Happy birthday, the Dude!

Oggi Quincy Jones, il più grande musicista pop vivente (dove “pop” va inteso nel senso lato di popular, e non nel senso più strettamente letterale dello stile musicale, altrimenti il podio andrebbe condiviso con Paul McCartney), compie 90 anni. L’ultimo di una stirpe morente – e anzi pressoché morta, vista anche la recente dipartita del quasi coetaneo Burt Bacharach – di compositori, arrangiatori, direttori d’orchestra ed esecutori con competenza, idee e gusto. In una sola, e spesso abusata, parola: talento. Tantissimo talento.

È pressoché impossibile elencare tutti i nomi che hanno incrociato la strada di “the Q”, e anche senza tralasciare gente del calibro di Frank Sinatra, Miles Davis, Ray Charles e Michael Jackson l’elenco sarebbe sterile e comunque incompleto. Limitiamoci a rilevare che senza Quincy Jones, classe 1933, da Chicago, la musica non sarebbe quella che noi tutti, volenti o nolenti, conosciamo.

Tanti auguri, Mr. Jones. Anche se vivrai in eterno, possa tu vivere ancora a lungo.

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Where were you in ’22?

Un breve resoconto delle uscite discografiche ritenute interessanti di un anno non esaltante dal punto di vista musicale (e magari neanche da altri), al punto che il picco è probabilmente costituito dal concerto dei Gruesomes, il primo in terra italica, il 2 luglio scorso al Festival Beat (mentre il nadir dalla perdita del Rock The Castle per isolamento pandemico). Parafrasando i Barracudas, e nondimeno restando nel plausibile, I wish it could be 2021 again. Buoni ascolti e auguri.

Hellacopters – Eyes Of Oblivion

Difficile immaginare un rientro discografico dei ‘copters dopo la prolungata reunion solo concertistica del 2016, e invece Nicke Royale e compagnia hanno trovato l’ispirazione per entrare in studio e affidare al nastro dieci brani che fanno il punto sulla carriera del gruppo, inseriti nel presente retrò del rock ma non dimentichi dei trascorsi n’ roll della gioventù. Ovviamente il grosso della farina compositiva viene dal sacco del leader, che, oltre a cantare e suonare la chitarra, produce e si cimenta anche col basso (scelta curiosa, considerato che dal vivo le quattro corde sono affidate a Sami Yaffa o a Dolf DeBorst), ma il piacere dei quattro di riprendere da dove avevano lasciato con rinnovati entusiasmo e ispirazione, soffermandosi anche su qualche riflessione che la maturità quantomeno anagrafica e le conseguenti traversie della vita inevitabilmente impongono, è palpabile nelle rispettive prestazioni strumentali. Il risultato è, ancora una volta, una lezione di rocchenroll fatto come si deve, il culo a Stoccolma e il cuore a Detroit. Col passare del tempo, a onor del vero, la scrittura di Nicke si è fatta più pacata (sul lento soul di So Sorry I Could Die, dedicata all’ex chitarrista Robert Dahlqvist, morto suicida nel 2017, si trattiene a stento la commozione), ma non per questo ha perduto smalto melodico e impatto eccitante, e questi trentaquattro minuti che scivolano via con la massima naturalezza ne sono la migliore dimostrazione. Un ritorno pienamente soddisfacente, del quale è saggio preferire l’edizione speciale, che all’album aggiunge l’EP di cover “Through The Eyes Of The Hellacopters”, dove vengono rilette, al solito con impeccabili eclettismo e personalità, Eleanor Rigby, Circus degli String Driven Thing, I Am The Hunted dei GBH e I Ain’t No Miracle Worker dei Brogues. Avercene.

Skid Row – The Gang’s All Here

A proposito di ritorni, quello discografico degli Skid Row ha colto un po’ tutti di sorpresa, per la presenza dell’ex H.E.A.T Erik Grönwall alla voce in sostituzione dell’ex Dragonforce ZP Theart ma soprattutto per la qualità del nuovo album, uscito a metà ottobre e subito proiettato sul podio dei dischi migliori del gruppo del New Jersey. Merito della nuova linfa portata dal cantante svedese ma soprattutto di un lotto di canzoni che recupera gli elementi migliori della carriera del gruppo, dalla strafottenza beffarda del debutto (The Gang’s All Here, Not Dead Yet, When The Lights Come On) all’assalto strutturato di “Slave To The Grind” (Hell Or High Water, World On Fire), senza dimenticare le reminiscenze (post-)grunge del prosieguo della carriera (Time Bomb, Nowhere Fast). Mancano le ballate, ridotte alla sola October’s Song, progressiva e dal sapore vagamente bonjoviano, ma, visto il breve minutaggio dell’album (neanche 42 minuti), non c’è veramente tempo di rendersene conto, come pure dell’occasionale passaggio meno riuscito che qui e lì l’album palesa. Un disco compatto e ben riuscito, al quale la produzione di Nick Raskulinecz (Foo Fighters, Ash, Stone Sour) conferisce una sostanza e una compattezza che è lecito pensare sarebbero mancate in assenza di un produttore. Chissà che sempre più musicisti si avvedano dell’importanza di tale figura, e possano quindi pubblicare dischi come questo, ossia conferme del loro ottimo stato di forma musicale; conferma che gli Skid Row hanno saputo dare e che, evidentemente, il pubblico ha compreso e apprezzato, se è vero che alla Feltrinelli di Galleria Vittorio Emanuele II il disco era esaurito il giorno stesso della pubblicazione.

Ibibio Sound Machine – Electricity

Elettronica ballabile con atmosfere afrofuturiste, incrementate dal cantato spesso in ibibio, una delle lingue nigeriane. Messa così sembra un’accozzaglia senza costrutto di idee, e invece il quarto album del settetto londinese centra pienamente il bersaglio offrendo disco militante (Protection From Evil) e tenerezze in punta di synth (Afo Ken Doko Mien), singoli spaccapista (17, 18, 19) e sinuoso afrobeat (Something We’ll Remember), house canonica (Wanna See Your Face Again) e spiritual robotici (Freedom). Eclettico e ben strutturato, “Electricity” promette e mantiene. Una delle sorprese dell’anno.

Panic! At The Disco – Viva Las Vengeance

In una copertina di rara insulsaggine si nasconde una golosità pop, proprio come in un imballaggio anonimo si può celare un regalo bramato. “Viva Las Vengeance” è un disco di citazioni del rock cosiddetto classico già dal titolo, ma questo gioco di rimandi serve ad incrementare la meravigliosa caratura melodica e la varietà dell’album: il ritornello della lenta ma non troppo Don’t Let The Light Go Out si rifà astutamente ai Foreigner più melensi, Local God è puro power pop filtrato dall’approccio nerdy di ascendenza Weezer, Star Spangled Banger omaggia apertamente i Thin Lizzy e il glam più innodico, God Killed Rock And Roll e Something About Maggie si inchinano ai Queen, Sugar Soaker evoca AC/DC e T. Rex. Messa così sembra un disco citazionista e passatista, ma la cifra personale di Brendon Urie, unico vero titolare della ragione sociale, emerge prepotente nella scrittura (si vedano i testi, punteggiati di arguzie) e nel cantato, conferendo coesione e smalto a dodici brani composti, arrangiati, suonati e prodotti impeccabilmente. È difficile dire se sia pop-rock o rock-pop, ma resta comunque una gioia per le orecchie. Resta, soprattutto.

Maule – Maule

Ennesimo prodotto di alto livello in ambito heavy metal proveniente dal Canada, il debutto dei Maule, quintetto di Vancouver con tre chitarre in formazione, allinea un metallo tradizionale, debitore dei nomi classici della scuola inglese e di quella locale (con qualche passaggio thrash, pescato comunque dalle versioni più moderne del genere; si ascolti Father Time) ma composto e suonato con intelligenza e gusto. In nove brani privi di cedimenti si segnalano la proposta vocale, melodica senza lesinare in aggressività, e soprattutto gli assoli di chitarra, di grande perizia tecnica senza sacrificare la melodia e l’ancillarità al brano, e si fanno apprezzare anche le frequenti e ben calibrate armonizzazioni chitarristiche e le occasionali accelerazioni sancite dalla doppia cassa della batteria. In un panorama spesso stantio, i Maule sono riusciti a trovare una loro voce ed esprimerla in maniera convincente, complice anche una produzione curata ma non patinata, che avrebbe potuto uccidere l’impatto sonoro immediato che questo genere richiede. È presto per dire cosa riserva loro il futuro, ma questo esordio pone i migliori auspici.

Chez Kane – Powerzone

Fresca di debutto con l’omonimo album uscito a marzo 2021, la cantante gallese Chez Kane, già in forza ai Kane’d, ripete l’esperimento solista con “Powerzone”, uscito a fine ottobre di quest’anno. Squadra che vince non si cambia, e dunque riecco Danny Rexon degli svedesi Crazy Lixx in veste di compositore e autore di tutte le parti strumentali, alle prese con un sound ancora più sfacciatamente indebitato con l’AOR più classico, quello del periodo aureo di metà anni Ottanta, come peraltro denunciato dalla (simpatica) copertina. E il risultato, pur nel suo evidente manierismo, non delude, grazie alla qualità di scrittura e all’entusiasmo degli esecutori, cosicché, tra una I Just Want You che omaggia al meglio gli Heart del periodo di massimo successo, quelli tra “Heart” e “Brigade”, una Rock You Up scanzonatamente leppardiana ancorché non pienamente riuscita, una sprintata Love Gone Wild filologicamente animata dal sassofono e che nondimeno cita nel ritornello Crazy Train di Ozzy Osbourne, una Children Of Tomorrow Gone che ipotizza i Dare con Bonnie Tyler alla voce e gli oltre otto minuti della conclusiva Guilty Of Love, titolo che richiama gli Whitesnake ma suoni da qualche parte tra “Too Hot To Sleep” e “Raised On Radio” e ottima chiusura a base di chitarra solista, il disco si regge saldamente sulle sue gambe, dando una ulteriore ragion d’essere alla carriera di Chez Kane. Forse il predecessore era più costante e avvantaggiato dall’effetto novità, ma preferire l’uno o l’altro album è una questione di gusti. Un disco indubbiamente piacevole e una nuova conferma per Frontiers.

D’Virgilio, Morse, Jennings – Troika

Questo disco formalizza la collaborazione tra alcuni dei musicisti più in vista del progressive contemporaneo, Nick D’Virgilio (Big Big Train, Spock’s Beard), Neal Morse e Ross Jennings (Haken, Novena) con undici brani intessuti di preziose melodie e di sofisticati intrecci vocali tra i tre protagonisti. Le atmosfere si rincorrono, spaziando, spesso all’interno dello stesso brano, tra l’etereo e il giocoso, l’acustico e l’elettrico, il romantico (Julia) e il perentorio (Second Hand Sons), e sempre con un occhio di riguardo alle canzoni e alle loro esigenze, senza inutili farciture strumentali. Poco meno di un’ora di musica e nessun cedimento. Commovente dalla prima all’ultima nota (soprattutto l’ultima; ascoltare What You Leave Behind per credere). Crosby, Stills & Nash hanno i loro degni eredi; forse.

Young Guv – GUV III

Settimo album in sei anni per Ben Cook, in arte Young Gov, quattro dei quali usciti a coppia e con titoli sequenziali, “I” e “II” nel 2019 e “III” e “IV” quest’anno. Complice, probabilmente, l’ispirazione più o meno forzata da confinamento antipandemico, e bisogna allora dire che tutto è bene quel che finisce bene, perché “III” trasuda del miglior power pop che si possa udire oggigiorno, undici brani che non lesinano in chitarre scampanellanti e armonie vocali, con la necessaria dose di malinconia celata dietro ritmi briosi e, soprattutto, melodie folgoranti. Che sia un jingle jangle d’eccezione come la Couldn’t Leave U If I Tried (mi sbilancio: un instant classic del genere) o una Only Wanna See U Tonight che avrebbe reso i Raspberries orgogliosi, una outtake di “The Masterplan” come Scam Likely o il pacato esercizio post-scarafaggesco April Of My Life, una ariosa It’s Only Dancin’ che potrebbe provenire dall’unico, immacolato LP dei Someloves oppure i Byrds su telaio R.E.M. di una trasognata quanto favolosa Good Time, “III” brilla dalla prima all’ultima nota, celeste e luminoso come i petali dell’occhio in copertina. Uno squarcio di cielo di un azzurro intenso, reso vivo da una luce solare calda e che riscalda corpi e anime; e, come nella migliore tradizione power pop, una promessa che il di poco successivo “IV” (uscito a giugno, laddove “III” era di marzo), più melanconico e britannico, non ha saputo mantenere integralmente. Peccato, ma non è un buon motivo per perdersi una gioia come “III”.

Blind Illusion – Wrath Of The Gods

In un anno avaro di thrash metal memorabile si segnala un rientro in scena inatteso, quello dei californiani Blind Illusion, prime movers della scena della Bay Area ma giunti al debutto solo nel 1988 (“The Sane Asylum”, un caposaldo del techno-thrash) e ricordati principalmente per avere annoverato in formazione Larry Lalonde (ex Possessed e futuro Primus) e Les Claypool (anch’egli futuro Primus), dopo essersi persi nei rivoli di numerosi cambi di formazione, che hanno impedito loro la necessaria continuità. La sigla rivive quindi ad opera del fondatore e leader Marc Biedermann, cantante e chitarrista, che ha riunito attorno a sé due veterani di grande caratura, il chitarrista Doug Piercy (ex Heathen) e il batterista Andy Galeon (ex Death Angel), e uno sconosciuto ma capace bassista, Tom Gears, per un nuovo capitolo discografico, uscito a ottobre a titolo “Wrath Of The Gods”. Album di thrash tecnico e tuttavia accessibile, forse perché basato prevalentemente su tempi medi e su una particolare cura nella composizione dei riff, che rende più interessante l’ascolto e più memorabili i brani, pure mediamente lunghi, senza pregiudicare l’impatto sonoro. Ottima l’apertura con Straight As The Crowbar Flies, che sembra estratta dal repertorio dei Megadeth più progressivi, ma anche le seguenti Slow Death, vicina a certi Overkill, e la melodica Protomolecule mantengono alto il livello, con i loro molteplici cambi di tempo, i riff efficaci e le parti soliste che aggiungono dettagli ai brani senza appesantirli. Da dimenticare, però, la conclusiva No Rest Till Budapest, uno scialbo esercizio di hard rock malriuscito e fuori posto, che avrebbe potuto essere utilmente espunto per contenere il minutaggio (che comunque non supera i sessanta minuti). Se la copertina non brilla, la produzione viceversa si segnala, definita ma non plasticosa e inondata di trigger come spesso accade nelle odierne uscite metal, per un risultato finale che dimostra pulizia e definizione sonora (fondamentali per una proposta musicale di questo tipo) senza sacrificare l’impatto. Una gradita sorpresa che ha prodotto un ascolto valido anche per i mesi a venire, perlomeno fino a quando perdurerà l’Ira degli Dei.

The Maharajas – Rock n’ Roll Graduates

È uscito il giorno di Natale, e non ne ho ancora ascoltato una sola nota. Perché l’ho ordinato sulla fiducia, e per ascoltarlo aspetto che arrivi il disco. Quindi è sulla fiducia che viene inserito in questa lista, soprattutto dopo aver visto e sentito questo. Dottori del buso del cool.

Monophonics – Sage Motel

Soul classicamente inteso, quello che promana dal quinto album dei californiani Monophonics, adagiato sul lato più psichedelico del genere e derivazione diretta di quel suono spazioso eppure emotivo costruito a cavallo tra i Sessanta e i primi Settanta da gente del calibro di Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Delfonics, Temptations, Isaac Hayes. “Sage Motel” dovrebbe narrare la storia di un motel californiano meta di sbandati e creativi, musicali e non, negli anni Sessanta e Settanta; luogo dell’anima più che del corpo, essendo il motel fittizio, ma comunque funzionale a confezionare, in una bella copertina di atmosfera surrealista-metafisica, dieci riuscitissimi brani di dondolante soul psichedelico, sospinto gentilmente dal falsetto emozionante di Kelly Finnigan, nonché punteggiato da armonie vocali (Sage Motel) o confidenziali ottoni (Crash & Burn) o glasse di archi (Never Stop Saying These Words). Il tutto mentre una sezione ritmica ora pigra ora compatta e variegate sfumature tastieristiche disegnano nuove traiettorie del gioco della seduzione dilatando gli spazi della coscienza, forti di una produzione impeccabile nella definizione e nella dinamica. C’è spazio per qualche episodio più ritmato, in odor di funk (Warpaint, Love You Better), ma il clima è prevalentemente rilassato e a tratti languidamente pensoso. 37 minuti e 20 (compresi intro e outro) e nemmeno uno di troppo: la vacanza migliore, a tratti indimenticabile (Broken Boundaries e il suo ritornello), è quella trascorsa al Sage Motel.

L’altro 2022

Candy – Whatever Happened To Fun

Un titolo curioso per un disco inciso nella Los Angeles di metà anni Ottanta, eppure la malinconia fa capolino da tutte le parti, nei testi da teenager romantico, nostalgico e un po’ sfigato di Kyle Vincent, nei coretti dei suoi tre sodali e nelle sferzate chitarristiche di Gilby Clarke, per un disco che è uno dei capolavori ultimi e meglio celati del power pop, in diretta dalla città che lo aveva elevato a genere con dignità autonoma ma uscito troppo tardi (nel 1986, ad eoni musicali dallo zenith commerciale delle skinny tie bands) per lasciare un qualsiasi segno, e infatti fu esordio e congedo dei Candy. Ben altra fortuna attendeva Vincent e (soprattutto) Clarke, ma questo album è un monumento al pop chitarristico che sogna in grande e nondimeno è condannato all’anonimato; volete la riprova? Cercatelo in streaming.

Jon Batiste, Cory Wong – Meditations

Pubblicato solo in formato streamingzito nel 2020, questo album condiviso tra due dei più promettenti musicisti contemporanei è probabilmente stato per entrambi un divertissement da lockdown, ma il risultato è di grande livello: ambient che avvolge l’anima e le orecchie, forte delle stratificazioni tra tastiere e chitarra, a creare un clima elegiaco e avvolgente, come la best practice del genere richiede. Impossibile, ovviamente, citare singoli brani, ché la fruizione dev’essere integrale e ininterrotta, ma i passaggi emozionanti sono molti. Ottimo a qualsiasi volume, l’ascolto di “Meditations” è un regalo che si fa a sé stessi.

Angelo Badalamenti – Soundtrack From Twin Peaks

La morte di Angelo Badalamenti ha focalizzato l’attenzione (in particolare la mia) sul suo corpo d’opera, vasto e lodato ma forse lasciato in secondo piano dallo scorrere del tempo. Doveroso, quindi, il recupero del suo lavoro più celebre e forse più significativo, la colonna sonora di “Twin Peaks”, serie televisiva scritta e diretta da David Lynch che all’alba degli anni Novanta cambiò il modo in cui questo format è pensato e realizzato, pur mantenendo una propria personale cifra stilistica. Un risultato dirompente che, però, il regista non avrebbe potuto ottenere senza l’apporto del commento musicale predisposto dal grande compositore per il cinema, dai suoni eterei e vaporosi eppure ben saldo sul piano ritmico e melodico, avanguardistico ma al tempo stesso ancorato alla tradizione, soprattutto jazzistica, e capace del raro miracolo di completare e arricchire le immagini a cui corredo è posto nel contempo vivendo di vita musicale propria e mantenendosi interessante anche per ascolti autonomi. Si alternano così melodie minimaliste quanto indimenticabili (Twin Peaks Theme, Laura Palmer Theme), andamenti felpati e morbosamente swinganti da noir urbano (Audrey’s Dance, Freshly Squeezed, The Bookhouse Boys) e dream pop reso tale dai carezzevoli vocalizzi di Julee Cruise (The Nightingale, Into The Night e soprattutto Falling, tutte estratte dal suo album “Floating Into The Night” (1989) e con testi di David Lynch su spartiti di Badalamenti). Un raro esempio di musica per lo schermo con una statura almeno pari all’opera di cui è parte, la colonna sonora di Twin Peaks è innovativa, influente e senza tempo. Un classico del genere da (ri)scoprire assolutamente.

Conosci te steso: Durand Jones & The Indications – Private Space

Giunti al traguardo del terzo LP in cinque anni, Durand Jones e gli Indications sorprendono e stupiscono con un’uscita che si richiama in maniera esplicita alla disco, approcciata, come di consueto, dal lato del soul d’annata, lasciando da parte interpolazioni elettroniche e puntando invece sul lato più morbido e seduttivo del genere, per un risultato, l’album “Private Space”, uscito il 30 luglio 2021, di grande suggestione. Il momento preso a riferimento dal gruppo dell’Indiana è quella stagione, iniziata a metà degli anni Settanta, in cui il soul, esaurita ormai la spinta propulsiva, sia ritmica che ideologica, del funk, si sdoppiava, da un lato, nel cosiddetto Philly soul, una proposta carezzevole che stemperava in languori e raffinatezze il grit degli anni “militanti” rallentando i tempi e stratificando gli arrangiamenti, e, dall’altro, nella disco, che manteneva l’acquis funk rivestendolo dell’edonismo necessario ad affrontare la me decade. Soluzioni entrambe commerciali anche se con diverse fortune presso i posteri, ché se la disco è entrata nell’immaginario collettivo come specchio di un’epoca, il soul morbido di Philadelphia (come anche il suo diretto erede, il quiet storm) è rimasto un genere di nicchia, per appassionati, pur influenzando le generazioni successive di musicisti. Tra questi, giustappunto, Durand Jones, cantante nero nativo della Louisiana che concentra in sé una formazione soul (apprendistato nel coro della chiesa) e jazz (studi di sassofono), e gli Indications, quattro ragazzi bianchi (il chitarrista Blake Rhein, il batterista e cantante Aaron Frazer, il bassista Mike Montgomery e il tastierista Steve Okonski) con la passione per l’epoca d’oro di soul e rhythm ‘n’ blues: infatti, se già “American Love Call”, uscito nel 2019, si lasciava alle spalle gli elementi più ruspanti del soul verace contenuto nel debutto omonimo (del 2016, poi ristampato nel 2018) per accogliere archi, mellotron e ritmi più eleganti, con “Private Space” l’operazione viene portata a compimento, inserendo nella mistura anche tratti marcatamente disco, che vengono così a fondersi con il soul morbido dimostrando che non vi è, né mai vi fu, antitesi tra le due forme espressive, soprattutto nel calderone popstalgico che è la scena musicale contemporanea.

Non si tratta, tuttavia, di un mero rimescolamento di generi, ma di un vero e proprio avanzamento qualitativo, perché il songwriting del gruppo ha fatto grandi passi in avanti e le melodie risultano ulteriormente cesellate, facendo dell’album un meraviglioso esemplare di musica nera che, però, è esercizio di reinterpretazione e non di supina riproposizione. Infatti, le sonorità rimandano al passato, ma la loro lettura è totalmente contemporanea e in grado di apportare qualcosa di ulteriore al canone espressivo di quel patrimonio musicale, peraltro con una godibilità che permea l’album da cima a fondo. Si passa così da una Love Will Work It Out che non ci si stupirebbe di trovare su “Let’s Get It On” al singolone d’impatto (diamo tempo a un dj di metterci le mani sopra…) Witchoo, che straccia Pharrell Williams al suo stesso gioco con impareggiabile eleganza, da una title-track che omaggia lo Stevie Wonder più languido a una The Way That I Do che riprende con efficacia roots i commerci con la disco compiuti dai Daft Punk con “Random Access Memories”, districandosi sinuosamente tra slow jam e funk in lamé fino ad I Can See, che conclude i 38:29 minuti del disco con un’ipotesi di Chic in veste di balladeer assistiti da una pacata drum machine quasi acid jazz e da soffusi sintetizzatori analogici. C’è, quindi, una certa varietà, pur restando all’interno di coordinate stilistiche volutamente (de)limitate ma proposte in maniera personale; anche, e forse soprattutto, grazie all’alternanza tra il tenore vellutato di Jones e il falsetto innocente di Frazer, che sovente si intrecciano con cori femminili, a creare suggestioni al calor bianco.

È quindi dolcissimo il naufragar nel mare di “Private Space”, LP improntato anche liricamente al gioco della seduzione e perfettamente in grado, forse per espresso intendimento dei suoi stessi autori, di commentarne la vittoria, facendosi forte di ritmi avvolgenti e coinvolgenti, melodie ricercate e non ovvie, arrangiamenti studiati ed eleganti, suoni curati e magistralmente amalgamati (notevole il missaggio dei bassi, capaci di costituire il necessario propellente ritmico senza risultare invadenti nello spettro sonoro, come spesso accade nelle produzioni più recenti). Tutto splendido, tutto odierno.

Quest’anno l’invecchiamento della popolazione si combatte in un “Private Place”.

Diventi, inventi. Pillole musicali dell’anno incorso.

Non l’anno migliore della storia umana, bisogna dire. Nemmeno musicalmente, per quanto qui interessa. Naturalmente il giudizio sconta la situazione discografica attuale, in cui le uscite si susseguono in numero soverchiante e al pur benintenzionato ascoltatore-recensore, ancorché con poco tempo a disposizione, non resta che affidarsi all’intuito, ai suggerimenti, a letture e al caso, con ovvie ricadute in termini di rispondenza del giudizio più al gusto e alla percezione del recensore che all’effettivo contenuto del disco. Ma questo fa parte del rischio di leggere una recensione scritta da altri. In ogni caso, da queste parti il 2020 è risultato ancor più avaro di uscite memorabili che l’anno pregresso, al punto che risulta difficile persino compilare la canonica lista di dieci, e ciò che resta di più memorabile in assoluto sono, ahimè, i lutti eccellenti tra gli operatori musicali: Ennio Morricone, Little Richard, Eddie Van Halen, Neal Peart, Ken Hensley, Keith Olsen, Martin Birch, Charlie Daniels, Lee Konitz, Sean Malone, Justin Townes Earle, Leslie West e tutti gli altri. Sarebbe bello lasciarci tutto alle spalle, ma probabilmente questa volta sarà più difficile. Proviamoci, quindi. Proviamo a lasciarci tutto alle spalle, tranne qualche disco da tenerci stretto.
Auguri.
P.S.: come sempre, la numerazione non implica giudizi di valore, ma costituisce una mera elencazione.

1. Green Day – Father Of All Motherfuckers
Qui. Con il progredire dell’anno il clima sereno che qui si respira, forse perché mancava la percezione della tragedia imminente, è diventato quasi assurdo, e però sempre piacevole e utile. Mi tocca ribadire la considerazione formulata al tempo: non avrei mai pensato di dover spendere ancora soldi per i Green Day. Bravi.

2. Night Flight Orchestra – Aeromantic
Qui. Rimane confermato il giudizio iniziale: gradevole ma inferiore ai due dischi che lo hanno preceduto; sarà la matrice maggiormente pop o la stanchezza che comincia ad insinuarsi nella composizione secondo coordinate intrinsecamente limitate. In ogni caso, per gli amanti di queste sonorità è una chicca.

3. X – Alphabetland
Qui. My my, hey hey, rock ‘n’ roll is here to stay.

4. Devon Williams – A Tear In The Fabric
Qui. Non mi pare di aver letto peana di questo disco e del pensoso pop chitarristico e cantautorale che vi alligna. E va bene così; etiamsi nemo, ego sic. Si parla di uno strappo nel tessuto, d’altronde.

5. Evildead – United $tate$ of Anarchy
Qui. Non è un capolavoro e nemmeno aspira ad esserlo, però non escono più tanti dischi così, lucide e impietose istantanee spazio-temporali con i suoni che sono nubi di ieri sul nostro domani odierno. Meno male, verrebbe da dire. O forse no.

6. Kylie Minogue – Disco
Partiamo da una constatazione: per essere una cantante professionista, l’australiana non ha una gran voce, in termini sia tecnici che espressivi. Però ha intuito, e ha capito che adesso è il momento di divertere la mente del pubblico dalla situazione attuale. E cosa c’è di più divertente delle sonorità che furono dello Studio 54, disco e R&B spruzzato di funk, rilette secondo lo stile già collaudato dai Daft Punk con “Random Access Memories”? Il risultato è un disco sorprendentemente godibile, cantabile come il migliore pop, ballabile come la migliore disco e colmo di idee melodiche variegate e altamente orecchiabili. E altrettanto sorprendentemente regge a plurimi ascolti. Sorprendente, appunto; soprattutto se prima di quest’anno sciagurato non avevate mai ascoltato un disco della popstar australe. Ora potete.

7. Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia
Qui. Musica radicata, solida e inscalfibile, eppure carica di emotività ed empatia, come il suo autore. A cui, qualcosa mi dice, il futuro prossimo non cesserà di fornire spunti.

8. Mr. Bungle – The Raging Wrath Of The Easter Bunny Demo
Non è tuttora chiaro per quale ragione Mike Patton abbia deciso di ripescare dall’archivio il primo demo dei Mr. Bungle, inciso nel 1986, e riproporne i pezzi di grezzo thrash-core con la formazione originale integrata da alcuni amici musicisti, che rispondono al nome di Dave Lombardo e Scott Ian. Certo è che ne è uscito un manicaretto di thrash metal, che si lascia alle spalle gli sperimentalismi che hanno sempre caratterizzato questa band per gettarsi a capofitto in un vortice di tupa tupa e riff affilati, sovrastati dalla voce proteiforme di Patton, per un risultato non dissimile da “Speak English Or Die” dei S.O.D., non fosse che per i titoli dei brani (Hypocrites/Habla Espanol O Muere), o dai Corrosion of Conformity degli esordi, omaggiati con l’arrembante rilettura di Loss For Words, che rivaleggia con l’originale. La dimostrazione definitiva che il thrash metal, se fatto bene, non invecchia.

9. Once & Future Band – Deleted Scenes
Il secondo album di questo trio di San Francisco tesse le trame di un rock d’altri tempi, o forse proprio di questi, epoca di riciclo e recupero. Infatti, tengono qui banco le sonorità del periodo compreso tra la fine dei Sessanta e i primi anni Settanta, le armonie (vocali e non) di scuola liverpool-californiana e la stratificazione progressive, il pop evoluto degli Steely Dan, un tocco di psichedelia e un pizzico di teatralità che si potrebbe ricondurre ai primissimi Queen, per un risultato eccellente in cui i nove brani (dei quali solo due superano i cinque minuti, e uno per soli tre secondi) sono composti ed eseguiti per farsi ascoltare, senza indulgere in contorsioni strumentali o soluzioni artificiosamente inusitate. Godibile, intelligente e ottimamente costruito, questo disco è permeato dal senso della misura e dalla comprensione degli elementi decisivi nel confezionare un’opera di qualità (non da ultimo i suoni, che restituiscono un’atmosfera schiettamente naturale agli strumenti). Rock progressivo in senso ampio, insomma; progressista, persino.

10. Dining Rooms – Art Is A Cat
Un affascinante mélange di dilatato trip hop, morbidi tocchi funk, languide voci femminili, soffusa tromba jazz, arpeggi acustici, atmosfere da colonna sonora anni ’60/’70, dettagli elettronici e altro ancora, per un risultato di grandissima suggestione, che sa essere in uno romantico e (a tratti) malinconico. Una volta di più il duo Ghittoni-Malfatti non delude, allargando ancora i già ampi orizzonti musicali frequentati e arricchendo il progetto Dining Rooms di un altro capitolo significativo e piacevole. Sarebbe bene ricordarsi, ogni tanto, che in Italia ci sono anche musicisti di questo livello.

Altri dischi

Harry Beckett – Joy Unlimited
Ad agosto, nel disinteresse generale, la Cadillac Records ha ristampato il disco più celebre del trombettista Harry Beckett, pubblicato originariamente nel 1973, mai ristampato e da allora praticamente sparito dal mercato. Incredibilmente, perché si tratta di una delle migliori incisioni mai realizzate nell’ambito del cosiddetto jazz elettrico: infatti, le linee suonate da Beckett si inseriscono in un contesto modale senza mai perdere di vista la melodia e dimenticare la solarità caraibica che ha accompagnato il trombettista per tutta la carriera (si ascolti il tema di Glowing), mentre il pianoforte elettrico tesse trame armonicamente sofisticate su cui la chitarra può guizzare su registri ora rock-blues ora latineggianti, con la sezione ritmica a sospingere un funk sinuoso e poliritmico di ascendenza afrocaraibica. E il risultato, al crocevia tra il jazz-rock, il funk e i primi Santana, è meraviglioso. Un disco imperdibile.

Little Richard – Southern Child
Negli anni ’70 Little Richard aveva tutte le carte in regola per beneficiare della risorgenza dei suoni rock n’ roll e dell’ondata di revival degli anni ’50 allora in corso. Invece, scelse di abbracciare due lati misconosciuti della sua formazione musicale, il country e il blues: nel 1972, un anno dopo “The Second Coming”, registrò undici pezzi in quegli stili, con un orecchio alla musica nera contemporanea, presentando quindi alla Reprise, con cui all’epoca aveva un contratto discografico, le incisioni per un nuovo disco, corredate di titolo, “Southern Child”, e artwork. Per motivi mai realmente chiariti, l’etichetta accantonò il master, che rimase così a prendere polvere sino al 2005, quando i brani rientrarono in una raccolta, e infine a quest’anno, in cui è stato infine pubblicato nella forma e nelle intenzioni di mister Penniman, che non ha fatto in tempo a vedere la sua creatura venire alla luce con trentotto anni di ritardo. Gran peccato, perché, tra funk sensuale (California (I’m Comin’), Burning Up With Love), country verace (Ain’t No Tellin’, Over Yonder) e imbastardito con il rock (If I Pick Her Too Hard), blues campagnolo (la title-track, I Git A Little Lonely) e umori southern soul (In The Name), questo disco è un affresco di sorprendente qualità, nonché una finestra sul talento poliedrico di un artista che è facile liquidare sbrigativamente come one-trick pony. Un degno epitaffio per uno dei più grandi musicisti pop del Novecento.

L’altro 2020

Teaze – One Night Stands
Avevano tutte le carte in regola per accedere al grande successo, i canadesi Teaze: bella presenza, perizia strumentale, talento compositivo, capacità di stare sul palco. E mai questa sensazione è stata più forte che nel 1978, quando, dopo due album che ne avevano stabilmente aumentato le quotazioni sui mercati internazionali, il quartetto aveva ottenuto un contratto con la potente Capitol anziché con la limitata Aquarius. “One Night Stands”, l’album che ne uscì, pubblicato l’anno seguente, soddisfaceva tutte le aspettative riposte nel gruppo, ma, schiacciato tra la coda dell’era della disco e l’alba della new wave, senza peraltro riuscire ad agganciare le sonorità del rock radiofonico del periodo, fu un fallimento commerciale, che sancì la fine delle speranze di gloria dei Teaze, che si sciolsero l’anno seguente, lasciandosi alle spalle quattro album, tra i quali spicca questa gemma di hard rock dei tardi anni Settanta, in cui convivono spinte verso sonorità più dure e furbe strizzate d’occhio alle esigenze radiofoniche del periodo: Touch The Wind sono gli Iron Maiden ante litteram, Loose Change indica la via a What’s Up? delle 4 Non Blondes, mentre Young And Reckless potrebbero essere gli Aerosmith che maneggiano la disco e Red Hot Ready sembra uscita da un album dei Rose Tattoo. Il tutto corredato da accenni di sintetizzatori, chitarre roboanti che spesso si intrecciano in linee melodiche armonizzate e ritmi a tratti fratturati. Connotato da grande varietà di stili pur senza perdere in coerenza e qualità del songwriting e rilegato da una produzione impeccabile, “One Night Stands” è un recupero meritorio, nonché un’altra dimostrazione che il Canada è il naturale trait d’union tra Stati Uniti e Inghilterra, in questo caso tra hard rock radiofonico e quella che sarebbe diventata la NWOBHM. Tra le varie stampe disponibili, è meglio evitare quella americana, la cui scaletta inserisce brani dai dischi precedenti (Boys Night Out dal debutto omonimo e Stay Here da “On The Loose”) rimpiazzando Loose Change, uno dei brani migliori; scelta, quest’ultima, curiosamente condivisa anche dalla recente ristampa in CD della Rock Candy.

Wall Of Silence – Shock To The System
I canadesi Works non ebbero fortuna con il loro unico album di AOR, “From Out Of Nowhere”, pubblicato nel 1989. Mutati tre componenti del gruppo su cinque, decisero di cambiare anche nome, in Wall Of Silence, scrivendo nuove canzoni e trovando un accordo discografico con la A&M. Ne uscì questo “Shock To The System”, unico parto della formazione, datato 1992 e quindi condannato in partenza, nonostante un AOR tosto e curatissimo, di qualità superiore, non da ultimo per la produzione e il contributo compositivo e strumentale di quel gran genio di Mike Slamer. Chitarre distorte ma non invadenti e sempre arrangiate con varietà e cognizione di causa, panneggi di tastiere ad aggiungere sfumature, suoni scintillanti e dinamica impeccabile ci sono e si sentono, ma ciò che fa la differenza sono la qualità di scrittura e le melodie sempre vincenti, in contesti duri (il sofisticato esercizio leppardiano di Addicted, probabile singolo mancato) o languidi (It’s Only Love, power ballad memorabile come poche altre e ancor più sorprendente perché autografa). Dieci brani che lambiscono i territori di Giant, Signal, Unruly Child e Harem Scarem pur mantenendo una propria identità, a costituire un’altra hidden gem in ambito AOR, come confermato dal fatto che l’album non è mai stato ristampato e oggi passa di mano a prezzi rilevanti.

Bullet/Alan Tew – The Hanged Man OST
“The Hanged Man” era una serie di genere poliziesco ambientata nello Yorkshire e trasmessa dalla televisione britannica nel 1975. Alan Tew è un compositore inglese di musica per il cinema e la televisione, sia mirata che in forma di library music, e fu lui a ricevere l’incarico di scrivere il commento musicale alla serie citata. Le partiture furono quindi girate a un gruppo di turnisti delle etichette specializzate KPM e Themes International, il bassista Les Hurdle, il batterista Barry Morgan, il chitarrista Alan Parker, il percussionista Frank Ricotti e il tastierista Alan Hawkshaw. Costoro incisero a Monaco le musiche scritte da Tew e, quando fu il momento di pubblicarle, si battezzarono, per la prima e unica volta, Bullet. Ne uscì uno sfavillante LP di funk polizi(ott)esco, dal groove irresistibile e dalle atmosfere avvincenti come e più delle immagini, capace di superare in qualità lo sceneggiato che era stato chiamato a corredare e vivendo di luce propria come una delle migliori uscite in assoluto nel genere, a suo agio indistintamente con vibrafoni e sintetizzatori, trombe e pianoforti elettrici, chitarre “grattugiate” e ottoni pungenti. In breve: un capolavoro. Del quale l’ascoltatore saggio vorrà preferire la ristampa in CD su Vocalion, che alle diciotto tracce originali aggiunge, oltre a un booklet ricco di dettagli e fotografie, ventidue brani incisi nelle medesime sessioni, già usciti sui due volumi della raccolta “Drama Cues” di Alan Tew, e sette temi in stile di Alan Parker, James Clarke e Alan Hawkshaw.

Unleash The Archers – Apex
In ambito hard ‘n’ heavy, il Canada è particolarmente famoso per due stili: un AOR cristallino e nitido e un heavy metal classico particolarmente epico e arrembante. Ad ulteriore (dopo Cauldron, Striker, Skull Fist e molti altri) conferma che quest’ultimo stile è uno degli export di punta del vessillo con la foglia d’acero si pongono gli Unleash The Archers, che sono in giro da più di dieci anni e hanno recentemente pubblicato il loro quinto album “Abyss”. Ma non è a questo che ci si deve rivolgere per trovare un’uscita sorprendente in un panorama stilistico dalle coordinate limitate e molto affollato, bensì al predecessore “Apex”, del 2017. Qui le varie anime del metal che guarda alle classiche sonorità heavy senza però volersi arroccare in filologiche quanto stantie riproposizioni si saldano al meglio, complici le capacità compositive del gruppo, l’enorme abilità strumentale dei musicisti (soprattutto i due chitarristi e il batterista) e la varietà nel dosaggio degli stilemi. In questo disco il tipico suono power metal convive con ritmiche fratturate di doppia cassa e inserti di matrice groove, le chitarre armonizzate di ascendenza maideniana non stonano a fianco di una voce occasionalmente in growl, riff stradaioli ripresi dalla NWOBHM si saldano ad epiche andature cadenzate e a falsetti sia maschili che femminili. Ottimamente prodotto (nonostante le recenti tendenze “polimeriche” della Napalm), “Apex” tiene magnificamente insieme tutto ciò che di buono ha prodotto l’heavy metal negli ultimi anni, suscitando tuttavia il timore che i suoi autori non siano in grado di superarlo in qualità, rendendo così il titolo un inequivoco nomen omen. E se anche fosse, poco male, perché resterebbe comunque “Apex” a confermare che si può ancora dire qualcosa in ambito heavy metal, e dirlo bene.

Damnatio memoriae

Metallica – S&M 2
Non ho idea di chi, maggiorenne, e non solo di età, possa averlo ascoltato.

La vita è il sale dell’ottimismo: Devon Williams – A Tear In The Fabric

devon williams - a tear in the fabric

“Uno strappo nel tessuto”: titolo perfetto per descrivere questo tempo di lacerazione del tessuto sociale umano. Sennonché il quarto album del cantautore californiano Devon Williams, uscito il 1 maggio scorso, non tratteggia orizzonti collettivi, bensì intimamente personali, visto che, a leggere le note stampa che accompagnano il disco, nei sei anni che hanno separato questo lavoro dal precedente “Gilding The Lily” al suo autore sono successe cose che cambiano la vita, come la morte del padre per malattia e la nascita di una figlia. Ma, dal momento che, nelle parole di T.S. Eliot, la critica onesta e l’apprezzamento sensibile sono diretti non al poeta ma alla poesia, il vissuto personale dell’autore non assume alcuna rilevanza in merito alla qualità dell’opera, e dunque bisogna concentrarsi sul disco, che di qualità ne ha da offrire non poca.

Sembrerebbe che questa forma di pop cesellato venga incasellato come riproduttivo degli stilemi del pop anni Ottanta, ma c’è da dire che in questa temperie spintamente revivalista di quel decennio basta un sintetizzatore qui e là, un po’ di chorus applicato a chitarre pulite e risonanti nonché una certa dose di riverbero aggiunto ai suoni della batteria per classificare la proposta come “ottantiana”. Mi pare, quest’ultima, un’etichetta applicata con imprecisione in questo caso, perché, se è vero che la scelta sonora di Williams rimanda a certe soluzioni di formazioni come Prefab Sprout e China Crisis, nondimeno il contesto melodico che informa la scrittura trascende quell’epoca, citando anche il jingle jangle sessantiano, certo country e l’intimismo cantautorale di inizio anni Settanta. Insomma, quello di “A Tear In The Fabric” è pop nella più piena accezione, influenzato dal suo passato ma intenzionato a rivolgersi all’epoca presente; risultato che ottiene, peraltro, con uno dei più tipici artifici della musica popular: parlare di sé per esprimere sentimenti universali, nel tentativo di produrre risonanza emotiva in un uditorato di, potenzialmente, qualunque epoca. Solo il miglior pop ci riesce, e questo disco non ci va troppo distante.

Probabilmente per la qualità della stesura melodica, che cattura senza eccedere, e per la trama essenzialmente asciutta dei brani, nonostante l’uso di una strumentazione mediamente articolata (frequenti sono le sovrapposizioni di chitarra acustica ed elettrica, quest’ultima sempre pulita, su drappeggi di sintetizzatori); o forse per la voce così naturale di Williams, apparentemente monocorde ma capace di suonare autenticamente confessoria e di portare l’occasionale sollievo psicologico che i rimuginii esistenziali dopo un po’ richiedono. In ogni caso, la finestra aperta da questi dodici brani sul mondo interiore del loro autore invita ad affacciarsi e osservare il paesaggio, per scorgervi, volta per volta, le nuvole che si addensano (la title-track, condita dagli aromi agresti forniti da una lap steel discreta ma evocativa), una faccia amica (Out Of Time, che si potrebbe persino definire springsteeniana), foglie gialle portate dal vento (In Babylon), placide onde che al tramonto accarezzano la battigia con spuma dorata (il quasi power pop di Deadly Turn) o chissà cos’altro, scorci kinksiani, Waterboys protetti dal polistirolo o magari perfino degli Anathema depotenziati. Visioni dai colori tenui e tuttavia screziate, con il vantaggio che, nonostante le atmosfere siano principalmente intimiste e malinconiche, si scorge sempre una sensazione di speranza latente, di fiducia nella capacità di mettere tutto in prospettiva e saper affrontare le sfide man mano che si presentano e per quello che sono: emblematici al riguardo due inserimenti sonori, rispettivamente un estratto di No More Rock n’ Roll di Clifford T. Ward alla fine di A Tear In The Fabric e un tenero richiamo ai genitori di una voce di bambina, forse proprio la figlia di Williams, in Peace Now?. Malinconia serena, ecco cos’è “A Tear In The Fabric”, parto di un musicista non professionista che ha qualcosa da dire su di lui e (quindi) su di noi.

Malinconia, ma anche serenità. Proprio quello che ci serve, adesso che la tela è lacerata.

The paths of glory lead not but to the grave: Adam Schlesinger (1967-2020)

adam schlesinger

Ieri il COVID-19 si è portato via Adam Schlesinger, cinquantaduenne bassista e compositore molto celebrato. Soprattutto per la musica scritta per cinema e televisione, che gli ha fruttato diversi tra nomination e premi, e il gruppo power-pop Fountains of Wayne, autore di cinque album tra il 1996 e il 2011. Ma io preferisco ricordarlo per l’apporto ad un side-project e l’intervento decisivo per la riuscita dell’ultimo album dei Monkees.

Riposa in pace, Adam. Grazie di tutto.

Sbagliandosi in para: The La’s – The La’s

the la's - the la's

Ha dell’incredibile quanto poco si parli di questo disco rispetto alla sua qualità, anche in relazione al fatto che non si tratta di una gemma nascosta, di scarsa tiratura e avara reperibilità, bensì di una celebrata opera di culto, oggetto di molteplici ristampe anche recenti. E tuttavia sul primo e unico album dei La’s continua perlopiù a sussistere un silenzio diffuso, interrotto solo dagli occasionali peana degli addetti ai lavori o di fan sfegatati. A opere del genere, ammetto, mi sono sempre accostato con scetticismo, vuoi per una innata diffidenza verso il parere critico istituzionalizzato, vuoi per una perplessità circa la posizione di alternativo a prescindere che i fan di tali gruppi spesso pretendono di ricoprire. Ma un ascolto ponderato di “The La’s” mi ha convinto della bontà di tali posizioni, e dunque passo a illustrare le ragioni per cui questo disco può migliorare la vita di chi lo faccia proprio, anche solo auralmente.

I La’s (contrazione di lads, “ragazzi” nel gergo britannico) nascono nel 1984 a, guarda caso, Liverpool. A capitanarli c’è il chitarrista e cantante Lee Mavers, che raccoglie intorno a sé il bassista John Power, il chitarrista Paul Hemmings e il batterista John Timson. La formazione cambierà più volte nel corso degli anni, mantenendo sempre il nucleo centrale di Mavers e Power, e sarà solo quando il secondo deciderà di gettare la spugna, nel 1991, che il gruppo verrà inghiottito dal gorgo della storia del pop per trasmodare nel quieto e spesso ingrato club delle formazioni di culto. Curioso, per un pop rock perfetto, fin troppo perfetto, nesso diretto e ineludibile tra i Beatles e ciò che verrà acclamato come Brit Pop. Non ci credete? Ascoltate e giudicate.

There She Goes è una delle canzoni pop definitive, le chitarre jingle jangle a rilegare una melodia vocale insidiosissima e inamovibile fin dalla sua prima apparizione aurale; per Timeless Melody, beh, parla il titolo, e comunque non siamo poi tanto distanti, solo con qualche tocco di Beatles in più e di Byrds in meno, come sancisce il ritornello che non sarebbe strano trovare in “Beatles For Sale”; I Can’t Sleep Tonight richiama certe ispidezze kinksiane che hanno condotto al garage, senza per questo dimenticare cori vischiosi e insidiosità ritmica, e si può dire che batte i più celebrati Hoodoo Gurus al loro stesso gioco; Liberty Ship mette insieme gli Scarafaggi, Eddie Cochran, i Fleetwood Mac di Oh, Well e forse anche Donovan in un salterino quadretto acustico, e lo stesso fa Doledrum, aggiungendovi giusto uno shottino di blues. Una maraviglia via l’altra, e non piccola parte di tale stupore è dato dal susseguirsi costante di canzoni di alto livello, che catturano l’orecchio e anche il corpo, episodi di un paio di minuti scarsi giù fino alla conclusiva Looking Glass, quasi otto minuti psichedelici di foggia barrettiana eppure sempre concentrati nel colpire l’ascoltatore, e state sicuri che i Temples ucciderebbero per un pezzo così.

C’è da chiedersi perché un disco di tal fatta non abbia avuto i riscontri che meritava. È presto detto, auspice l’album dei Lino e i Mistoterital citato nel titolo dell’articolo: il demo di debutto e i primi due singoli fecero sobbalzare le riviste e la BBC, ma Lee Mavers, autore di tutti i brani e maitre a penser del gruppo, non riteneva le incisioni, pure eseguite ripetutamente e con enorme accuratezza nell’arco di anni, di qualità sufficiente per essere pubblicate. L’etichetta indipendente Go! Discs, che aveva messo sotto contratto il gruppo dopo il notevole fermento generato dal passaparola e che aveva pubblicato la sua prima prova a 45 giri, pretendeva un prodotto da spedire sul mercato, e dunque impose al gruppo il produttore Steve Lillywhite (che al tempo aveva già lavorato, tra gli altri, con Ultravox!, Johnny Thunders, XTC, Psychedelic Furs, Simple Minds, Peter Gabriel, Rolling Stones e soprattutto U2), che cercò di finire il lavoro già iniziato (There She Goes era già stata registrata con la produzione di Bob Hogdson per l’omonimo 45 giri) assecondando le esigenze di purezza e immediatezza dell’impatto sonoro avanzate dal perfezionista Mavers, arrivando persino a ritappezzare interamente le pareti dello studio di incisione e a foderare la cabina della batteria con lastre di pietra pur di ottenere il suono desiderato. Nonostante gli sforzi e le prolungate sessioni di registrazione, quando, a quasi tre anni di distanza dall’inizio delle operazioni, le dodici canzoni previste per l’album furono completate, Mavers si disse insoddisfatto del risultato e pretese di riregistrare daccapo tutti i brani. L’etichetta, comprensibilmente, si rifiutò e, dopo aver imposto al produttore di consegnare i nastri, li pubblicò con il titolo “The La’s” nel 1990, nonostante le accorate proteste e i tentativi di blocco del leader del gruppo, non prima di aver dato a una simile meraviglia sonora una copertina altrettanto splendida, nella forma di una fotografia in bianco e nero di un occhio femminile scattata da Russell Young. E se i peana al disco furono ubiqui, il gruppo non ne seppe beneficiare, partendo per un mini tour promozionale interrotto a dicembre del 1991, quando il bassista John Powers, unico membro presente fin dagli esordi e sostegno di bilanciamento al delirio iperperfezionistico di Mavers, lasciò improvvisamente il gruppo. Che da allora giace congelato, non essendosi mai formalmente sciolto ma nemmeno mai riformato stabilmente, con il talentuoso leader rimasto vittima di se stesso e della sua immaginazione musicale tanto fervida quanto paralizzante.

Se ne ricava che il genio può anche essere una condanna: saper scrivere canzoni pop perfette non è sufficiente, se non si sa come portarle alla dimensione loro congeniale, ossia una fruizione quanto più possibile popular, e per farlo occorre una sufficiente dose di spregiudicatezza, nonché l’abilità di saper immaginare la resa del brano e procedere alla realizzazione dell’incisione in un tempo ragionevole rispetto all’ideazione compositiva e comunque in linea con le esigenze mercantili della musica, che è pop proprio perché deve essere venduta (e viceversa, beninteso). La vicenda La’s, quindi, consegna agli annali un monito per qualunque velleità di creazione, artistica ma non solo: per quanto accurata possa essere l’ideazione e rifinita l’idea, ad un certo punto bisogna concludere il processo creativo e pubblicare l’opera, pena l’irrilevanza. O anche solo il miglior album di pop inglese tra “Rubber Soul” e “What’s The Story (Morning Glory)”.

Una faticaccia, non c’è che dire.

Dc a 9: i dischi

Ed ecco, dopo due mesi di assenza e qualche tentativo di articolo abortito, l’annuale adempimento del dovere compilativo. Anno musicalmente avaro, questo 2019, che ha visto più defezioni rilevanti (João Gilberto, Dr. John, Dick Dale, Roky Ericsson, Rik Ocasek, Ginger Baker, Andre Matos) che album degni di menzione, tanto che a stento mi riesce di individuarne dieci per la consueta playlist. Un anno da dimenticare, insomma. Procedo dunque all’elencazione ritenuta adeguata, in no particular order come sempre, confidando che il 2020 possa portare un netto miglioramento da tutti i punti di vista. Augh.

Dischi notabili

1. REFUSED – WAR MACHINE
Qui. E il passare del tempo non attenua ascolti e riscontri. Il disco dell’anno, per quanto se ne può sapere da queste parti.

2. THE BACKDOOR SOCIETY – THE BACKDOOR SOCIETY
Qui. Confermati impatto e mestiere; una promessa, e chissà che il gruppo riesca a mantenerla.

3. EX HEX – IT’S REAL

ex hex - it's real

Questo trio americano interamente femminile ha pubblicato quest’anno il suo secondo ellepì, colmo di un power pop accattivante e ben costruito, che tiene insieme la freschezza melodica di matrice pop, l’esuberanza irruente di stampo punk e un vago ascendente hard rock nelle partiture di chitarra. E il coloratissimo risultato non delude affatto. Delle Go-Go’s per il Ventunesimo secolo, come peraltro suggerito dalla copertina.

4. THE NIGHT TIMES – HERE WE GO

the night times - here we go

Avete presente il detto anglofono secondo cui non si può giudicare un libro dalla sua copertina? Ecco, dimenticatelo, ché il debutto dei californiani Night Times confessa apertamente e con orgoglio le sue intenzioni già dalla foto di frontespizio: proporre una mezz’oretta del più puro e selvatico garage punk di stretta osservanza Sixties, le chitarre una pulita e una fuzzata, l’organo Farfisa o Vox, i ritmi convulsi, i tamburelli, le maracas, le urla e tutto il resto. Operazione riuscita alla perfezione, in un disco (uscito solo su vinile, peraltro) che trasuda eccitazione senza dimenticare la ballabilità, riuscendo così a trasmettere la sensazione di esuberanza ormonale che ha sempre costituito il primum movens del genere. Difficile e forse insensato selezionare singoli brani, ma mi pare comunque preferibile farsi scorticare cento volte da un pezzo come I Don’t Mind o agitarsi in preda alle convulsioni surf di Go Mental o al febbrile rockabilly di Charmed che cedere alle lusinghe di uscite più blasonate o sedicenti originali. Santino (?) dei Sonics in tasca e pepe al culo, insomma. Ben arrivati, tempi notturni.

5. AMYL AND THE SNIFFERS – AMYL AND THE SNIFFERS

amyl and the sniffers - amyl and the sniffers.jpg

Debutto sulla lunga distanza dopo due EP in tre anni per questi quattro australiani, capitanati dalla magnetica Amy Taylor e autori di un tellurico punk garagistico, che richiama da vicino le più urticanti proposte proposte rock n’ roll di quella terra spargendo energia a piene mani grazie alla foga esecutiva dei musicisti e alla voce abrasiva e allupata della cantante, ideale continuatrice della scuola di Wendy O. Williams e Poly Styrene senza peraltro dimenticare un vago sentore pop preso a prestito dalla Debbie Harry degli esordi, che fa capolino qui e là e che l’ascoltatore attento potrà cogliere a tratti, negli interstizi del muro chitarristico e ritmico eretto dagli Sniffatori. Punk fatto come si dovrebbe, con il rock n’ roll come ragione di vita e anche un po’ più in basso. Down under, d’altronde.

6. RIOT CITY – BURN THE NIGHT

riot city - burn the night.jpg

L’ondata di revival del metal classico è ormai grandemente scemata rispetto all’inizio del decennio, ma ciò non significa che non continuino a uscire ottimi dischi ispirati alle sonorità heavy degli anni Ottanta; anzi, la sopravvenuta riduzione della platea permette di apprezzare ancora di più i risultati più alti e di commuoversi per la dedizione di chi continua a praticare il genere prediletto a prescindere dalle mode. Questa volta il plauso cade sui Riot City, giovani canadesi (provenienza geografica che stupisce ben poco per questa proposta) che a maggio hanno debuttato con un gioiellino di heavy speed totalmente ottantiano, che guarda a Judas Priest, primi Iron Maiden, Raven, Vicious Rumors e Savage Grace per produrre una colata di acciaio ispirata al power metal americano e forgiata sulle chitarre armonizzate e sugli acuti perforanti di Cale Savy. Intensità costante, riff perfettamente concatenati, ritmica serrata, oltre ad una produzione che valorizza i singoli strumenti senza cedere a tentazioni ottusamente filologiche (proverbiale la mancanza di dinamica di molti album storici del metal anni Ottanta) e ad una copertina che riesuma l’Hellion, custode del priestiano “Screaming For Vengeance”, fanno di “Riot City” il miglior album di heavy metal uscito quest’anno. Chissà che fine hanno fatto gli Striker, a proposito.

7. DUFF MCKAGAN – TENDERNESS
Qui. Ribadisco: chi l’avrebbe mai detto.

8. LES GRYS-GRYS – LES GRYS-GRYS

les grys grys - les grys grys

Francesi di Montpellier, i cinque Grys-Grys hanno esordito quest’anno con un LP di ascendenza sessantiana di qualità incredibile, maturo nei riferimenti stilistici e nella scrittura: sfacciatezze mod si fondono a umori psichedelici, l’esuberanza garage si appaia all’allusività rock-blues, suoni ricercati corredano essenziali jungle beat e la ricercatezza melodica non pregiudica l’impatto. Who, Stones, Bo Diddley, Electric Prunes, Yardbirds, Sonics e molti altri copulano felici in questo disco. Come dei Creation Factory più raffinati, insomma. Davvero incredibile.

9. JEFF DAHL – ELECTRIC JUNK

jeff dahl - electric junk.png

Questo disco non è nemmeno indicato su Discogs, e di mister Dahl a tutt’oggi non esiste nemmeno una pagina di Wikipedia, nonostante le decine di uscite a suo nome e le comparsate in dischi e progetti musicali altrui, a conferma della natura elusiva di questo piccolo eroe dell’underground, attivo sin dalla fine degli anni Settanta e in qualche modo riuscito a eludere persino quel fazzoletto di notorietà quantomeno settoriale che l’informazione telematica garantisce a praticamente chiunque. Merito, o colpa, di un atteggiamento a suo modo incompromissorio, incentrato sulla riproposizione costante di un punk n’ roll coinvolgente anche se raramente memorabile (mirabile eccezione “Wasted”, uscito nel 1991) e dunque presto archiviato nella sezione del revivalismo carbonaro come materia per cultori. A riprova della coerenza dell’uomo si pone questo “Electric Junk”, autoprodotto e pubblicato con diffusione streamingzita e una volta di più zeppo delle solite melodie trascinanti flagellate da chitarre essenziali, rese con mezzi e suoni parimenti essenziali, nel più puro spirito del ’77. La presenza è motivata più dal valore simbolico della coerenza stilistica e attitudinale che dall’effettiva consistenza dell’opera, e nondimeno “Electric Junk”, pur non essendo più di quanto il titolo promette, si fa ascoltare con un certo piacere anche più di una volta.

10. TUXEDO – TUXEDO III

tuxedo - tuxedo III

Se Michael Jackson fosse vivo e facesse un disco così sarebbero in tanti a spellarsi le mani in applausi. E invece ne è autore un duo di produttori americani, giunti ormai al traguardo del terzo album e animati dall’intento ben preciso di rivitalizzare la disco, aggiornandone lo spirito all’epoca del #metoo e del reggaeton. Divertirsi e divertire con stile e colorando di glamour le lenti deformanti della popstalgia è lo scopo di “Tuxedo III”, ed è pienamente raggiunto: le drum machine essenziali conducono al bersaglio il ritornello appiccicoso di You And Me, Tuxedo Way anima party di ieri e di domani cavalcando un basso insidioso con commento di coretti da Studio 54 e c’è persino tempo per abbassare luci e ritmi con un accenno di ballata, quella Toast 2 Us che ha fatto propria la lezione del R&B anni ’90 senza peraltro dimenticare qualche aroma jazz, a dimostrazione che anche la più filologica delle riproposizioni non è mai una totale copia carbone del passato. Un disco con dichiarati intenti mercantili e tuttavia realizzato con una certa classe e la giusta dose di leccata sfrontatezza. Gli(lle)tterati e orgogliosi.

Altre pillole di 2019
SPIDERGAWD – V: una garanzia: rock duro ma composto e suonato con intelligenza, con in mente first and foremost la canzone e le sue esigenze, la melodia in primis. Che in questo album è un po’ più presente rispetto al passato, ma che nondimeno non comporta alcun sacrificio in termini di qualità e integrità. Magistrali per continuità.

BELLRAYS – PUNK FUNK ROCK SOUL VOL. 2: una garanzia vol. 2: la miscela si è fatta più blended, con più rock classico e soul a sopperire alla foga punk degli esordi, ma la classe non è acqua e qui si sente ancora una volta: Bob Vennum e i ragazzi sprigionano il fulmine o la scossa alla bisogna, e Lisa Kekaula è la solita pantera che sa cavalcarla con sfrontatezza, aggressività o sensualità. Si nota un leggero appannamento della scrittura rispetto al passato anche recente (leggi: anni Dieci), ma che suonino tozzo hard (Perfect), boogie lascivo (Bad Reaction) o pensosi blues (Every Chance I Get), i Bellrays restano sempre la solita, grandiosa macchina da rock n’ roll.

SACRED REICH – AWAKENING: non esattamente perfetto, ma un incoraggiante segnale nell’ottica del rientro nel genere, che poi è il thrash metal legato alla vecchia scuola, quella degli anni Ottanta, suonato con intelligenza e senza fanatismo, come è proprio di chi quel periodo lo ha vissuto in prima persona. Certo, i giorni di gloria (?) sono alle spalle, ma fa sempre piacere sapere che, in tempi di sommovimenti politici latinoamericani, c’è chi suona, oh se suona, la sveglia.

KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD – INFEST THE RATS NEST: gli imprendibili e imprevedibili australiani da due LP l’anno colpiscono ancora, forgiando nove tracce di heavy metal misto a speed metal ottantiano e con una punta di hard rock, suonato con intelligenza e senza cadere in frusti stereotipi. Impatto, atmosfera, coinvolgimento e la solida, mefitica voce di Stu MacKenzie. Davvero notevole, poi, in chiave di estetica metal, la gigeriana copertina. Ci stava bene in Top 10 (anche perché, diciamocelo, ‘sto Jeff Dahl, ma chi cazzo è?), però ormai è andata così. Da ascoltare senza esitazione.

ATLANTEAN KODEX – THE COURSE OF EMPIRE: il metal in uno dei suoi massimi picchi emotivi: heavy cadenzato e crepuscolare per descrivere la fine di un’epoca, quella della civilità occidentale. Mai troppo veloce e sempre decadentemente melodico, per un risultato incredibilmente icastico. Difficile da descrivere a parole, ed è un buon segno. Sarebbe stato bene in Top 10, ma è la fine di un’epoca, per l’appunto.

L’altro 2019
UNIDA – COPING WITH THE URBAN COYOTE
Questo disco mi ha letteralmente salvato la vita, nel periodo buio da fine agosto a inizio ottobre. L’ho scoperto per caso, qui, e altrettanto casualmente ho deciso di ascoltarlo; la sua potenza, quel suono pastoso e saturo, quel basso di inaudito spessore, quella foga esecutiva mi hanno investito, facendomi capire che c’era ancora qualcosa di valido nella vita e un motivo per lottare. Mi ci sono quindi aggrappato, e la voce ululante di John Garcia mi ha sorretto. Anzi: il “your eyes don’t look just the same” all’inizio di If Only Two mi ha inchiodato alle mie responsabilità di vivente, spingendomi a cercare un rilancio, che ogni ascolto di questo disco ha spinto sempre un passo oltre. Non potrò mai ringraziare abbastanza gli Unida (e chi me li ha fatti scoprire) per ciò che hanno fatto, e cioè “Coping With The Urban Coyote”, che, per quanto mi riguarda, trasmoda da titolo a missione. Mi accorgo adesso che il testo della canzone in realtà dice “your eyes both look just the same“: mi piace pensare che non sia un caso.

J.P. BIMENI & THE BLACK BELTS – FREE ME
Dopo gli Excitements, è ancora Barcellona via l’Africa a dettare i tempi del nuovo vecchio soul: J.P. Bimeni è ruandese, risiede nella città catalana e possiede una voce di potenza e sensualità incredibilmente prossima a quella di Otis Redding e Marvin Gaye; i Black Belts sono un quartetto indigeno dedito al soul strumentale sulla scia di MGs e Bar-Kays. Insieme firmano un LP, uscito nel 2018, di ottima qualità, in cui convivono ballate col cuore in mano (I Miss You) e agrodolci esuberanze (Honesty Is Luxury), in un contesto che distilla il suono Stax per l’epoca di Trump. Se l’onestà è un lusso, come il disco proclama, vale nondimeno la pena concederselo, e sul piano musicale “Free Me”, clamorosa opera prima, è un lusso d’altri tempi.

SIZIKE – U ZEMLIJ CUDA
Recentemente ristampato, questo LP uscito originariamente nel 1986 è opera dei Data, un collettivo jugoslavo a prevalenza serba autore di un pop sintetico e ballabile, tipico del periodo, proteso ad emulare i dettami modaioli imperanti illo tempore eppure nient’affatto privo di quella cifra estetica e stilistica di area slava, fatta di kitsch inconsapevole e senso del ridicolo nullo o quasi. Sintetizzatori analogici, batterie elettroniche d’antan e vocalizzi femminili prevalentemente in lingua realizzano un gioiellino di esotica motilità (facile prevederne l’acquisto/acquisizione da parte di dj hipsterici desiderosi di stupire la platea) senza per questo impedire l’ascolto casalingo o l’uso a mo’ di tappezzeria sonora. A corredo della ristampa ci sono anche tre brani altrimenti inediti dei Data, sempre in stile. Una godibile mezz’ora di new wave danzabilmente hipster e un inusuale angolo prospettico per riflettere sulla globalizzazione e sugli abiti in materiali sintetici; avvertenza: forte potenziale di culto.

ROY AYERS UBIQUITY – RED, BLACK & GREEN
Il soul jazz dei Settanta, il decennio d’oro del genere, al massimo della sua forza espressiva: ritmo irresistibile anche nelle sue declinazioni più pacate, arrangiamenti curati, varietà nell’improvvisazione e orgogliosa esibizione delle radici. La disco e le sue sbornie sono poco oltre (siamo nel 1973) e non saranno ignorate, ma qui Ayers suona ancora perché deve, per sé e per gli altri, per il corpo e per la mente; non a caso aprono e chiudono rispettivamente le riletture di Ain’t No Sunshine (Bill Withers) e Papa Was A Rolling Stone (Temptations), con la consapevolezza afrocentrica della title-track, posta a metà, a fare da spartiacque. Uno degli album migliori di uno dei maestri del vibrafono a capo di una delle sue formazioni più solide.

Damnatio memoriae
BLIND GUARDIAN TWILIGHT ORCHESTRA – LEGACY OF THE DARK LANDS
Il disco orchitestrale, finalmente.

BRUCE SPRINGSTEEN – WESTERN STARS
Come sopra. Ma la goduria vera è leggere gli inerpicamenti dei critici musicali per giustificare, contestualizzare, interpretare. Your eyes both look just the same.

In the electric age we wear all mankind as our skin: Superheavy – Superheavy

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Mick Jagger non ha bisogno di presentazioni. Dave Stewart è il chitarrista, nonché l’altra metà, degli Eurythmics, e anche questo dovrebbe bastare. Joss Stone, invece, è una cantante soul inglese che dal 2002, anno del debutto discografico, ha frequentato spesso le zone alte delle classifiche pop, mentre Damien Marley, figlio di tanto padre, è un giamaicano dedito al reggae nelle sue declinazioni più contemporanee. Il più sfuggente, almeno per chi scrive, è l’indiano Allah Rakha (abbreviato in A.R.) Rahman, pluripremiato compositore di colonne sonore per i film di Bollywood, tra cui il celebre “The Millionaire”.

Questa strana congerie di rockstar di ieri e di oggi, vicine e lontane, ha dato vita – su impulso di Stewart, che ha prima coinvolto Jagger, poi Joss Stone e quindi tutti gli altri – al progetto Superheavy, inteso come crocevia sonoro e culturale che valorizzasse tutti i retaggi musicali dei partecipanti, dal reggae alla musica nera, passando per le sonorità oriental(eggiant)i, l’elettronica e il rock, in un’unica soluzione in grado di far convivere armoniosamente realtà anche molto diverse. Un manifesto sonoro del melting pot, insomma. Il risultato è l’omonimo album “Superheavy”, uscito nel 2011 e a tutt’oggi senza eredi; figlio inerentemente bastardo e come tale non supportato da concerti e dunque presto caduto nel dimenticatoio, nonostante l’iniziale battage mediatico dato dalla caratura dei nomi e dal singolo Miracle Worker, con annesso video a corredo. Ad oggi, infatti, pare che questo disco non sia mai esistito, dato che non ne constano menzioni da parte dei suoi autori e che anche il pubblico sembra non ne sia stato sfiorato, e quindi queste righe arrivano per cercare di modificare tale situazione e rendere una minima giustizia a un’opera che avrebbe meritato una maggiore considerazione.

“SuperHeavy” è intriso di reggae, ma non dimentica sonorità più prettamente world music, garantite dagli intervalli peculiari utilizzati da Rakha, come pure certi spessori chitarristici, che invero sorprende sentir provenire da un “tappezziere” come Stewart. Predominano tuttavia gli umori giamaicani, che illuminano in prevalenza il disco con una componente ritmica solare e stuzzicante, prettamente estiva; persino il brano cantato in sanscrito (!), Satyameva Jayathe, è sospinto da un motore quasi reggaeton, e il delicato neo-soul di Rock Me Gently non lesina sottigliezze ritmiche in levare fino al definitivo mutamento di pelle che interviene a metà. Ciò, però, non fa dell’album una mera parentesi vacanziera nei Caraibi, perché le altre componenti musicali sono sempre presenti e ben amalgamate; a volte predominanti, come in quella Wild Horses in sedicesimo che è Never Gonna Change, con Jagger ovviamente sul proscenio, o nel tozzo hard innervato di fiati di I Can’t Take It No More, o, ancora, nel finale a base di soul carezzevole e vagamente psichedelico di World Keeps Turning, che si potrebbe dire debitore di qualcosa ai Verve, se essi stessi non dovessero nulla agli Stones. Le voci, poi, sono il punto di forza del disco, vista la loro varietà e il perfetto amalgama sia timbrico che volumetrico: il graffiante mezzo-tenore di Jagger completa il toasting medio-basso di Marley che, a sua volta, fa da contraltare allo squillante vibrato della Stone, senza che nulla risulti fuori posto o disfunzionale rispetto alle esigenze dei brani. Ovviamente al baronetto, per galloni e per primazia di partecipazione, è riservata una parte predominante delle parti cantate, da un punto di vista strettamente numerico, ma questo non significa che il suo stile sia quello prevalente o anche solo invasivo, poiché un lavoro accurato in fase di produzione, opera di Jagger e Stewart, ha mescolato accuratamente i componenti, realizzando una miscela inappuntabile, espressione piena di quella idea di fusione musicale e quindi culturale che il progetto si riprometteva sin dalla sua ideazione.

Perlopiù solatio, ritmato e non troppo lungo, “SuperHeavy” è un disco sostanzialmente estivo, nonostante sia uscito alla fine dell’estate di ormai otto anni fa. Ma non per questo vale la pena di lasciarselo scappare; anche perché si sa come va di solito con i cosiddetti supergruppi. Un ascolto è senz’altro consigliato, invero, e magari finisce che piace davvero, come il mondo globalizzato. E altrimenti si prosegue come al solito, le rockstar nel loro esilio dorato e noi sempre in caccia, le prede sfuggenti o, una volta agguantate, nuove e nuovamente irraggiungibili. Che pesantezza però.

Chiunque pronunci la parola “imbecille” è certissimo di non esserlo: Sheet Mag – Need To Feel Your Love

sheer mag - need to feel your love

Venerdì sera ho suonato hardcore punk in uno spazio okkupato con indosso una maglietta effigiante la calvizie elettrica di Marinetti. Volevo vedere se il ’77 è passato davvero e la verifica ha dato esito inequivocabilmente positivo, se si deve giudicare dalla reazione piatta, o meglio la non-reazione, degli astanti, e resta tuttavia il dubbio se essa derivi da tolleranza, indifferenza o ignoranza. Ma, riguardando la questione da un altro punto di vista, la risposta al dubbio di cui sopra sarebbe di segno opposto, e sempre per fatti occorsi quella sera.

Poco tempo prima che cominciasse il concerto, avvistata in fondo alla sala una cesta contenente pochi dischi, mi recavo ad ispezionarne il contenuto. Scorrevo così la successione di 12″, disilluso e poco convinto che si potesse ivi celare qualcosa di diverso da mediocri proposte di hardcore punk, richieste dal tenore dalla serata e dall’aspetto del venditore e alle quali fin troppo spazio consento di occupare sugli scaffali. Nell’operazione mi imbattevo in una strana e oscura copertina, dai contorni granulosi e raffigurante un aereo in volo da un cielo nero verso l’unico sprazzo di schiarita, e con nell’angolo in alto a sinistra (visto che il Settantasette non è finito?) un logo puntuto di chiara ascendenza metallara. Strano reperto, in quel contesto anti-sistema e schierato anche esteticamente, eppure a suo modo accattivante, con quell’improbabile foto del gruppo sul retro, quattro capelloni dall’aria spostata attorno ad una corpulenta ragazza dalle sembianze nerd, il tutto in bianco e nero puntinato stile Roy Lichtenstein dei poveri. E poi quel nome mi diceva qualcosa, si richiamava a qualche lettura fatta tempo addietro chissà dove, magari in un sito di recensioni, o magari in qualche chat dei social in cui si scatena l’hype e si adegua la mission alla vision. La seconda, senza dubbio. Come che sia, mi facevo vincere dalla tentazione e dall’intuito e lasciavo nelle mani di colui che si scoprirà poi essere il chitarrista dei romani Education, quartetto dedito a un pregevole post-punk, ancora piuttosto punk ma già oltre quanto a ombrosità ed estetica (per sincerarsene ci si rechi qui), una cifra elevata per il contesto, ma non superiore al prezzo di vendita praticato mediamente nei negozi, in cambio di “Need To Feel Your Love” degli Sheer Mag ancora incellofanato, concedendomi persino il lusso di scialacquare i due euro residui in una birra per la Causa. LP griffato Toxic Shock Records senza uno straccio di anno di pubblicazione o di informazioni di sorta sul gruppo o l’etichetta, e il mistero fitto (in epoca di cyber-security, capirete, son soddisfazioni) stuzzicava ulteriormente la curiosità, e il manufatto doveva sopravvivere ai perigli usuali di simili contesti per riuscire infine a girare sotto la puntina, ad un’ora imprecisata del tardo mattino seguente. Colpendo già al primo ascolto, e la curiosità si rivelava allora ben riposta.

Il debutto sulla lunga distanza dei Sheer Mag, quintetto di Philadelphia, arriva nel 2017, dopo una serie di singoli, raccolti in un’omonima raccolta del 2016, e vede un gruppo maturo a livello compositivo nonostante la recente formazione, impiantato saldamente nei suoni tradizionali del rock ma deciso a rendere quella formula attuale, attualissima per corpi e soprattutto cervelli odierni. Scelta ribadita costantemente e anche nel contegno “impegnato ma non troppo”, del quale è esempio esplicativo la scelta di non munirsi di istromenti social. La rivoluzione deve venire da dentro, sembrano dire i nostri, ripartendo da ciò che ci lega gli uni agli altri uti singuli prima ancora che uti socii, e di qui il titolo del disco, ad un tempo preghiera e proclama per un mondo migliore. Che già il disco, pur con tutti i suoi limiti, riesce a realizzare, per quanto nelle sue possibilità ontologiche.

Ascoltare “Need To Feel Your Love” è come sintonizzarsi su una radio FM dell’America di metà anni Settanta, in cui il formato aor (non ancora genere musicale) consente di passare brani di durata non stereotipata e playlist stilisticamente variegateE lo è vieppiù in ragione della produzione, volutamente lo-fi e garagistica pur in un contesto che richiederebbe rifiniture e dettagli. Ma si tratta di una scelta che ha la sua coerenza, per così dire, politica, perché mossa dalla consapevolezza che l’ascolto di quelle stazioni radio avveniva su sgangherati apparecchi dai minuscoli e gracchianti altoparlanti, magari collocati in ambienti rumorosi, e dunque per arrivare alla massa occorre calarsi nel suo modus operandi, arrivando persino a comprenderne la fisiologica frammentazione in fazioni che fra loro si guardano in cagnesco e tentando di ricompattarle verso l’obiettivo comune del rock ‘n’ roll sorretto da ideali. Operazione che non ha nulla di filologico, prefiggendosi piuttosto una riedizione per contesto contemporaneo di quello spirito di esplorazione che allignava nella creatività musicale del tempo; tentativo senz’altro complesso e non privo di contraddizioni e tuttavia lodevole per lo sforzo di recuperare una dimensione di identificazione collettiva quantomeno sul piano sonoro.

Dicevamo che sembra di ascoltare una radio you essay di metà anni Settanta attraverso un apparecchio nihon di metà anni Settanta, e la scaletta non lascia delusi in tal senso, ché sembra di voltare pagina ad ogni brano, perché l’apertura con il boogie ad alto voltaggio di Meet Me In The Street chiama in causa Thin Lizzy e AC/DC, ma già dalla seguente Need To Feel Your Love sembra di stare in un disco di Dionne Warwick, e se Just Can’t Get Enough è un mosso power pop di eccellente fattura la cui paternità non sarebbe strano ricondurre a Paul Collins e Expect The Bayonet l’hit che i Blondie non scrivono da ormai troppo tempo, Rank And File spinge come se alla chitarra ci fosse il Mick Ronson dei tempi d’oro e Turn It Up è hard rock tagliato con l’accetta e maleducato come si deve. E siamo solo al lato A; il verso, se pure simile per eclettismo e leggermente calante in qualità, offre comunque spunti notevoli: la gita al Sud a base di intrecci di chitarre e ritmi saltellanti di Suffer Me, la disco con gusto stile Re del Pop di Pure Desire, il boogie sbarazzino e agrodolce di Can’t Play It Cool e, a chiudere, una sorniona rosa bianca metaforicamente deposta sul memoriale di Sophie Scholl. Una bella lezione di indipendenza di giudizio (cos’è l’eclettismo, dopotutto?), integrità ideologica  e tolleranza in poco più di quarantadue minuti. Più hardcore di così ci sono solo dischi brutti.

P.S.: le principali recensioni del disco disponibili online, soprattutto quelle in inglese, insistono sul fatto che gli Sheer Mag riescono a riabilitare moralmente l’hard rock degli anni Settanta, preservandone la forza d’urto ma annullandone il sessismo. A discorsi del genere la critica mainstream non è nuova (ad esempio, nei tardi anni Novanta altrettanto potere taumaturgico era riconosciuto agli Smashing Pumpkins) e, scambiando la causa con l’effetto, dimostra come il politically correct abbia ormai avvelenato quasi completamente il senso critico, anche in chi per lavoro dovrebbe dimostrarsi abile e aduso a storicizzare. Peccato. Nella speranza, pur flebile, che si tratti di intenzioni preterintenzionali, passiamo oltre e godiamoci il disco. I dischi.