La vita è il sale dell’ottimismo: Devon Williams – A Tear In The Fabric

devon williams - a tear in the fabric

“Uno strappo nel tessuto”: titolo perfetto per descrivere questo tempo di lacerazione del tessuto sociale umano. Sennonché il quarto album del cantautore californiano Devon Williams, uscito il 1 maggio scorso, non tratteggia orizzonti collettivi, bensì intimamente personali, visto che, a leggere le note stampa che accompagnano il disco, nei sei anni che hanno separato questo lavoro dal precedente “Gilding The Lily” al suo autore sono successe cose che cambiano la vita, come la morte del padre per malattia e la nascita di una figlia. Ma, dal momento che, nelle parole di T.S. Eliot, la critica onesta e l’apprezzamento sensibile sono diretti non al poeta ma alla poesia, il vissuto personale dell’autore non assume alcuna rilevanza in merito alla qualità dell’opera, e dunque bisogna concentrarsi sul disco, che di qualità ne ha da offrire non poca.

Sembrerebbe che questa forma di pop cesellato venga incasellato come riproduttivo degli stilemi del pop anni Ottanta, ma c’è da dire che in questa temperie spintamente revivalista di quel decennio basta un sintetizzatore qui e là, un po’ di chorus applicato a chitarre pulite e risonanti nonché una certa dose di riverbero aggiunto ai suoni della batteria per classificare la proposta come “ottantiana”. Mi pare, quest’ultima, un’etichetta applicata con imprecisione in questo caso, perché, se è vero che la scelta sonora di Williams rimanda a certe soluzioni di formazioni come Prefab Sprout e China Crisis, nondimeno il contesto melodico che informa la scrittura trascende quell’epoca, citando anche il jingle jangle sessantiano, certo country e l’intimismo cantautorale di inizio anni Settanta. Insomma, quello di “A Tear In The Fabric” è pop nella più piena accezione, influenzato dal suo passato ma intenzionato a rivolgersi all’epoca presente; risultato che ottiene, peraltro, con uno dei più tipici artifici della musica popular: parlare di sé per esprimere sentimenti universali, nel tentativo di produrre risonanza emotiva in un uditorato di, potenzialmente, qualunque epoca. Solo il miglior pop ci riesce, e questo disco non ci va troppo distante.

Probabilmente per la qualità della stesura melodica, che cattura senza eccedere, e per la trama essenzialmente asciutta dei brani, nonostante l’uso di una strumentazione mediamente articolata (frequenti sono le sovrapposizioni di chitarra acustica ed elettrica, quest’ultima sempre pulita, su drappeggi di sintetizzatori); o forse per la voce così naturale di Williams, apparentemente monocorde ma capace di suonare autenticamente confessoria e di portare l’occasionale sollievo psicologico che i rimuginii esistenziali dopo un po’ richiedono. In ogni caso, la finestra aperta da questi dodici brani sul mondo interiore del loro autore invita ad affacciarsi e osservare il paesaggio, per scorgervi, volta per volta, le nuvole che si addensano (la title-track, condita dagli aromi agresti forniti da una lap steel discreta ma evocativa), una faccia amica (Out Of Time, che si potrebbe persino definire springsteeniana), foglie gialle portate dal vento (In Babylon), placide onde che al tramonto accarezzano la battigia con spuma dorata (il quasi power pop di Deadly Turn) o chissà cos’altro, scorci kinksiani, Waterboys protetti dal polistirolo o magari perfino degli Anathema depotenziati. Visioni dai colori tenui e tuttavia screziate, con il vantaggio che, nonostante le atmosfere siano principalmente intimiste e malinconiche, si scorge sempre una sensazione di speranza latente, di fiducia nella capacità di mettere tutto in prospettiva e saper affrontare le sfide man mano che si presentano e per quello che sono: emblematici al riguardo due inserimenti sonori, rispettivamente un estratto di No More Rock n’ Roll di Clifford T. Ward alla fine di A Tear In The Fabric e un tenero richiamo ai genitori di una voce di bambina, forse proprio la figlia di Williams, in Peace Now?. Malinconia serena, ecco cos’è “A Tear In The Fabric”, parto di un musicista non professionista che ha qualcosa da dire su di lui e (quindi) su di noi.

Malinconia, ma anche serenità. Proprio quello che ci serve, adesso che la tela è lacerata.

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The paths of glory lead not but to the grave: Adam Schlesinger (1967-2020)

adam schlesinger

Ieri il COVID-19 si è portato via Adam Schlesinger, cinquantaduenne bassista e compositore molto celebrato. Soprattutto per la musica scritta per cinema e televisione, che gli ha fruttato diversi tra nomination e premi, e il gruppo power-pop Fountains of Wayne, autore di cinque album tra il 1996 e il 2011. Ma io preferisco ricordarlo per l’apporto ad un side-project e l’intervento decisivo per la riuscita dell’ultimo album dei Monkees.

Riposa in pace, Adam. Grazie di tutto.

Our life could be your band: Head Candy – Starcaster

head candy - starcaster

Riflettevo recentemente come, nonostante il pedigree di primissimo piano, Andy Wallace resti una figura i cui meriti sono sostanzialmente dimenticati. Eppure i suoi interventi in fase di produzione e di missaggio sono spesso stati determinanti per la resa sonora di alcuni degli album più considerati in assoluto: “Reign In Blood”, “South Of Heaven” e “Season In The Abyss” degli Slayer, ad esempio. Ma anche “Chaos A.D.” dei Sepultura, “Raising Hell” dei Run DMC, “Post Orgasmic Chill” degli Skunk Anansie, “Grace” di Jeff Buckley e nientemeno che “Nevermind”, a cui, intervenendo in extremis dietro sollecitazione della Geffen, conferì una brillantezza sonora necessaria per consentirne i passaggi radiofonici. La sua abilità, in particolare, è quella di saper dosare con estrema precisione le varie componenti del suono, creando un amalgama perfetto, in grado di suonare compatto e presente senza sacrificare i singoli strumenti, e ciò perfino in generi musicali dove le chitarre massicce e distorte potrebbero coprire tutto il resto. Insomma, a Andy Wallace dobbiamo una buona fetta della musica che ascoltiamo da anni con passione, anche se tendiamo a dimenticarcene.

Forte della convinzione di dover riparare, per quanto possibile, a questo torto/dimenticanza, facevo delle ricerche sul curriculum vitae di questo produttore californiano e scoprivo, oltre alla sua paternità dello studio losangelino Hit City (da cui sono usciti, tra gli altri, “Too Fast For Love”, “Season In The Abyss”, “Call Of Voodoo”, “Hexbreaker!” e “Guitars, Cadillacs, Etc., Etc.”), che Wallace è stato l’ingegnere del suono anche di una notevole quantità di produzioni minori, da un disco e via, e tra queste la mia attenzione è caduta, per caso e – a questo punto posso dirlo – per fortuna, su “Starcaster”, unico album degli Head Candy.

Vano tentare di tracciare un profilo di questa formazione: tutto ciò che si riesce a reperire sull’argomento è che si tratta di un quartetto proveniente da Iowa City e composto dal chitarrista e cantante Mike Sangster, dal chitarrista Doug Roberson, dal bassista Jim Vallet e dal batterista Jim Viner. Sangster aveva suonato con altri gruppi della zona, come pure Roberson, che avrà il più prolifico prosieguo di carriera, con numerose formazioni di area alternative rock al confine con garage e psichedelia. “Starcaster”, pubblicato nel 1991 dall’etichetta indipendente newyorkese Link Records solo in formato CD e cassetta, era il debutto della formazione e, per un qualche scherzo del fato, era destinato a rimanere l’unico lavoro degli Head Candy, svaniti nel nulla dopo questa prova sulla lunga distanza e un paio di 45 giri promozionali, peraltro privi di materiale inedito. Ma che disco era, questo “Starcaster”!

Incredibilmente, il gruppo era riuscito ad accaparrarsi i servigi di un veterano come Andy Wallace, e la mossa aveva pagato eccome, perché il sound dell’album è pieno e potente ma, come sempre, tutt’altro che privo di dettaglio: il basso è presente non solo sul piano ritmico, e tutte le linee suonate da Jim Vallet risultano perfettamente intelligibili anche ad un ascolto non attento, arricchendo lo spettro armonico; la batteria è completa di ogni suo elemento (persino la cassa, spesso lasciata troppo indietro nel mixaggio finale) senza essere invadente e, soprattutto, suona naturale, come se venisse ascoltata dal vivo; gli intrecci delle due chitarre vengono riproposti con estremo nitore, nonostante la preponderanza dei suoni distorti, senza sacrificare in alcun modo l’impatto del muro chitarristico e senza far predominare le parti dal suono più basso rispetto a quelle più acute o viceversa; la voce non manca di dominare il tutto senza per questo risultare troppo alta di volume, ma, anzi, potendosi esprimere in tutte le sfaccettature, dall’urlo al sussurro, mantenendo una resa naturale. In generale, il suono di “Starcaster” è, come da lezione di Wallace, un modello di precisione, bilanciamento e dinamica; in breve, di adeguatezza sonora. Ma non basta una produzione eccellente a fare un ottimo disco, e però questo lo è.

Gli Head Candy vengono dal Midwest ed è quindi ragionevole ritenere, pur senza certezze sul punto, che siano stati immersi nella fervida scena locale del rock indipendente americano degli anni Ottanta, in particolare nella sua ispida variante più incline al punk tipica dell’area di provenienza; sennonché Iowa City è equidistante tanto da Chicago che da Minneapolis/Saint Paul, e dunque le influenze delle scene musicali indipendenti di queste due grandi città e delle formazioni che le componevano hanno giocoforza permeato l’approccio stilistico del gruppo. Nella cui proposta, infatti, è ben leggibile innanzitutto la lezione degli Hüsker Dü, che per primi avevano dimostrato come si potesse mantenere un’integrità punk sul piano sia attitudinale che sonoro senza per questo rinunciare a varietà e melodia; ecco, quindi, da dove gli Head Candy mutuano la struttura della maggior parte dei brani, di impatto e costruiti su ritmi sostenuti, e l’uso di articolate trame chitarristiche, spesso grintose ma che non disdegnano fraseggi più melodici e articolati, seguendo, stavolta, le orme di Television e Feelies. Ma anche gli altri grandi influenti di Minneapolis, i Replacements, hanno dato qualcosa agli Head Candy, in termini di ancoraggio al lato più melodico e radiofonico del rock “duro”, seppure reinterpretato in chiave alternativa e dunque scevro di ogni virtuosismo e di ogni elemento non funzionale al brano, mentre dai chicagoani e quasi coevi Urge Overkill si può ricavare un’influenza in termini di volontà di aggiornare l’hard rock alle esigenze del nuovo decennio, sfrondandolo di ogni orpello come pure di ogni atteggiamento machista, producendo composizioni strutturate ma sempre immediate. Insomma, frullate Hüsker Dü, Replacements, Television, Feelies e Urge Overkill, insaporite con giusto una punta di Cheap Trick (numi tutelari dell’area, provenendo dalla poco distante Rockford, in Illinois), aromatizzate con un sentore della Detroit anni Settanta e del punk del non distantissimo Ohio e avrete una buona idea di come suonano gli Head Candy. E ora il disco: ho già detto che è bellissimo? Sì? Beh, non credetemi, perché non ce n’è ragione, e verificate da voi.

Verificate da voi se il tozzo ma non volgare hard di Soul Grinder richiama gli australiani i New Christs nella loro forma migliore. Se In The Night Kitchen non sono gli Sugar che giocano a fare i R.E.M. primevi, peraltro riuscendoci appieno. Se non si potrebbe trovare la firma di Greg Dulli e compagnia sotto Words To Live By. Se Part Of The Earth è pop insieme frizzante e intimista, ombroso come richiedeva l’allora appena iniziato ultimo decennio novecentesco. Se Sideways Laughing non fa da sola arrossire ampi settori del catalogo Foo Fighters. Se la ragnatela chitarristica e la foga ricercata di Mona Lisa Overdrive non dovrebbero rendere Mould, Hart e Norton orgogliosi. Se i due minuti scarsi della conclusiva traccia omonima non sono i Doors in versione shoegaze. Se, insomma, “Starcaster” non è una gemma del rock indipendente anni Novanta, e, in generale, del rock più grintoso, dimenticata sepolta tra le sabbie del tempo, all’ombra delle dune più alte del palmares di uno dei più importanti ingegneri di studio che il rock abbia conosciuto.

No, non è Steve Albini. Lui di stelle non vuole saperne.

…don’t have any feelings.

Ma ve lo immaginate imbolsito, rugoso e con i fili dorati della barba, al solito trasandata in maniera autentica e non finta, da cui fanno capolino sempre più consistenti chiazze bianche?

Ve lo immaginate costretto da discografici e manager ad avere profili social e ad aggiornarli con selfie e simili?

Ve lo vedete chiamato a fare il giudice in un talent show, o a partecipare a reality di dubbia qualità per assecondare la sete di presenzialismo di una moglie rampante sotto le spoglie (!) dell’alternativa consapevole?

Come accogliereste dischi sempre più fiacchi e adagiati sui cliché, oppure svolte stilistiche quantomeno avvilenti per chi a ventisei anni si è dichiarato annoiato e vecchio dopo essersi appagato della rabbia adolescenziale?

Reggereste la visione a lato delle passerelle dell’haute couture più blasonate, alla presentazione dell’ennesima rivisitazione di camicioni a quadri e jeans decolorati e lacerati?

È stato meglio così. È più triste e lo sarà sempre, ma è stato meglio così.

Ci ha fatto divertire, come, arrivati, chiedevamo. E, dopo tanto peregrinare, si è meritato di trovare gli amici nella sua testa e intrattenersi con loro.

Il resto non conta. Ed è stato meglio, è meglio, così.

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P.S.: chissà cosa avrebbe detto, lui, della storia dei feti di plastica.

Fintanto che gli stolti potranno vivere e proliferare, il mondo, nel suo complesso, procederà tollerabilmente bene: Art Brut – Wham! Bang! Pow! Let’s Rock Out!

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Gli Art Brut sono i nuovi Kinks. Anzi no, sono i nuovi Buzzcocks. Anzi no: sono la cosa migliore successa al rock inglese nel ventunesimo secolo.

Da una manciata di mesi i cinque sono giunti al traguardo del quinto album, “Wham! Bang! Pow! Let’s Rock Out!”. Titolo emblematico e irresistibile come quelli che lo hanno preceduto (“It’s A Bit Complicated”, “Art Brut vs. Satan”, “Brilliant! Tragic!” e “Top Of The Pops”) e tutto questo senza ancora arrivare al contenuto. Che è una miscela di energico rock ‘n’ roll non dimentico del punk e però sempre innervato di melodie irresistibili e dementi, suonate con tastiere dai suoni improbabili o da fiati che aprono arricchenti squarci soul. Ma sono i testi ad essere il vero punto di forza del gruppo, una mistura di nonsense e di vita vissuta narrata attraverso giustapposizione di immagini banali e descrizioni surreali, il tutto porto con l’imperturbabilità, vera o apparente, che è caratteristica britannica precipua e dunque tanto fonda l’avvertimento del contrario che impregna quel paradigmatico humor. Sul punto vi rimando a uno dei maestri del genere, Jerome K. Jerome: “When a twelfth-century youth fell in love he did not take three paces backward, gaze into her eyes, and tell her she was too beautiful to live. He said he would step outside and see about it. And if, when he got out, he met a man and broke his head—the other man’s head, I mean—then that proved that his—the first fellow’s—girl was a pretty girl. But if the other fellow broke his head—not his own, you know, but the other fellow’s—the other fellow to the second fellow, that is, because of course the other fellow would only be the other fellow to him, not the first fellow who—well, if he broke his head, then his girl—not the other fellow’s, but the fellow who was the—Look here, if A broke B’s head, then A’s girl was a pretty girl; but if B broke A’s head, then A’s girl wasn’t a pretty girl, but B’s girl was. That was their method of conducting art criticism.. Una cosa così, ma con le chitarre sotto.

Inglesi fino al midollo, persino nella ragione sociale mutuata dal francese Jean Dubuffet, gli Art Brut si peritano di suonare rock ‘n’ roll nell’unico modo in cui ha senso farlo: divertendo e divertendosi. E così fanno anche in “Wham! Bang! Pow! Let’s Rock Out!”, copertina da jazzisti su Columbia e contenuto da new wavers su Virgin, tra il pop angelico di Veronica Falls, il glam da stadio (concerto, non partita) della title-track, il quadretto kinksiano di Good Morning Berlin e l’eccellente pastiche di She Kissed Me (And It Felt Like A Hit), che sorniona capovolge la hit di Phil Spector unendo Dictators e soul di marca Stax. Ce ne sarebbero altre otto su cui soffermarsi, ma non è giusto privare il lettore del piacere della scoperta, tanto più che non si va mai sopra i quattro minuti di durata e, forse, ma solo forse, anche questo è un brillante esempio di umorismo britannico. Dico solo che un disco il cui brano conclusivo contiene il distico “When they release the Blu-ray special edition of your life/ All the deleted scenes will prove you right” non può, non deve passare inosservato.

Ce lo chiede… già, chi ce lo chiede? Pete Shelley, forse. O forse Declan MacManus.

Ci tocca, lads.

Indie per cu(l)i. Un tumore ti devasta la vita, ma anche l’entropia non scherza.

Diceva Orson Welles che l’Italia conta oltre cinquanta milioni di attori, e i peggiori stanno sul palcoscenico. Non so se sia vero o meno, ma posso apportare sul punto la mia esperienza, in particolare di quando, nemmeno lontanamente ventenne, mi trovai ad assistere, in contesto carnascialesco, a un’esibizione dei Tre Allegri Ragazzi Morti e, facendo supplire a una non invidiabile distanza dal palco una sobrietà ormai inesistente, domandai loro tra un brano e l’altro, con voce tonante e calata vernacolare, se un’eventuale condotta sodomitica perpetrata nei loro confronti li avrebbe resi più allegri o più morti. Spacconerie alcoliche adolescenziali, ma pur sempre valide per confermare  oggi il giudizio, magari sbrigativo ma già allora fondato, sul trio pordenonese. Che, con l’ultima trovata pubblicitaria (della quale si può apprendere dalla foto di cui sopra o qui), è riuscito a smentire clamorosamente l’autore di “Quarto Potere” e, nel contempo, a svelare con massima chiarezza lo stato odierno della musica italiana che si fa vanto di galloni di autenticità, autonomia artistica e intellettuale nonché – tenetevi forte – indipendenza. In dipendenza. Indi pendenza.

E comunque li ringrazio, i Tre Allegri Ragazzi Morti, per avermi rivelato, a distanza di tutti questi anni, che la risposta allo spiazzante dilemma era: “più morti”.

Morti.

MoRTI.

Che poi sta per “Movimento di Rinnovamento del Teatro Italiano”.

O magari per “Mo’ RTI”.

‘cause I’m: “Hey Teen!”. Minimo annuario discopatico.

Esiste solo una cosa più da sfigati che comprare “Dookie” in CD nel 2018 e ben dopo aver compiuto i trent’anni: macchiarne il libretto con la zuppa di verdure. Surgelata.

È con questa consapevolezza che mi accingo a riferire pillole musicali dell’anno ormai trascorso, che ha visto meno lutti di quello andato (anche se Vinnie Paul…) ma anche meno dischi memorabili. D’altronde il ’18 è l’anno della vittoria, ed è fisiologico rilassarsi un po’. Dite di no, che non ci rilassiamo proprio per niente? Oh beh, peggio per voi: io ho “Dookie”. Sì, beh, quasi.

Auguri.

Dischi notabili

1. JUDAS PRIEST – FIREPOWER
Ne ho scritto a caldo qui e confermo tutto. Dal vivo a Firenze, poi, i pezzi nuovi non hanno per nulla sfigurato a fianco dei classici, e questo vorrà pur dire qualcosa. Col passare del tempo e degli ascolti il valore dell’album si è normalizzato, ma resta comunque la migliore uscita dei Priest dai tempi di “Painkiller”, confermando che proprio quando è data per spacciata la formazione inglese dà il meglio di sé. Il futuro è ignoto, ma un simile congedo discografico sarebbe un trionfo.

2. VISIGOTH – CONQUEROR’S OATH
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Del quintetto di Salt Lake City e del suo secondo LP non si dirà mai abbastanza bene: heavy metal epico in senso tradizionale, possente ma non troppo veloce, zeppo di cori pensati per infondere coraggio sul campo di battaglia e di fraseggi di chitarra armonizzati che allargano lo spazio come un coro in una cattedrale gotica, prodotto al meglio ma con in mente la tradizione (“si sente che anche il produttore era in cotta di maglia!“, l’immortale commento di un amico), non troppo lungo e sempre memorabile (anzi, quasi sempre, Salt City un boogie trascinante ma stilisticamente e tematicamente fuori luogo). Non a caso griffato Metal Blade. Se non il disco dell’anno, senz’altro nel Valhalla con i migliori.

3. LUCIFER – LUCIFER II
Qui

4. THE 16 EYES – LOOK
Qui

5. THE MORLOCKS – BRING ON THE MESMERIC CONDITION
Qui

6. THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA – SOMETIMES THE WORLD AIN’T ENOUGH
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Neanche dodici mesi dopo l’ultimo album (di questi tempi, converrete, fa notizia, se uno non si chiama Ty Segall), i cinque svedesi tornano con il quarto LP in sei anni, confermando l’ottimo stato di salute di cui godono. La struttura è la solita: apertura con un brano tirato di hard rock simil-Seventies; prosieguo con addolcimenti tastieristico-melodici; singolo effettivo o potenziale in terza-quinta posizione; dosaggi variabili degli ingredienti predetti fino al congedo, preferenzialmente affidato a una stesura articolata ed evocativa. Però funziona anche stavolta; rischiando qualcosa nell’aggiungere ulteriore patina medio-ottantiana a una formula collaudata ma riscuotendo appieno i profitti del rischio, e basti a conferma il solo lato A dei quattro: This Time straccia i Rainbow post-Dio al loro stesso gioco, Turn To Miami si regge sui chiaroscuri di indolenza sensuale e pericolo tropicale evocati già dal titolo, Paralyzed riscrive in melius gli anni Ottanta dei Doobie Brothers e la title-track è purissimo e scintillante AOR come non se n’è sentito quest’anno. Io continuo a preferire il precedente “Amber Galatic”, ma qui siamo al vertice del catalogo del gruppo e del genere; ammesso che sia uno solo. Il catalogo.

7. THE CREATION FACTORY – THE CREATION FACTORY
CREATIONFACTORY
Quest’anno le sonorità di area Sixties non hanno dato frutti migliori di questo quintetto californiano alla prima prova sulla lunga distanza, che, complice una ragione sociale inequivocabile, un’immagine filologicamente ineccepibile e una produzione manieristicamente perfetta, mette a segno una delle uscite di area più godibili del giro intorno al sole. Un Bignami, potremmo chiamarlo; perché c’è dentro molto di ciò che conta: i Beach Boys in You Be The Judge, i Rolling Stones in Girl You’re Out Of Time, i Kinks in I Don’t Know What To Do e Why Can’t You Make Up Your Mind, i Them in I Want To Be With You, i Creation in Without You, i Byrds in Spring Ain’t Gonna Let You Stay e i 13th Floor Elevator in Hallucination Generation. Il tutto filtrato attraverso la sensibilità della quarta generazione di revivalisti dei Sixties, che ha assimilato ciò che è accaduto medio tempore ma resta fermamente intenzionata a riportare in vita al meglio possibile l’aura quantomeno sonora del decennio principe del rock. Revival o meno, il risultato è eccellente per scrittura, esecuzione e resa. Non resta che ascoltare e sperare silenziosamente che il debutto non diventi anche la tomba dei Creation Factory.

8. GHOST – PREQUELLE
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Un perfetto esempio di somma paraculaggine musicale, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost. Lima le asperità del precedente e vincente “Meliora” con una carta di grana fina che chiama in causa gli anni Ottanta di Def Leppard e Savatage, ma anche ABBA e Pet Shop Boys, per imbastire un vero e proprio blockbuster, pensato per essere un “Trash” o un “Hey Stoopid!” del terzo millennio, e riuscendoci perfettamente. Il plauso è stato ampio ma non generale, e ognuna delle opinioni non è implausibile. Certo è che la prestazione dei musicisti e del cantante è ancora una volta superlativa. Certo è che la scrittura è stata raffinata ai massimi livelli. Certo è che l’immagine, ancora una volta reinventata dal diabolus ex machina Tobias Forge, funziona e affascina come prima più di prima. Certo è che un singolo incisivo come Dance Macabre il rock non lo sentiva da tempo. Certo è che i Ghost sono i principali candidati a fare da headliner ai festival estivi dei prossimi anni, quando i veterani via via si ritireranno. Certo è che “Prequelle” ce lo si gode. Last but not least per merito della produzione di Tom Dalgety, capace di tenere insieme arrangiamenti articolati ed esigenze commerciali odierne, e del missaggio di un veterano del calibro di Andy Wallace, che dosa sapientemente la densità dei singoli strati sonori, adagiandoli l’uno sull’altro fino a fonderli in un unicum pieno ed avvolgente. Un capolavoro di professionismo, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost.

9. TH’ LOSIN STREAKS – THIS BAND WILL SELF-DESTRUCT IN T-MINUS
th'losin streak - this band will self destruct in t minus
Dopo quattordici anni da un debutto, “Sounds Of Violence”, che aveva fatto sobbalzare non pochi adepti del più selvatico sound garagistico, i quattro di Sacramento sono infine tornati insieme nel 2010 e quest’anno, dopo un acclamato tour europeo, hanno messo insieme un secondo album, anch’esso edito per la solita Slovenly Records e anch’esso selvaggio e urgente come ci si poteva aspettare dalle Scie Perdenti. Ma “This Band…” non è un calco del suo predecessore, perché inietta nella formula di sgangherato rock ‘n’ roll del gruppo una vena distintamente danzereccia e un senso della melodia di matrice mod che, se a tratti smorzano il flusso di elettricità, nondimeno conferiscono all’album una sua identità in un panorama anch’esso ormai fattosi affollato. Lo si può definire freakbeat, merce non particolarmente frequente in terra americana, e se uno come Tim Warren si prodiga a definirlo il migliore inciso quest’anno ci si può accodare senza troppe remore. Ciò che conta, dopotutto, è che la scrittura si mantenga di livello per tutte le tredici tracce, e questo disco, forte dell’adrenalina fuzzosa di (This Man Will Self-Destruct In) T-Minus, dell’esuberanza mod di You Can’t Keep A Good Man Down, dei richiami ai Creation di Order Of The Day e di quelli ai Kinks di  Falling Rain, lo fa. Non perfetto ma potentissimo e sempre coinvolgente, il secondo album dei Th’ Losin Streaks svetta per la splendida copertina, senza dubbio la migliore dell’anno. Avercene, di band che si autodistruggeranno così bene.

10. THE MARCUS KING BAND – CAROLINA DREAMS
marcus king band - carolina confessionsTerzo LP e terzo centro per la formazione del chitarrista e cantante del South Carolina, che a ventidue anni dimostra un’abilità di scrittura e una padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi a dir poco sbalorditive. Ancora una volta tiene banco il Sud, principale serbatoio musicale americano e quindi inesauribile fonte di ispirazione per chi voglia mettersi dietro a un microfono con una chitarra in braccio. E the South does it again su “Carolina Confessions”, titolo che cita i sogni della Marshall Tucker Band (che però muoveva dal North Carolina) e scaletta parimenti da sogno con la partenza inarrivabile di Where I’m Headed, le acustiche degli Allman post-Fillmore che convivono sorridenti con i fiati di Otis Redding, e il prosieguo affidato al dramma di Goodbye Carolina, dove il country di Alan Jackson (Midnight In Montgomery) è trafitto al cuore da una slide carica di pathos come quella di Warren Haynes. E da qui in poi, tra il soul ancheggiante di Homesick, l’inchino ad Ike e Tina di How Long, il sofferto lirismo blues di Confessions e lo sterrato imboccato per fuggire da Memphis sulle note di Welcome ‘Round Here, niente è meno che meraviglioso. Un atto d’amore verso il southern rock che nulla ha di nostalgico o didascalico e molto, anzi tutto, di sincero e sentito. Probabilmente il disco dell’anno, e in ogni caso una plausibile ragione per ritenere migliore soffrire e trascorrere sotto un cielo blu a cinquanta stelle anziché sotto uno rosso a cinque.

Altre pillole di 2018
Immortal – All Shall Fall
: manca Abbath ma non conta nulla, perché è tornato Demonaz e i suoi riff thrasheggianti esaltano come non hanno potuto fare in questi years of silent sorrow. Non ci si crede che sia così consistente, eppure lo è; come il male, quello vero. Sento solo freddo, tanto freddo, fuori e dentro me.

Cranston – II: le parti strumentali di chitarra e tastiera sono in mano a Paul Sabu, uno che sa quello che fa. La voce, appartenente a tale Phil Vincent, sfoggia credibilmente un timbro ruvido e bluesy simile a quello che David Coverdale ha ormai perduto. Nel mezzo un valido esercizio di hard rock melodico, che bascula in zona hard blues ma non per questo disdegna l’AOR più virile. Uscita sottotono ma seconda a nessuno dei monicker più blasonati del genere.

Monstrosity – The Rise To Power
Una gradita sorpresa. Non che ci siano dubbi se ascoltare questo o “Millennium”, ma fa piacere saperli ancora vivi e ancora in forma, capaci di declinare il classico suono brutal death della Florida senza cadere negli opposti tranelli del revivalismo e dell’ultratecnicismo iperprodotto. Solo la morte resta uguale a se stessa, dopotutto. La morte, appunto.

Blackberry Smoke – Find A Light: I soliti grandiosi georgiani, leggermente più tirati a lucido di prima ma sempre a fuoco nella scrittura e nell’esecuzione. È legittimo preferire ciò che è venuto prima, ma i Blackberry Smoke restano il migliore gruppo southern rock al mondo (o magari il secondo, dopo la Marcus King Band).

L’altro 2018
The Feelies – Crazy Rhythms

Il primo vagito del college rock. Praticamente i Television risuonati dai R.E.M. con Maureen Tucker alla batteria, mentre i Weezer sbavano tra il pubblico. Forse il più sconosciuto classico del rock. Chissà perché, poi.

Greg Guidry – Over The Line
Chiamiamolo yacht rock ché va (ancora) di moda. Ma scritto bene, arrangiato meglio, eseguito a livelli stratosferici e prodotto come non si fa più. Il fatto che non sia reperibile in digitale se non da un paio d’anni scarsi dice chiaramente che non è un disco per tutti, ed è giusto e bene così.

Orchid – Capricorn
Per tanti è passato senza lasciare traccia, archiviato nell’affollata sezione di cloni dei Black Sabbath. A me ha lasciato un segno, e non so spiegare perché; forse perché condensa meglio di qualunque altro disco mi venga in mente il lato che preferisco di Iommi & co., quello della potenza poderosa e dell’impietosa ineluttabilità, e tanto mi basta a preferirlo negli ascolti a “Volume 4” e “Sabotage”, nientemeno. Sarà campanilismo zodiacale. Tenere un blog di musica mica è necessario, in effetti.

The Gruesomes – Gruesomania
Il migliore album garage di quelli non usciti negli anni Sessanta, e anche con quelli è battaglia serrata. Provateci voi ad ascoltarlo senza fare casino (rumore o altro).

Billy May –  Johnny Cool Soundtrack
Uscito nel 1963, “Johnny Cool” è un omaggio anni Sessanta alla stagione più feconda del noir, gli anni Cinquanta, e, nonostante il cast prestigioso e la regia solida, è poco più che il giusto intrattenimento per una serata qualunque. La colonna sonora, però, è opera di Billy May, uno dei più grandi arrangiatori dell’era swing e oltre, e ha quindi assunto una minuscola dimensione di culto per la sua capacità di affrescare vividamente le atmosfere stilose, minacciose ma invitanti, del noir con un precisissimo dosaggio dello spettro tonale e una padronanza somma della dinamica. Praticamente tutta strumentale (tranne la ballata finale, intonata da Sammy Davis Jr.) e affidata alla versatilità di una big band, questa colonna sonora è jazz per jazzofobi, noir per sorridenti, classe a buon mercato; non ne starei parlando, altrimenti. Ottimo il suono dell’edizione in CD su Ryko (l’unica etichetta che fa le jewel case verdi).

Damnatio memoriae
Incertum habeo
eccetera, quindi fate voi. Mi limito a rilevare che oggi, dopo tutti questi anni, ho finalmente capito perché quella volta al referendum ha vinto la repubblica: perché l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re. E comunque quest’epoca streamingzita fa schifo.

Chiunque pronunci la parola “imbecille” è certissimo di non esserlo: Sheet Mag – Need To Feel Your Love

sheer mag - need to feel your love

Venerdì sera ho suonato hardcore punk in uno spazio okkupato con indosso una maglietta effigiante la calvizie elettrica di Marinetti. Volevo vedere se il ’77 è passato davvero e la verifica ha dato esito inequivocabilmente positivo, se si deve giudicare dalla reazione piatta, o meglio la non-reazione, degli astanti, e resta tuttavia il dubbio se essa derivi da tolleranza, indifferenza o ignoranza. Ma, riguardando la questione da un altro punto di vista, la risposta al dubbio di cui sopra sarebbe di segno opposto, e sempre per fatti occorsi quella sera.

Poco tempo prima che cominciasse il concerto, avvistata in fondo alla sala una cesta contenente pochi dischi, mi recavo ad ispezionarne il contenuto. Scorrevo così la successione di 12″, disilluso e poco convinto che si potesse ivi celare qualcosa di diverso da mediocri proposte di hardcore punk, richieste dal tenore dalla serata e dall’aspetto del venditore e alle quali fin troppo spazio consento di occupare sugli scaffali. Nell’operazione mi imbattevo in una strana e oscura copertina, dai contorni granulosi e raffigurante un aereo in volo da un cielo nero verso l’unico sprazzo di schiarita, e con nell’angolo in alto a sinistra (visto che il Settantasette non è finito?) un logo puntuto di chiara ascendenza metallara. Strano reperto, in quel contesto anti-sistema e schierato anche esteticamente, eppure a suo modo accattivante, con quell’improbabile foto del gruppo sul retro, quattro capelloni dall’aria spostata attorno ad una corpulenta ragazza dalle sembianze nerd, il tutto in bianco e nero puntinato stile Roy Lichtenstein dei poveri. E poi quel nome mi diceva qualcosa, si richiamava a qualche lettura fatta tempo addietro chissà dove, magari in un sito di recensioni, o magari in qualche chat dei social in cui si scatena l’hype e si adegua la mission alla vision. La seconda, senza dubbio. Come che sia, mi facevo vincere dalla tentazione e dall’intuito e lasciavo nelle mani di colui che si scoprirà poi essere il chitarrista dei romani Education, quartetto dedito a un pregevole post-punk, ancora piuttosto punk ma già oltre quanto a ombrosità ed estetica (per sincerarsene ci si rechi qui), una cifra elevata per il contesto, ma non superiore al prezzo di vendita praticato mediamente nei negozi, in cambio di “Need To Feel Your Love” degli Sheer Mag ancora incellofanato, concedendomi persino il lusso di scialacquare i due euro residui in una birra per la Causa. LP griffato Toxic Shock Records senza uno straccio di anno di pubblicazione o di informazioni di sorta sul gruppo o l’etichetta, e il mistero fitto (in epoca di cyber-security, capirete, son soddisfazioni) stuzzicava ulteriormente la curiosità, e il manufatto doveva sopravvivere ai perigli usuali di simili contesti per riuscire infine a girare sotto la puntina, ad un’ora imprecisata del tardo mattino seguente. Colpendo già al primo ascolto, e la curiosità si rivelava allora ben riposta.

Il debutto sulla lunga distanza dei Sheer Mag, quintetto di Philadelphia, arriva nel 2017, dopo una serie di singoli, raccolti in un’omonima raccolta del 2016, e vede un gruppo maturo a livello compositivo nonostante la recente formazione, impiantato saldamente nei suoni tradizionali del rock ma deciso a rendere quella formula attuale, attualissima per corpi e soprattutto cervelli odierni. Scelta ribadita costantemente e anche nel contegno “impegnato ma non troppo”, del quale è esempio esplicativo la scelta di non munirsi di istromenti social. La rivoluzione deve venire da dentro, sembrano dire i nostri, ripartendo da ciò che ci lega gli uni agli altri uti singuli prima ancora che uti socii, e di qui il titolo del disco, ad un tempo preghiera e proclama per un mondo migliore. Che già il disco, pur con tutti i suoi limiti, riesce a realizzare, per quanto nelle sue possibilità ontologiche.

Ascoltare “Need To Feel Your Love” è come sintonizzarsi su una radio FM dell’America di metà anni Settanta, in cui il formato aor (non ancora genere musicale) consente di passare brani di durata non stereotipata e playlist stilisticamente variegateE lo è vieppiù in ragione della produzione, volutamente lo-fi e garagistica pur in un contesto che richiederebbe rifiniture e dettagli. Ma si tratta di una scelta che ha la sua coerenza, per così dire, politica, perché mossa dalla consapevolezza che l’ascolto di quelle stazioni radio avveniva su sgangherati apparecchi dai minuscoli e gracchianti altoparlanti, magari collocati in ambienti rumorosi, e dunque per arrivare alla massa occorre calarsi nel suo modus operandi, arrivando persino a comprenderne la fisiologica frammentazione in fazioni che fra loro si guardano in cagnesco e tentando di ricompattarle verso l’obiettivo comune del rock ‘n’ roll sorretto da ideali. Operazione che non ha nulla di filologico, prefiggendosi piuttosto una riedizione per contesto contemporaneo di quello spirito di esplorazione che allignava nella creatività musicale del tempo; tentativo senz’altro complesso e non privo di contraddizioni e tuttavia lodevole per lo sforzo di recuperare una dimensione di identificazione collettiva quantomeno sul piano sonoro.

Dicevamo che sembra di ascoltare una radio you essay di metà anni Settanta attraverso un apparecchio nihon di metà anni Settanta, e la scaletta non lascia delusi in tal senso, ché sembra di voltare pagina ad ogni brano, perché l’apertura con il boogie ad alto voltaggio di Meet Me In The Street chiama in causa Thin Lizzy e AC/DC, ma già dalla seguente Need To Feel Your Love sembra di stare in un disco di Dionne Warwick, e se Just Can’t Get Enough è un mosso power pop di eccellente fattura la cui paternità non sarebbe strano ricondurre a Paul Collins e Expect The Bayonet l’hit che i Blondie non scrivono da ormai troppo tempo, Rank And File spinge come se alla chitarra ci fosse il Mick Ronson dei tempi d’oro e Turn It Up è hard rock tagliato con l’accetta e maleducato come si deve. E siamo solo al lato A; il verso, se pure simile per eclettismo e leggermente calante in qualità, offre comunque spunti notevoli: la gita al Sud a base di intrecci di chitarre e ritmi saltellanti di Suffer Me, la disco con gusto stile Re del Pop di Pure Desire, il boogie sbarazzino e agrodolce di Can’t Play It Cool e, a chiudere, una sorniona rosa bianca metaforicamente deposta sul memoriale di Sophie Scholl. Una bella lezione di indipendenza di giudizio (cos’è l’eclettismo, dopotutto?), integrità ideologica  e tolleranza in poco più di quarantadue minuti. Più hardcore di così ci sono solo dischi brutti.

P.S.: le principali recensioni del disco disponibili online, soprattutto quelle in inglese, insistono sul fatto che gli Sheer Mag riescono a riabilitare moralmente l’hard rock degli anni Settanta, preservandone la forza d’urto ma annullandone il sessismo. A discorsi del genere la critica mainstream non è nuova (ad esempio, nei tardi anni Novanta altrettanto potere taumaturgico era riconosciuto agli Smashing Pumpkins) e, scambiando la causa con l’effetto, dimostra come il politically correct abbia ormai avvelenato quasi completamente il senso critico, anche in chi per lavoro dovrebbe dimostrarsi abile e aduso a storicizzare. Peccato. Nella speranza, pur flebile, che si tratti di intenzioni preterintenzionali, passiamo oltre e godiamoci il disco. I dischi.

Anno ucciso, uomo lagno. Il 2017 musicale di Note in Lettere.

Disclaimer: questo articolo è stato scritto usando un computer fabbricato da lavoratori sfruttati.

Il 2017 non è stato un granché come anno. Anzi, ad essere esatti, lo si può qualificare come un bel disastro. Non tanto sul piano personale, dove pure gli argomenti in tal senso non mancherebbero, quanto su quello musicale, ben più rilevante. Vi risparmio i necrologi, anche se a scorrere la lista c’è da sbalordire ogni volta: Chuck Berry, Allan Holdsworth, Chris Cornell, Gregg Allman, Fats Domino, Tom Petty, Grant Hart, Walter Becker, Al Jarreau, Butch Trucks, Clyde Stubblefield, Martin Eric Sin, Geoff Nicholls, Robert Dahlqvist, Charles Bradley, e da ultimo Malcolm Young. Solo per citare i più noti e più cari. Neanche profondendo sforzi per ucciderli sarebbe stato possibile ottenere una simile lista di lutti. Aveva ragione il Reverendo Gary Davis, veggente come tutti ciechi: la morte è impietosa su questa terra. E non va mai in vacanza. Quindi, come sempre impotenti di fronte al Grande Viaggio, non ci resta che salutare coloro che si sono incamminati e onorarne la memoria attraverso la coltivazione del lascito terreno, sulla cui consistenza fanno fede i nomi, prima ancora che le biografie e le opere.

Venendo, invece, ai vivi, il 2017 non si è rivelato significativamente elevato nelle uscite discografiche, anche se ciò non impedisce di ricadere una volta di più nell’ozioso giochino della sommatoria qualitativa degli ascolti. Anzi, tale circostanza è forse uno stimolo ulteriore al solito passatempo. Ecco, dunque, l’esito musicale dell’anno (quasi) trascorso secondo chi scrive. Come sempre, le scelte indicate sono numerate per ragioni d’ordine estetico dell’esposizione, senza che la collocazione numerica implichi giudizio di valore rispetto agli altri dischi inclusi. Sono ben gradite le selezioni dei lettori, a com(pleta)mento della presente. Ove mancanti, se ne parlerà a voce, qui o di là. Auguri a tutti.

Dischi notabili

1. Flamin’ Grooves – Fantastic Plastic
Qui.

2. Styx – The Mission
Ne avevo scritto qui, e con gli ascolti non è diminuito in consistenza e piacevolezza. Il pensiero di definire così un album degli Styx mi lascia stupefatto tuttora, ma è giusto rendere onore al merito. Che su Marte l’umanità ammari o meno, noi siamo a posto, quantomeno per i prossimi trentadue anni.

3. Rolling Stones – On Air In The Sixties
Rolling Stones - On Air
Contrariamente alle loro ultime uscite, di carattere esclusivamente speculativo, questo doppio, che raccoglie le incisioni per diversi programmi della BBC tra 1963 e 1965, ha un notevole valore documentale e non è di interesse solo archivistico-completistico, perché fa infine luce in maniera adeguata e professionale (le incisioni, in precedenza reperibili su svariati bootleg dalla resa fonica limitata, sono state ripulite negli studi di Abbey Road con un’innovativa tecnologia che consente di separare dal master tape le singole tracce per un nuovo missaggio delle stesse, sostanzialmente riportando l’incisione alla fase di produzione) sul periodo decisivo delle Pietre Rotolanti, quello in cui, sotto la guida di Brian Jones, azzannavano il blues di Chicago e il rock ‘n’ roll con l’ingordigia e la sicumera di imberbi giovincelli, dimostrando la forza di tali forme espressive ad un mondo, e soprattutto ad un’America, che ottusamente negava loro dignità a cagione del tasso di melanina che le aveva originate. E nulla rende al meglio tale decisivo passaggio musicale, culturale e sociale della viva energia di queste esibizioni live, istantanea del Novecento significativa ancorché negletta perlopiù. Il repertorio consta essenzialmente di riletture di (non ancora) classici del blues e del rhythm & blues, ma anche le rare puntate nel repertorio autografo, che allora muoveva i primi passi, (la graffiante zampata di Satisfaction e la dinoccolata spavalderia di The Spider And The Fly), dimostrano che si era di fronte a una formazione destinata a lasciare il segno (una malignità, ma significativa: quando, pigiato il tasto “Play”, parte Come On, chiudendo gli occhi sembra di trovarsi al cospetto dei Chesterfield Kings). Se oggi è immorale, o semplicemente folle, spendere cifre a due zeri per assistere ad un’esibizione della world’s oldest rock ‘n’ roll band, altrettanto lo sarebbe scansare questa eccezionale e ben più economica spiegazione del perché ci si vede domandare cifre ad almeno due zeri.

4. Hüsker Dü – Savage Young Dü
husker du - savage young du
Ancora una ricapitolazione di inizi, ma addirittura in triplice CD. Stavolta occasionata dalla dipartita del batterista e cantante Grant Hart, ma resa nondimeno doverosa dalla latitanza di materiale d’archivio del trio di Minneapolis. Oggetto di recupero è il periodo iniziale della formazione, quello che va dal primo demo del maggio 1979 (otto pezzi, qui raccolti) al 1983, anno di pubblicazione di “Metal Circus” e definitivo salto di qualità nella scrittura e nella carriera discografica. Nel mezzo, bozzetti di brani in fieri elaborati durante le prove, esibizioni dal vivo, outtake di studio, lati B di singoli. La ricca messe di materiale (quasi settanta tracce) non consente di ricapitolarlo tutto analiticamente, ma per comodità lo si può scindere in tre parti: il capitolo demo, molto più eclettico di quanto vorrebbe la vulgata secondo cui i primi Hüsker Dü suonano hardcore punk a velocità supersonica senza badare a sottigliezze e melodie, ché ci si imbatte invece nell’influenza tanto del ’77 (Nuclear Nightmare) quanto dei Sixties (Can’t See You Anymore è già jangle pop); il capitolo dal vivo, che ripulisce la resa fonica del materiale già udito sul debutto “Land Speed Record” pur conservandone la forza d’urto, confermando l’appartenza del gruppo al fenomeno hardcore; il capitolo sessioni di studio, che vede la formazione sperimentare tra passato (le bordate di Afraid Of Being Wrong e Punch Drunk, puramente e schiettamente hardcore) e futuro (la rilettura nervosa di Sunshine Superman di Donovan e Everything Falls Apart, che fotografano il passaggio al nuovo corso). Ciò che ne esce è la ricostruzione di una delle formazioni più creative e originali del rock americano degli anni Ottanta che esplora le sue capacità espressive, dimostrandole spiccate già in esordio ed affinandole a rapide falcate. These important years.

5. Filthy Friends – Invitation
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Restando in tema di underground americano, questo quintetto, formato nel 2012 e poi nuovamente in attività dal 2016, vede a fare compagnia a Corin Tucker, chitarrista e cantante delle Sleater Kinney, nientemeno che Peter Buck, Kurt Bloch dei Fastback, Scott McCaughey (ex Minus-5 e R.E.M.) e Bill Rieflin (già nei King Crimson e nella touring band dei R.E.M.), con anche una comparsata di Krist Novoselic al basso. Visti i galloni alternative della formazione, e il suo atteggiarsi a “supergruppo” nello stile del più pomposo passato del rock, fa sorridere che il loro unico LP abbia visto la luce per l’etichetta Kill Rock Stars!, ma tant’è. Polemiche a parte, se “Infestation” fosse uscito negli anni Ottanta o primi Novanta, se ne parlerebbe ancora adesso come uno dei migliori album del circuito indipendente a stelle e strisce. Merito di canzoni che non si fanno imbrigliare stilisticamente né cedono al desiderio di distinguersi da tutti in forza di ideologie stilistiche preconcette: i tempi sono cambiati, la discografia è crollata e ognuno è libero di proporre qualsiasi cosa. I cinque, musicisti maturi, lo hanno capito e ne hanno fatto il loro punto di forza. E così, dopo l’apertura con il singolo Despierta, che echeggia a dodici corde per poi impennarsi elettricamente, ecco le carte mischiarsi in maniera sorprendente: il glam da arena di Windmill a fianco del pop acustico ma crespo di Faded Afternoon; una Any Kind Of Crowd che sorprende non sentir intonare da Michael Stipe giustapposta alla quasi-kissiana The Arrival; il garage-punk ortodosso di No Forgotten Son armonizzato con una Brother che sembrano i Muse capitanati da Debbie Harry; l’eccitazione power pop di You And Your King per nulla antitetica al delizioso congedo della title-track, che swinga districandosi tra certo jazz acustico e Macca il baronetto. Scrittura di livello altissimo, integrità artistica preservata, accessibilità massima: al tempo una cosa così non l’avrebbero tentata nemmeno i Replacements o i Meat Puppets. La vera meraviglia discografica del rock datato 2017.

6. Pretty Boy Floyd – Public Enemies
pretty boy floyd - public enemies
Non so chi tra i lettori abbia mai visto una foto della formazione dei Pretty Boy Floyd al tempo del suo massimo successo. Nel caso, eccone qui una. Il tutto ha un indubitabile potere respingente, ma, se solo uno abbia voglia di andare oltre l’apparenza (operazione complessa in casi, come questo, di apparenza sostanzializzata) e fermarsi a capire come la proposta musicale del quartetto sia sopravvissuta a mode e rivolgimenti in maniera essenzialmente inalterata, l’ascolto del nuovo disco dei Pretty Boy Floyd, riesumati da un silenzio discografico settennale ad opera della nostrana Frontiers, sembrerà la dimostrazione che, volendolo, è possibile fermare il tempo. Una dimostrazione delle più riuscite e divertenti, peraltro. Guardate la copertina: logo con lettering sottratto agli Iron Maiden e l’immancabile O che racchiude il pentacolo, alla foggia dei Mötley Crüe del periodo ’83 – ’85; e poi un disegno con pipistrelli, scheletro, armi e simboli mortifero-esoterico-complottistici sullo sfondo di una Gotham City da cartone animato. E tutto questo prima ancora di avere ascoltato una sola nota. Se uomini sui cinquant’anni spediscono sul mercato un prodotto del genere, convinti delle sue possibilità di affermazione commerciale, il buono dev’esserci necessariamente. E c’è, infatti: nella sospensione temporale. Anche qui, prima ancora di ascoltare una nota, basta leggere i titoli: High School Queen, Girls All Over The World, Do Ya Wanna Rock, American Dream, Run For Your Life, Shock The World. Non è nemmeno parodia, è proprio convinzione; come di cosa? Che sia ancora il 1988! Quando le chitarre erano fluo e il Muro non quello al confine col Messico. Che poi le canzoni siano pezzi di chewing glam metal tra i più gustosi mai consumati, senza per questo svelarsi come un tentativo di ricostruzione filologica (voglio dire, c’è persino una power ballad intitolata We Can’t Bring Back Yesterday!), resta irrilevante. Se credete che sia in atto una ripresa economica, comprate questo disco.

7. H.E.A.T – Into The Great Unknown
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Ancora non mi faccio persuaso (cit.), ma in qualche modo funziona. Il singolo era terrificante, un inconcludente papocchio di rock moderno senza appigli melodici di rilievo o potenza sonora veruna. L’album, però, in qualche modo regge, nuovamente orientato verso quell’hard rock duro e puro che la formazione svedese ha deciso di praticare a partire dal precedente “Tearin’ Down The Walls” ma ancor più copioso in Watt e grida. Non che questo significhi un’abdicazione dai doveri compositivi, e valga in tal senso la conclusiva title-track, però è innegabile che il motore non gira più liscio come in passato. Per il momento la cosa è tenuta sotto controllo, e quindi godiamoci il disco (che comunque resiste a plurimi ascolti), ma il futuro è ignoto, giustappunto.

8. Cannibal Corpse – Red Before Black
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Svariati recensori e i suoi stessi autori l’hanno definito “catchy“, e se non è strano appioppare un simile aggettivo ad un album dei Cannibal Corpse non so cosa lo sia. Eppure la definizione ha senso, perché in questi solchi (anche il CD ne ha, dopotutto), pur non distaccandocisi dall’usuale formula stilistica, si trovano alcuni dei riff più densi di groove apparecchiati dai cinque americani nell’arco di una carriera quasi trentennale, a tratti vicini a certe soluzioni thrash eppure sempre inconfondibilmente uguali a se stessi. Difficile segnalare un pezzo che si elevi dalla mischia di sangue, frattaglie, growl vocale e ritmi ora velocissimi ora schiacciasassi, ma l’ascolto d’insieme è fluido e piacevole, spingendo una volta di più a giocarsi le vertebre cervicali per il puro gusto di farlo. Nota di merito alla produzione, che sottolinea la potenza definendo i suoni senza per questo cadere in inutili eccessi tecnologici. Ennesima conferma della qualità eccezionale del più famoso gruppo death metal in attività.

9. The Night Flight Orchestra – Amber Galactic
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Sembra impensabile che qualcosa del genere provenga dai principali compositori dei Soilwork, il cantante Björn Strid e il chitarrista David Andersson, peraltro in combutta con il bassista Sharlee D’Angelo, anche lui forte di un pedigree metallico di tutto rispetto (King Diamond, Mercyful Fate, Spiritual Beggars, Arch Enemy). Eppure il side-project in questione è arrivato al decimo anno di attività e al terzo LP, nel corso del tempo incontrando il favore di un gigante discografico come la Nuclear Blast, solitamente poco avvezza a queste sonorità. Che sono quelle delle radio di fine Settanta e inizio Ottanta, rock melodico che non disdegna moderate escursioni progressive e stilettate chitarristiche senza per questo dimenticare le esigenze del grande pubblico in termini di melodia e ballabilità. Il risultato sono undici pezzi deliziosamente démodé, tra Toto, Alan Parsons Project, Electric Light Orchestra, Journey, Foreigner e tutto il resto che sapete o potete immaginare. Si è detto ripetutamente che la Svezia ha una marcia in più quando si parla di melodie; ebbene, “Amber Galactic” non fa mai eccezione alla regola, e sul punto valgano esemplificativamente Gemini, preclaro esempio di smash hit single nel 1984 di una dimensione parallela, e una Domino che nella predetta dimensione ha fatto ricchi Giorgio Moroder, Harold Faltermeyer e Kenny Loggins. Il riciclo musicale di quella stagione raramente ha dato frutti migliori.

10. L.A. Guns – The Missing Piece
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Mi ero ripromesso di evitare di inserire in questa lista troppi dischi di hard rock anni Ottanta, di quelli fatti da gente avvezza alla pubblicità ingannevole in forma di cerone e pantaloni attillati con i calzini arrotolati dentro il pacco. La verità è che non ci riesco, che il grigiore di un’epoca (interiore ed esteriore) di disfacimento e transizione come la presente mi sembra contrastabile unicamente con manifestazioni estetiche corrusche e animate da una joie de vivre autodistruttiva e irresponsabile ma nondimeno tale. E tanto (poco) mi basta. Resta che il nuovo disco degli L.A. Guns, il primo che vede insieme dopo decenni lo storico cantante Phil Lewis e il chitarrista fondatore Tracii Guns (pur in una risibile situazione di coesistenza di due diversi gruppi omonimi, questo e quello capitanato dal batterista storico Steve Riley assieme a un pugno di carneadi; situazione che accomuna diverse realtà della scena del Sunset Strip, tra cui i Great White, e che, oltre ad ingrassare avvocati e promoter, disvela latenti problemi egotici e/o finanziari dei musicisti), è indiscutibilmente un disco di hard rock stradaiolo come non se ne fanno da tempo, un saggio della materia vergato con un’ispirazione stupefacente (vabbè…) per dei veterani. Anzi, la stupefazione si incrementa con l’ascolto, che disvela soluzioni compositive variegate, inusitate per questa sigla, senza sacrificare l’impatto complessivo: se l’iniziale It’s All The Same To Me già da subito alza i livelli di deboscia e quanto segue nulla fa per ridurre l’aria viziosa, l’atipica ballata Christine, il lento semi-blues The Flood’s The Fault Of The Rain (probabilmente sarò l’unico al mondo a sentirci un’assonanza con Roof With A Hole dei Meat Puppets), una title-track che con giusto una patina di modernità in più potrebbe essere un successo degli Stone Sour e gli articolati cinque minuti della conclusiva Gave It All Away sembrano il parto di un’altra band. Magari una migliore, ma per adesso va più che bene così. Ritorno tanto inatteso quanto sorprendente in qualità.

Altre pillole di 2017
Duel – Witchbanger
: texani che rifanno i Black Sabbath. Suoni analogici, riff scontati, voce al bourbon, groove da vendere. Duri e ottusi come il guscio di un armadillo.

Morbid Angel – Kingdoms Disdained: death metal americano che gorgoglia e bestemmia dal centro dell’universo, come solo deve fare. Di nuovo nessuna pietà. Per fortuna.

Marilyn Manson – Heaven Upside Down: meno riff blues e più atmosfere elettroniche e suoni metal, ma la sostanza c’è. Era meglio “The Pale Emperor”, ma il Reverendo è tornato per restare.

Don Barnes – Ride The Storm: inciso nel 1989 dal cantante dei .38 Special con fior di turnisti e lasciato a prender polvere sino a quest’anno. AOR vecchia scuola come non se ne sente più, a tratti (la title-track) memorabile come le cose migliori dell’epoca.

Target – In Range: come sopra, solo che l’anno era il ’79. Notabile per la voce magnifica di Jimi Jamison, a quel punto già giunta a maturazione timbrica. Per il resto un passabile southern rock che persegue le sue ambizioni radiofoniche flirtando con l’hard rock, così riflettendo la crisi del genere nel dopo ’77.

Steve Earle & The Dukes – So You Wanna Be An Outlaw: Una garanzia. Rock che sovente varca la Frontiera e si lorda della polvere della prateria; ma anche country che una volta ogni tanto si concede una serata in città. La conclusiva epopea western di Goodbye Michelangelo è toccante come non mai.

The Jesus And Mary Chain – Damage And Joy: c’è molto mestiere, ma la vena compositiva non si è esaurita. E, al solito, l’abito pop, sintetico ma anche acustico, dona proprio. Chiamiamolo Brit pop evoluto.

Gregg Allman – Southern Blood: in apertura è posto l’unico brano autografo, My Only True Friend, toccante testamento in forma di ballata al profumo di soul, che si apprezza vieppiù alla luce del supremum exitum. Il resto sono cover, nove, che spaziano da Tim Buckley ai Grateful Dead, da Willie Dixon ai Little Feat, da Bob Dylan a Jackson Browne (qui chiamato a duettare con Allman nella conclusiva Song For Adam), e si muovono in ambito più folk del solito, forse perché per il blues non c’è più tempo. Un congedo postumo con un sorriso, una carezza e una ritirata in punta di piedi, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.

L’altro 2017
Perché, ormai lo sappiamo, è il 2017 solo se ci credi.

Judas Priest – Jugulator
In occasione del ventennale l’ho rispolverato, scoprendolo più valido di quanto lo ricordassi e di quanto lo si è sempre fatto passare, forse per lo smarrimento di tutti i gruppi di heavy metal classico negli anni Novanta e senz’altro per la difficoltà a concepire i Priest senza Rob Halford. In realtà “Jugulator” è figlio legittimo del suo tempo, i suoni un concentrato di compressione al fine di incrementare lo spessore e i riff interamente pensati per creare il massimo groove possibile pur restando in velocità media, secondo lo schema portato al successo dai Pantera, ma la scrittura è solida e la voce di Ripper Owens non fa mancare nulla in termini di tecnica, aggressività ed espressività. Peccato solo per le intro e le outro che affliggono quasi ogni brano, aggiungendo a ciascuno almeno un minuto di troppo; in loro assenza, staremmo parlando del miglior album dei Judas Priest da “Painkiller”.

The Keys – The Keys Album
Incredibile scoperta casuale, ma di quelle destinate a durare. Perché l’omonimo LP del quartetto inglese, pubblicato nel 1981, è forse (ma forse neanche tanto forse) il miglior album di power pop di sempre. Prodotto da Joe Jackson, uscito su A&M, “The Keys Album” vedeva i Keys cesellare melodie meravigliose su chitarre cristalline e ritmi frizzanti, aggiungendovi strepitose armonizzazioni vocali, con un amore malcelato per il primigenio rock ‘n’ roll e la British Invasion ma un orecchio parimenti attento a ciò che accadeva nell’Inghilterra coeva, alle prese con new wave e rockabilly revival. E così Hello Hello è il singolo per cui i Cheap Trick degli anni ’80 avrebbero fatto carte false e One Good Reason tiene incredibilmente insieme Stray Cats e Wham! distillando il meglio da entrambe. E così il singolo I Don’t Wanna Cry si qualifica nientemeno come uno dei due o tre migliori pezzi power pop di tutti i tempi e la conclusiva World Ain’t Turning, stilisticamente vicina ai Plimsouls, non è tanto da meno. E così If It’s Not Too Much continua la tradizione di vestire Buddy Holly e Ricky Nelson della miglior sartoria britannica e Back To Black fa mostra di eco chitarristico e verve ritmica tipicamente rockabilly. E così fino alla fine, ossia finché si è costretti a ripartire da capo. La disgrazia, però, è che il disco non è mai stato ristampato e non ne esiste una versione digitale ufficiale, cosicché tocca o rivolgersi al mercato dell’usato, dove è difficile cavarsela con cifre contenute, o sfruttare il buon cuore di taluni utenti del solito sito dei video, a cui vi rimando. Imperdibile per chiunque.

Blue Ash – No More No Less
Altro classico del power pop, stavolta conclamato, ancorché di nicchia come il genere po(p)stula. Con questo debutto del 1973 il quartetto dell’Ohio intendeva alimentare la fiamma accesa dai Raspberries e dai Badfinger riportando in auge valori compositivi dei primi Sessanta. Con risultati artisticamente egregi ma di raggio limitato, visto che la penuria di vendite portava la Mercury a scaricare il gruppo già nel ’74, lasciandolo senza contratto per tre anni, fino ad un LP per l’etichetta di Playboy (!), ovviamente invenduto (il dico), e allo scioglimento nel 1979. Ma “No More No Less” resta una strepitosa istantanea della prima stagione power pop, quella più di tutte alle prese con l’alchemica individuazione dell’equilibrio tra armonia ed energia; spesso nella stessa canzone, come certifica in apertura Abracadabra (Have You Seen Her?), singolo esemplare, mentre le due cover in scaletta, Dusty Old Fairgrounds di Bob Dylan e Anytime At All di Beatles, fissano le coordinate stilistiche di riferimento, con giusto una punta di country in più. Nel mezzo, dieci pezzi autografi che avrebbero meritato miglior fortuna. Né più, né meno, per l’appunto.

The Bellrays – Black Lighting
Abbandonate le slabbrature punk degli esordi, gli ultimi Bellrays hanno abbracciato un suono pieno e a tratti quasi hard, senza per questo dimenticare chi sono e da dove vengono. Fermo che dal vivo sono insuperabili per quasi chiunque, “Black Lightning”, uscito nel 2011, ne è la prova: dieci pezzi, trenta minuti scarsi e una scarica emotiva che oscilla tra gli estremi di cui si compone il titolo, tra i muri chitarristici di Bob Vennum e gli affreschi vocali di Lisa Kekaula, tra la potenza di fuoco punk ‘n’ roll (la title-track, roba da far verdi d’invidia i Backyard Babies; Hell On Earth, punk allo spasimo; Everybody Get Up, machismo sonoro dal ritornello spietato) e una pur esuberante melanconia soul (Sun Comes Down è puro sound Hitsville U.S.A., la conclusiva Sun Comes Down legittimamente potrebbe essere griffata Motown, mentre nel mezzo Anymore è una lettera di congedo dalla vita con pochi equivalenti sul piano emozionale), tra l’anima black e la tempesta di fulmini. Difficile starne lontani, una volta scoperto.

Damnatio memoriae
Annihilator – For The Demented

Nomen omen.

Andergraund Saund 5

NEW CANDYS – BLEEDING MAGENTA

new candys - bleeding magenta

Di realtà interessanti nel sottobosco musicale nazionale ce ne sono svariate, e dunque portarle all’attenzione dei lettori è solo questione di disporre del tempo necessario per scovarle, sviscerarle e scriverne. Ma quando all’orizzonte si palesa una scoperta, inattesa quanto folgorante, poterne far propaganda è un piacere prima ancora che un dovere morale. Per chi vi scrive, i New Candys sono questa scoperta.

Quartetto veneziano attivo dal 2008 e con un paio di singoli, un EP e due LP all’attivo, i New Candys si muovono nel variegato universo sonoro del rock indipendente con sicurezza e molto talento, e non è un caso se la loro mistura di Jesus And Mary Chain, shoegaze, grunge, Velvet Underground e certa psichedelia di ascendenza britannica (qualcuno, a ragione, ci sente i Black Rebel Motorcycle Club) ha attirato l’attenzione di una prestigiosa etichetta del settore come la londinese Fuzz Club. Proprio per i tipi di quest’ultima, infatti, ha visto la luce, il 6 ottobre scorso, “Bleeding Magenta”, terzo album e definitiva consacrazione della formazione. Non bastasse la stilosa copertina, in uno tenera e inquietante, le undici tracce che compongono il disco dimostrano una piena maturità compositiva e una totale padronanza strumentale, in cui i referenti sonori sopra citati sono amalgamati in maniera personale e, soprattutto, accattivante: le melodie non difettano mai, gli arrangiamenti fanno ottimo governo dell’alternanza dinamica e favoriscono la differenziazione dei brani, la produzione (opera del Fox Studio di Andrea Volpato) sottolinea ove necessario senza per questo comprimere la gamma dinamica e la resa fonica complessiva. Il risultato è un disco che avvolge l’ascoltatore in spire oniriche, trascinandolo in introspezioni qui dolci e là ruvide, ora torpide ora chiazzate di magenta color del rumore. E non se ne ha mai abbastanza.

Dire che è incredibile (massì, stupefacente) scoprire di avere un gruppo della qualità dei New Candys sotto casa senza che ce ne sia accorti prima (degli altri) è molto probabilmente banale, ma anche indicativo del torpore e del livellamento al ribasso tipici della contemporaneità. Qui si può evitare di commettere lo stesso errore per il futuro.