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Il 2017 non è stato un granché come anno. Anzi, ad essere esatti, lo si può qualificare come un bel disastro. Non tanto sul piano personale, dove pure gli argomenti in tal senso non mancherebbero, quanto su quello musicale, ben più rilevante. Vi risparmio i necrologi, anche se a scorrere la lista c’è da sbalordire ogni volta: Chuck Berry, Allan Holdsworth, Chris Cornell, Gregg Allman, Fats Domino, Tom Petty, Grant Hart, Walter Becker, Al Jarreau, Butch Trucks, Clyde Stubblefield, Martin Eric Sin, Geoff Nicholls, Robert Dahlqvist, Charles Bradley, e da ultimo Malcolm Young. Solo per citare i più noti e più cari. Neanche profondendo sforzi per ucciderli sarebbe stato possibile ottenere una simile lista di lutti. Aveva ragione il Reverendo Gary Davis, veggente come tutti ciechi: la morte è impietosa su questa terra. E non va mai in vacanza. Quindi, come sempre impotenti di fronte al Grande Viaggio, non ci resta che salutare coloro che si sono incamminati e onorarne la memoria attraverso la coltivazione del lascito terreno, sulla cui consistenza fanno fede i nomi, prima ancora che le biografie e le opere.
Venendo, invece, ai vivi, il 2017 non si è rivelato significativamente elevato nelle uscite discografiche, anche se ciò non impedisce di ricadere una volta di più nell’ozioso giochino della sommatoria qualitativa degli ascolti. Anzi, tale circostanza è forse uno stimolo ulteriore al solito passatempo. Ecco, dunque, l’esito musicale dell’anno (quasi) trascorso secondo chi scrive. Come sempre, le scelte indicate sono numerate per ragioni d’ordine estetico dell’esposizione, senza che la collocazione numerica implichi giudizio di valore rispetto agli altri dischi inclusi. Sono ben gradite le selezioni dei lettori, a com(pleta)mento della presente. Ove mancanti, se ne parlerà a voce, qui o di là. Auguri a tutti.
Dischi notabili
1. Flamin’ Grooves – Fantastic Plastic
Qui.
2. Styx – The Mission
Ne avevo scritto qui, e con gli ascolti non è diminuito in consistenza e piacevolezza. Il pensiero di definire così un album degli Styx mi lascia stupefatto tuttora, ma è giusto rendere onore al merito. Che su Marte l’umanità ammari o meno, noi siamo a posto, quantomeno per i prossimi trentadue anni.
3. Rolling Stones – On Air In The Sixties

Contrariamente alle loro ultime uscite, di carattere esclusivamente speculativo, questo doppio, che raccoglie le incisioni per diversi programmi della BBC tra 1963 e 1965, ha un notevole valore documentale e non è di interesse solo archivistico-completistico, perché fa infine luce in maniera adeguata e professionale (le incisioni, in precedenza reperibili su svariati bootleg dalla resa fonica limitata, sono state ripulite negli studi di Abbey Road con un’innovativa tecnologia che consente di separare dal master tape le singole tracce per un nuovo missaggio delle stesse, sostanzialmente riportando l’incisione alla fase di produzione) sul periodo decisivo delle Pietre Rotolanti, quello in cui, sotto la guida di Brian Jones, azzannavano il blues di Chicago e il rock ‘n’ roll con l’ingordigia e la sicumera di imberbi giovincelli, dimostrando la forza di tali forme espressive ad un mondo, e soprattutto ad un’America, che ottusamente negava loro dignità a cagione del tasso di melanina che le aveva originate. E nulla rende al meglio tale decisivo passaggio musicale, culturale e sociale della viva energia di queste esibizioni live, istantanea del Novecento significativa ancorché negletta perlopiù. Il repertorio consta essenzialmente di riletture di (non ancora) classici del blues e del rhythm & blues, ma anche le rare puntate nel repertorio autografo, che allora muoveva i primi passi, (la graffiante zampata di Satisfaction e la dinoccolata spavalderia di The Spider And The Fly), dimostrano che si era di fronte a una formazione destinata a lasciare il segno (una malignità, ma significativa: quando, pigiato il tasto “Play”, parte Come On, chiudendo gli occhi sembra di trovarsi al cospetto dei Chesterfield Kings). Se oggi è immorale, o semplicemente folle, spendere cifre a due zeri per assistere ad un’esibizione della world’s oldest rock ‘n’ roll band, altrettanto lo sarebbe scansare questa eccezionale e ben più economica spiegazione del perché ci si vede domandare cifre ad almeno due zeri.
4. Hüsker Dü – Savage Young Dü

Ancora una ricapitolazione di inizi, ma addirittura in triplice CD. Stavolta occasionata dalla dipartita del batterista e cantante Grant Hart, ma resa nondimeno doverosa dalla latitanza di materiale d’archivio del trio di Minneapolis. Oggetto di recupero è il periodo iniziale della formazione, quello che va dal primo demo del maggio 1979 (otto pezzi, qui raccolti) al 1983, anno di pubblicazione di “Metal Circus” e definitivo salto di qualità nella scrittura e nella carriera discografica. Nel mezzo, bozzetti di brani in fieri elaborati durante le prove, esibizioni dal vivo, outtake di studio, lati B di singoli. La ricca messe di materiale (quasi settanta tracce) non consente di ricapitolarlo tutto analiticamente, ma per comodità lo si può scindere in tre parti: il capitolo demo, molto più eclettico di quanto vorrebbe la vulgata secondo cui i primi Hüsker Dü suonano hardcore punk a velocità supersonica senza badare a sottigliezze e melodie, ché ci si imbatte invece nell’influenza tanto del ’77 (Nuclear Nightmare) quanto dei Sixties (Can’t See You Anymore è già jangle pop); il capitolo dal vivo, che ripulisce la resa fonica del materiale già udito sul debutto “Land Speed Record” pur conservandone la forza d’urto, confermando l’appartenza del gruppo al fenomeno hardcore; il capitolo sessioni di studio, che vede la formazione sperimentare tra passato (le bordate di Afraid Of Being Wrong e Punch Drunk, puramente e schiettamente hardcore) e futuro (la rilettura nervosa di Sunshine Superman di Donovan e Everything Falls Apart, che fotografano il passaggio al nuovo corso). Ciò che ne esce è la ricostruzione di una delle formazioni più creative e originali del rock americano degli anni Ottanta che esplora le sue capacità espressive, dimostrandole spiccate già in esordio ed affinandole a rapide falcate. These important years.
5. Filthy Friends – Invitation

Restando in tema di underground americano, questo quintetto, formato nel 2012 e poi nuovamente in attività dal 2016, vede a fare compagnia a Corin Tucker, chitarrista e cantante delle Sleater Kinney, nientemeno che Peter Buck, Kurt Bloch dei Fastback, Scott McCaughey (ex Minus-5 e R.E.M.) e Bill Rieflin (già nei King Crimson e nella touring band dei R.E.M.), con anche una comparsata di Krist Novoselic al basso. Visti i galloni alternative della formazione, e il suo atteggiarsi a “supergruppo” nello stile del più pomposo passato del rock, fa sorridere che il loro unico LP abbia visto la luce per l’etichetta Kill Rock Stars!, ma tant’è. Polemiche a parte, se “Infestation” fosse uscito negli anni Ottanta o primi Novanta, se ne parlerebbe ancora adesso come uno dei migliori album del circuito indipendente a stelle e strisce. Merito di canzoni che non si fanno imbrigliare stilisticamente né cedono al desiderio di distinguersi da tutti in forza di ideologie stilistiche preconcette: i tempi sono cambiati, la discografia è crollata e ognuno è libero di proporre qualsiasi cosa. I cinque, musicisti maturi, lo hanno capito e ne hanno fatto il loro punto di forza. E così, dopo l’apertura con il singolo Despierta, che echeggia a dodici corde per poi impennarsi elettricamente, ecco le carte mischiarsi in maniera sorprendente: il glam da arena di Windmill a fianco del pop acustico ma crespo di Faded Afternoon; una Any Kind Of Crowd che sorprende non sentir intonare da Michael Stipe giustapposta alla quasi-kissiana The Arrival; il garage-punk ortodosso di No Forgotten Son armonizzato con una Brother che sembrano i Muse capitanati da Debbie Harry; l’eccitazione power pop di You And Your King per nulla antitetica al delizioso congedo della title-track, che swinga districandosi tra certo jazz acustico e Macca il baronetto. Scrittura di livello altissimo, integrità artistica preservata, accessibilità massima: al tempo una cosa così non l’avrebbero tentata nemmeno i Replacements o i Meat Puppets. La vera meraviglia discografica del rock datato 2017.
6. Pretty Boy Floyd – Public Enemies

Non so chi tra i lettori abbia mai visto una foto della formazione dei Pretty Boy Floyd al tempo del suo massimo successo. Nel caso, eccone qui una. Il tutto ha un indubitabile potere respingente, ma, se solo uno abbia voglia di andare oltre l’apparenza (operazione complessa in casi, come questo, di apparenza sostanzializzata) e fermarsi a capire come la proposta musicale del quartetto sia sopravvissuta a mode e rivolgimenti in maniera essenzialmente inalterata, l’ascolto del nuovo disco dei Pretty Boy Floyd, riesumati da un silenzio discografico settennale ad opera della nostrana Frontiers, sembrerà la dimostrazione che, volendolo, è possibile fermare il tempo. Una dimostrazione delle più riuscite e divertenti, peraltro. Guardate la copertina: logo con lettering sottratto agli Iron Maiden e l’immancabile O che racchiude il pentacolo, alla foggia dei Mötley Crüe del periodo ’83 – ’85; e poi un disegno con pipistrelli, scheletro, armi e simboli mortifero-esoterico-complottistici sullo sfondo di una Gotham City da cartone animato. E tutto questo prima ancora di avere ascoltato una sola nota. Se uomini sui cinquant’anni spediscono sul mercato un prodotto del genere, convinti delle sue possibilità di affermazione commerciale, il buono dev’esserci necessariamente. E c’è, infatti: nella sospensione temporale. Anche qui, prima ancora di ascoltare una nota, basta leggere i titoli: High School Queen, Girls All Over The World, Do Ya Wanna Rock, American Dream, Run For Your Life, Shock The World. Non è nemmeno parodia, è proprio convinzione; come di cosa? Che sia ancora il 1988! Quando le chitarre erano fluo e il Muro non quello al confine col Messico. Che poi le canzoni siano pezzi di chewing glam metal tra i più gustosi mai consumati, senza per questo svelarsi come un tentativo di ricostruzione filologica (voglio dire, c’è persino una power ballad intitolata We Can’t Bring Back Yesterday!), resta irrilevante. Se credete che sia in atto una ripresa economica, comprate questo disco.
7. H.E.A.T – Into The Great Unknown

Ancora non mi faccio persuaso (cit.), ma in qualche modo funziona. Il singolo era terrificante, un inconcludente papocchio di rock moderno senza appigli melodici di rilievo o potenza sonora veruna. L’album, però, in qualche modo regge, nuovamente orientato verso quell’hard rock duro e puro che la formazione svedese ha deciso di praticare a partire dal precedente “Tearin’ Down The Walls” ma ancor più copioso in Watt e grida. Non che questo significhi un’abdicazione dai doveri compositivi, e valga in tal senso la conclusiva title-track, però è innegabile che il motore non gira più liscio come in passato. Per il momento la cosa è tenuta sotto controllo, e quindi godiamoci il disco (che comunque resiste a plurimi ascolti), ma il futuro è ignoto, giustappunto.
8. Cannibal Corpse – Red Before Black

Svariati recensori e i suoi stessi autori l’hanno definito “catchy“, e se non è strano appioppare un simile aggettivo ad un album dei Cannibal Corpse non so cosa lo sia. Eppure la definizione ha senso, perché in questi solchi (anche il CD ne ha, dopotutto), pur non distaccandocisi dall’usuale formula stilistica, si trovano alcuni dei riff più densi di groove apparecchiati dai cinque americani nell’arco di una carriera quasi trentennale, a tratti vicini a certe soluzioni thrash eppure sempre inconfondibilmente uguali a se stessi. Difficile segnalare un pezzo che si elevi dalla mischia di sangue, frattaglie, growl vocale e ritmi ora velocissimi ora schiacciasassi, ma l’ascolto d’insieme è fluido e piacevole, spingendo una volta di più a giocarsi le vertebre cervicali per il puro gusto di farlo. Nota di merito alla produzione, che sottolinea la potenza definendo i suoni senza per questo cadere in inutili eccessi tecnologici. Ennesima conferma della qualità eccezionale del più famoso gruppo death metal in attività.
9. The Night Flight Orchestra – Amber Galactic

Sembra impensabile che qualcosa del genere provenga dai principali compositori dei Soilwork, il cantante Björn Strid e il chitarrista David Andersson, peraltro in combutta con il bassista Sharlee D’Angelo, anche lui forte di un pedigree metallico di tutto rispetto (King Diamond, Mercyful Fate, Spiritual Beggars, Arch Enemy). Eppure il side-project in questione è arrivato al decimo anno di attività e al terzo LP, nel corso del tempo incontrando il favore di un gigante discografico come la Nuclear Blast, solitamente poco avvezza a queste sonorità. Che sono quelle delle radio di fine Settanta e inizio Ottanta, rock melodico che non disdegna moderate escursioni progressive e stilettate chitarristiche senza per questo dimenticare le esigenze del grande pubblico in termini di melodia e ballabilità. Il risultato sono undici pezzi deliziosamente démodé, tra Toto, Alan Parsons Project, Electric Light Orchestra, Journey, Foreigner e tutto il resto che sapete o potete immaginare. Si è detto ripetutamente che la Svezia ha una marcia in più quando si parla di melodie; ebbene, “Amber Galactic” non fa mai eccezione alla regola, e sul punto valgano esemplificativamente Gemini, preclaro esempio di smash hit single nel 1984 di una dimensione parallela, e una Domino che nella predetta dimensione ha fatto ricchi Giorgio Moroder, Harold Faltermeyer e Kenny Loggins. Il riciclo musicale di quella stagione raramente ha dato frutti migliori.
10. L.A. Guns – The Missing Piece

Mi ero ripromesso di evitare di inserire in questa lista troppi dischi di hard rock anni Ottanta, di quelli fatti da gente avvezza alla pubblicità ingannevole in forma di cerone e pantaloni attillati con i calzini arrotolati dentro il pacco. La verità è che non ci riesco, che il grigiore di un’epoca (interiore ed esteriore) di disfacimento e transizione come la presente mi sembra contrastabile unicamente con manifestazioni estetiche corrusche e animate da una joie de vivre autodistruttiva e irresponsabile ma nondimeno tale. E tanto (poco) mi basta. Resta che il nuovo disco degli L.A. Guns, il primo che vede insieme dopo decenni lo storico cantante Phil Lewis e il chitarrista fondatore Tracii Guns (pur in una risibile situazione di coesistenza di due diversi gruppi omonimi, questo e quello capitanato dal batterista storico Steve Riley assieme a un pugno di carneadi; situazione che accomuna diverse realtà della scena del Sunset Strip, tra cui i Great White, e che, oltre ad ingrassare avvocati e promoter, disvela latenti problemi egotici e/o finanziari dei musicisti), è indiscutibilmente un disco di hard rock stradaiolo come non se ne fanno da tempo, un saggio della materia vergato con un’ispirazione stupefacente (vabbè…) per dei veterani. Anzi, la stupefazione si incrementa con l’ascolto, che disvela soluzioni compositive variegate, inusitate per questa sigla, senza sacrificare l’impatto complessivo: se l’iniziale It’s All The Same To Me già da subito alza i livelli di deboscia e quanto segue nulla fa per ridurre l’aria viziosa, l’atipica ballata Christine, il lento semi-blues The Flood’s The Fault Of The Rain (probabilmente sarò l’unico al mondo a sentirci un’assonanza con Roof With A Hole dei Meat Puppets), una title-track che con giusto una patina di modernità in più potrebbe essere un successo degli Stone Sour e gli articolati cinque minuti della conclusiva Gave It All Away sembrano il parto di un’altra band. Magari una migliore, ma per adesso va più che bene così. Ritorno tanto inatteso quanto sorprendente in qualità.
Altre pillole di 2017
Duel – Witchbanger: texani che rifanno i Black Sabbath. Suoni analogici, riff scontati, voce al bourbon, groove da vendere. Duri e ottusi come il guscio di un armadillo.
Morbid Angel – Kingdoms Disdained: death metal americano che gorgoglia e bestemmia dal centro dell’universo, come solo deve fare. Di nuovo nessuna pietà. Per fortuna.
Marilyn Manson – Heaven Upside Down: meno riff blues e più atmosfere elettroniche e suoni metal, ma la sostanza c’è. Era meglio “The Pale Emperor”, ma il Reverendo è tornato per restare.
Don Barnes – Ride The Storm: inciso nel 1989 dal cantante dei .38 Special con fior di turnisti e lasciato a prender polvere sino a quest’anno. AOR vecchia scuola come non se ne sente più, a tratti (la title-track) memorabile come le cose migliori dell’epoca.
Target – In Range: come sopra, solo che l’anno era il ’79. Notabile per la voce magnifica di Jimi Jamison, a quel punto già giunta a maturazione timbrica. Per il resto un passabile southern rock che persegue le sue ambizioni radiofoniche flirtando con l’hard rock, così riflettendo la crisi del genere nel dopo ’77.
Steve Earle & The Dukes – So You Wanna Be An Outlaw: Una garanzia. Rock che sovente varca la Frontiera e si lorda della polvere della prateria; ma anche country che una volta ogni tanto si concede una serata in città. La conclusiva epopea western di Goodbye Michelangelo è toccante come non mai.
The Jesus And Mary Chain – Damage And Joy: c’è molto mestiere, ma la vena compositiva non si è esaurita. E, al solito, l’abito pop, sintetico ma anche acustico, dona proprio. Chiamiamolo Brit pop evoluto.
Gregg Allman – Southern Blood: in apertura è posto l’unico brano autografo, My Only True Friend, toccante testamento in forma di ballata al profumo di soul, che si apprezza vieppiù alla luce del supremum exitum. Il resto sono cover, nove, che spaziano da Tim Buckley ai Grateful Dead, da Willie Dixon ai Little Feat, da Bob Dylan a Jackson Browne (qui chiamato a duettare con Allman nella conclusiva Song For Adam), e si muovono in ambito più folk del solito, forse perché per il blues non c’è più tempo. Un congedo postumo con un sorriso, una carezza e una ritirata in punta di piedi, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
L’altro 2017
Perché, ormai lo sappiamo, è il 2017 solo se ci credi.
Judas Priest – Jugulator
In occasione del ventennale l’ho rispolverato, scoprendolo più valido di quanto lo ricordassi e di quanto lo si è sempre fatto passare, forse per lo smarrimento di tutti i gruppi di heavy metal classico negli anni Novanta e senz’altro per la difficoltà a concepire i Priest senza Rob Halford. In realtà “Jugulator” è figlio legittimo del suo tempo, i suoni un concentrato di compressione al fine di incrementare lo spessore e i riff interamente pensati per creare il massimo groove possibile pur restando in velocità media, secondo lo schema portato al successo dai Pantera, ma la scrittura è solida e la voce di Ripper Owens non fa mancare nulla in termini di tecnica, aggressività ed espressività. Peccato solo per le intro e le outro che affliggono quasi ogni brano, aggiungendo a ciascuno almeno un minuto di troppo; in loro assenza, staremmo parlando del miglior album dei Judas Priest da “Painkiller”.
The Keys – The Keys Album
Incredibile scoperta casuale, ma di quelle destinate a durare. Perché l’omonimo LP del quartetto inglese, pubblicato nel 1981, è forse (ma forse neanche tanto forse) il miglior album di power pop di sempre. Prodotto da Joe Jackson, uscito su A&M, “The Keys Album” vedeva i Keys cesellare melodie meravigliose su chitarre cristalline e ritmi frizzanti, aggiungendovi strepitose armonizzazioni vocali, con un amore malcelato per il primigenio rock ‘n’ roll e la British Invasion ma un orecchio parimenti attento a ciò che accadeva nell’Inghilterra coeva, alle prese con new wave e rockabilly revival. E così Hello Hello è il singolo per cui i Cheap Trick degli anni ’80 avrebbero fatto carte false e One Good Reason tiene incredibilmente insieme Stray Cats e Wham! distillando il meglio da entrambe. E così il singolo I Don’t Wanna Cry si qualifica nientemeno come uno dei due o tre migliori pezzi power pop di tutti i tempi e la conclusiva World Ain’t Turning, stilisticamente vicina ai Plimsouls, non è tanto da meno. E così If It’s Not Too Much continua la tradizione di vestire Buddy Holly e Ricky Nelson della miglior sartoria britannica e Back To Black fa mostra di eco chitarristico e verve ritmica tipicamente rockabilly. E così fino alla fine, ossia finché si è costretti a ripartire da capo. La disgrazia, però, è che il disco non è mai stato ristampato e non ne esiste una versione digitale ufficiale, cosicché tocca o rivolgersi al mercato dell’usato, dove è difficile cavarsela con cifre contenute, o sfruttare il buon cuore di taluni utenti del solito sito dei video, a cui vi rimando. Imperdibile per chiunque.
Blue Ash – No More No Less
Altro classico del power pop, stavolta conclamato, ancorché di nicchia come il genere po(p)stula. Con questo debutto del 1973 il quartetto dell’Ohio intendeva alimentare la fiamma accesa dai Raspberries e dai Badfinger riportando in auge valori compositivi dei primi Sessanta. Con risultati artisticamente egregi ma di raggio limitato, visto che la penuria di vendite portava la Mercury a scaricare il gruppo già nel ’74, lasciandolo senza contratto per tre anni, fino ad un LP per l’etichetta di Playboy (!), ovviamente invenduto (il dico), e allo scioglimento nel 1979. Ma “No More No Less” resta una strepitosa istantanea della prima stagione power pop, quella più di tutte alle prese con l’alchemica individuazione dell’equilibrio tra armonia ed energia; spesso nella stessa canzone, come certifica in apertura Abracadabra (Have You Seen Her?), singolo esemplare, mentre le due cover in scaletta, Dusty Old Fairgrounds di Bob Dylan e Anytime At All di Beatles, fissano le coordinate stilistiche di riferimento, con giusto una punta di country in più. Nel mezzo, dieci pezzi autografi che avrebbero meritato miglior fortuna. Né più, né meno, per l’appunto.
The Bellrays – Black Lighting
Abbandonate le slabbrature punk degli esordi, gli ultimi Bellrays hanno abbracciato un suono pieno e a tratti quasi hard, senza per questo dimenticare chi sono e da dove vengono. Fermo che dal vivo sono insuperabili per quasi chiunque, “Black Lightning”, uscito nel 2011, ne è la prova: dieci pezzi, trenta minuti scarsi e una scarica emotiva che oscilla tra gli estremi di cui si compone il titolo, tra i muri chitarristici di Bob Vennum e gli affreschi vocali di Lisa Kekaula, tra la potenza di fuoco punk ‘n’ roll (la title-track, roba da far verdi d’invidia i Backyard Babies; Hell On Earth, punk allo spasimo; Everybody Get Up, machismo sonoro dal ritornello spietato) e una pur esuberante melanconia soul (Sun Comes Down è puro sound Hitsville U.S.A., la conclusiva Sun Comes Down legittimamente potrebbe essere griffata Motown, mentre nel mezzo Anymore è una lettera di congedo dalla vita con pochi equivalenti sul piano emozionale), tra l’anima black e la tempesta di fulmini. Difficile starne lontani, una volta scoperto.
Damnatio memoriae
Annihilator – For The Demented
Nomen omen.