare; infatti, un nitore così cristallino nella resa tonale dei singoli strumenti e una così meticolosa accuratezza nel loro amalgama, ma con un risultato sempre rispettoso della dinamica del brano, non poteva che provenire da un esperto di prospettiva, aurale o visiva che fosse.

È difficile essere sconvolti dalla morte di un ultranovantenne, andatosene, per dirla in jazz, ‘round about midnight. Però è giusto tributarne i meriti in vita. Con un rispettoso silenzio e un altro giro di quei dischi divini, quantomeno per coglierne la perfezione tecnica. Che non deriva da un fattore trascendentale, da “un amore supremo”, ma dall’intuito abbinato all’applicazione costante. Ecco la lezione ultima di Rudy Van Gelder. Possa riposare in pace, dopo tutta questa applicazione.