Where were you in ’22?

Un breve resoconto delle uscite discografiche ritenute interessanti di un anno non esaltante dal punto di vista musicale (e magari neanche da altri), al punto che il picco è probabilmente costituito dal concerto dei Gruesomes, il primo in terra italica, il 2 luglio scorso al Festival Beat (mentre il nadir dalla perdita del Rock The Castle per isolamento pandemico). Parafrasando i Barracudas, e nondimeno restando nel plausibile, I wish it could be 2021 again. Buoni ascolti e auguri.

Hellacopters – Eyes Of Oblivion

Difficile immaginare un rientro discografico dei ‘copters dopo la prolungata reunion solo concertistica del 2016, e invece Nicke Royale e compagnia hanno trovato l’ispirazione per entrare in studio e affidare al nastro dieci brani che fanno il punto sulla carriera del gruppo, inseriti nel presente retrò del rock ma non dimentichi dei trascorsi n’ roll della gioventù. Ovviamente il grosso della farina compositiva viene dal sacco del leader, che, oltre a cantare e suonare la chitarra, produce e si cimenta anche col basso (scelta curiosa, considerato che dal vivo le quattro corde sono affidate a Sami Yaffa o a Dolf DeBorst), ma il piacere dei quattro di riprendere da dove avevano lasciato con rinnovati entusiasmo e ispirazione, soffermandosi anche su qualche riflessione che la maturità quantomeno anagrafica e le conseguenti traversie della vita inevitabilmente impongono, è palpabile nelle rispettive prestazioni strumentali. Il risultato è, ancora una volta, una lezione di rocchenroll fatto come si deve, il culo a Stoccolma e il cuore a Detroit. Col passare del tempo, a onor del vero, la scrittura di Nicke si è fatta più pacata (sul lento soul di So Sorry I Could Die, dedicata all’ex chitarrista Robert Dahlqvist, morto suicida nel 2017, si trattiene a stento la commozione), ma non per questo ha perduto smalto melodico e impatto eccitante, e questi trentaquattro minuti che scivolano via con la massima naturalezza ne sono la migliore dimostrazione. Un ritorno pienamente soddisfacente, del quale è saggio preferire l’edizione speciale, che all’album aggiunge l’EP di cover “Through The Eyes Of The Hellacopters”, dove vengono rilette, al solito con impeccabili eclettismo e personalità, Eleanor Rigby, Circus degli String Driven Thing, I Am The Hunted dei GBH e I Ain’t No Miracle Worker dei Brogues. Avercene.

Skid Row – The Gang’s All Here

A proposito di ritorni, quello discografico degli Skid Row ha colto un po’ tutti di sorpresa, per la presenza dell’ex H.E.A.T Erik Grönwall alla voce in sostituzione dell’ex Dragonforce ZP Theart ma soprattutto per la qualità del nuovo album, uscito a metà ottobre e subito proiettato sul podio dei dischi migliori del gruppo del New Jersey. Merito della nuova linfa portata dal cantante svedese ma soprattutto di un lotto di canzoni che recupera gli elementi migliori della carriera del gruppo, dalla strafottenza beffarda del debutto (The Gang’s All Here, Not Dead Yet, When The Lights Come On) all’assalto strutturato di “Slave To The Grind” (Hell Or High Water, World On Fire), senza dimenticare le reminiscenze (post-)grunge del prosieguo della carriera (Time Bomb, Nowhere Fast). Mancano le ballate, ridotte alla sola October’s Song, progressiva e dal sapore vagamente bonjoviano, ma, visto il breve minutaggio dell’album (neanche 42 minuti), non c’è veramente tempo di rendersene conto, come pure dell’occasionale passaggio meno riuscito che qui e lì l’album palesa. Un disco compatto e ben riuscito, al quale la produzione di Nick Raskulinecz (Foo Fighters, Ash, Stone Sour) conferisce una sostanza e una compattezza che è lecito pensare sarebbero mancate in assenza di un produttore. Chissà che sempre più musicisti si avvedano dell’importanza di tale figura, e possano quindi pubblicare dischi come questo, ossia conferme del loro ottimo stato di forma musicale; conferma che gli Skid Row hanno saputo dare e che, evidentemente, il pubblico ha compreso e apprezzato, se è vero che alla Feltrinelli di Galleria Vittorio Emanuele II il disco era esaurito il giorno stesso della pubblicazione.

Ibibio Sound Machine – Electricity

Elettronica ballabile con atmosfere afrofuturiste, incrementate dal cantato spesso in ibibio, una delle lingue nigeriane. Messa così sembra un’accozzaglia senza costrutto di idee, e invece il quarto album del settetto londinese centra pienamente il bersaglio offrendo disco militante (Protection From Evil) e tenerezze in punta di synth (Afo Ken Doko Mien), singoli spaccapista (17, 18, 19) e sinuoso afrobeat (Something We’ll Remember), house canonica (Wanna See Your Face Again) e spiritual robotici (Freedom). Eclettico e ben strutturato, “Electricity” promette e mantiene. Una delle sorprese dell’anno.

Panic! At The Disco – Viva Las Vengeance

In una copertina di rara insulsaggine si nasconde una golosità pop, proprio come in un imballaggio anonimo si può celare un regalo bramato. “Viva Las Vengeance” è un disco di citazioni del rock cosiddetto classico già dal titolo, ma questo gioco di rimandi serve ad incrementare la meravigliosa caratura melodica e la varietà dell’album: il ritornello della lenta ma non troppo Don’t Let The Light Go Out si rifà astutamente ai Foreigner più melensi, Local God è puro power pop filtrato dall’approccio nerdy di ascendenza Weezer, Star Spangled Banger omaggia apertamente i Thin Lizzy e il glam più innodico, God Killed Rock And Roll e Something About Maggie si inchinano ai Queen, Sugar Soaker evoca AC/DC e T. Rex. Messa così sembra un disco citazionista e passatista, ma la cifra personale di Brendon Urie, unico vero titolare della ragione sociale, emerge prepotente nella scrittura (si vedano i testi, punteggiati di arguzie) e nel cantato, conferendo coesione e smalto a dodici brani composti, arrangiati, suonati e prodotti impeccabilmente. È difficile dire se sia pop-rock o rock-pop, ma resta comunque una gioia per le orecchie. Resta, soprattutto.

Maule – Maule

Ennesimo prodotto di alto livello in ambito heavy metal proveniente dal Canada, il debutto dei Maule, quintetto di Vancouver con tre chitarre in formazione, allinea un metallo tradizionale, debitore dei nomi classici della scuola inglese e di quella locale (con qualche passaggio thrash, pescato comunque dalle versioni più moderne del genere; si ascolti Father Time) ma composto e suonato con intelligenza e gusto. In nove brani privi di cedimenti si segnalano la proposta vocale, melodica senza lesinare in aggressività, e soprattutto gli assoli di chitarra, di grande perizia tecnica senza sacrificare la melodia e l’ancillarità al brano, e si fanno apprezzare anche le frequenti e ben calibrate armonizzazioni chitarristiche e le occasionali accelerazioni sancite dalla doppia cassa della batteria. In un panorama spesso stantio, i Maule sono riusciti a trovare una loro voce ed esprimerla in maniera convincente, complice anche una produzione curata ma non patinata, che avrebbe potuto uccidere l’impatto sonoro immediato che questo genere richiede. È presto per dire cosa riserva loro il futuro, ma questo esordio pone i migliori auspici.

Chez Kane – Powerzone

Fresca di debutto con l’omonimo album uscito a marzo 2021, la cantante gallese Chez Kane, già in forza ai Kane’d, ripete l’esperimento solista con “Powerzone”, uscito a fine ottobre di quest’anno. Squadra che vince non si cambia, e dunque riecco Danny Rexon degli svedesi Crazy Lixx in veste di compositore e autore di tutte le parti strumentali, alle prese con un sound ancora più sfacciatamente indebitato con l’AOR più classico, quello del periodo aureo di metà anni Ottanta, come peraltro denunciato dalla (simpatica) copertina. E il risultato, pur nel suo evidente manierismo, non delude, grazie alla qualità di scrittura e all’entusiasmo degli esecutori, cosicché, tra una I Just Want You che omaggia al meglio gli Heart del periodo di massimo successo, quelli tra “Heart” e “Brigade”, una Rock You Up scanzonatamente leppardiana ancorché non pienamente riuscita, una sprintata Love Gone Wild filologicamente animata dal sassofono e che nondimeno cita nel ritornello Crazy Train di Ozzy Osbourne, una Children Of Tomorrow Gone che ipotizza i Dare con Bonnie Tyler alla voce e gli oltre otto minuti della conclusiva Guilty Of Love, titolo che richiama gli Whitesnake ma suoni da qualche parte tra “Too Hot To Sleep” e “Raised On Radio” e ottima chiusura a base di chitarra solista, il disco si regge saldamente sulle sue gambe, dando una ulteriore ragion d’essere alla carriera di Chez Kane. Forse il predecessore era più costante e avvantaggiato dall’effetto novità, ma preferire l’uno o l’altro album è una questione di gusti. Un disco indubbiamente piacevole e una nuova conferma per Frontiers.

D’Virgilio, Morse, Jennings – Troika

Questo disco formalizza la collaborazione tra alcuni dei musicisti più in vista del progressive contemporaneo, Nick D’Virgilio (Big Big Train, Spock’s Beard), Neal Morse e Ross Jennings (Haken, Novena) con undici brani intessuti di preziose melodie e di sofisticati intrecci vocali tra i tre protagonisti. Le atmosfere si rincorrono, spaziando, spesso all’interno dello stesso brano, tra l’etereo e il giocoso, l’acustico e l’elettrico, il romantico (Julia) e il perentorio (Second Hand Sons), e sempre con un occhio di riguardo alle canzoni e alle loro esigenze, senza inutili farciture strumentali. Poco meno di un’ora di musica e nessun cedimento. Commovente dalla prima all’ultima nota (soprattutto l’ultima; ascoltare What You Leave Behind per credere). Crosby, Stills & Nash hanno i loro degni eredi; forse.

Young Guv – GUV III

Settimo album in sei anni per Ben Cook, in arte Young Gov, quattro dei quali usciti a coppia e con titoli sequenziali, “I” e “II” nel 2019 e “III” e “IV” quest’anno. Complice, probabilmente, l’ispirazione più o meno forzata da confinamento antipandemico, e bisogna allora dire che tutto è bene quel che finisce bene, perché “III” trasuda del miglior power pop che si possa udire oggigiorno, undici brani che non lesinano in chitarre scampanellanti e armonie vocali, con la necessaria dose di malinconia celata dietro ritmi briosi e, soprattutto, melodie folgoranti. Che sia un jingle jangle d’eccezione come la Couldn’t Leave U If I Tried (mi sbilancio: un instant classic del genere) o una Only Wanna See U Tonight che avrebbe reso i Raspberries orgogliosi, una outtake di “The Masterplan” come Scam Likely o il pacato esercizio post-scarafaggesco April Of My Life, una ariosa It’s Only Dancin’ che potrebbe provenire dall’unico, immacolato LP dei Someloves oppure i Byrds su telaio R.E.M. di una trasognata quanto favolosa Good Time, “III” brilla dalla prima all’ultima nota, celeste e luminoso come i petali dell’occhio in copertina. Uno squarcio di cielo di un azzurro intenso, reso vivo da una luce solare calda e che riscalda corpi e anime; e, come nella migliore tradizione power pop, una promessa che il di poco successivo “IV” (uscito a giugno, laddove “III” era di marzo), più melanconico e britannico, non ha saputo mantenere integralmente. Peccato, ma non è un buon motivo per perdersi una gioia come “III”.

Blind Illusion – Wrath Of The Gods

In un anno avaro di thrash metal memorabile si segnala un rientro in scena inatteso, quello dei californiani Blind Illusion, prime movers della scena della Bay Area ma giunti al debutto solo nel 1988 (“The Sane Asylum”, un caposaldo del techno-thrash) e ricordati principalmente per avere annoverato in formazione Larry Lalonde (ex Possessed e futuro Primus) e Les Claypool (anch’egli futuro Primus), dopo essersi persi nei rivoli di numerosi cambi di formazione, che hanno impedito loro la necessaria continuità. La sigla rivive quindi ad opera del fondatore e leader Marc Biedermann, cantante e chitarrista, che ha riunito attorno a sé due veterani di grande caratura, il chitarrista Doug Piercy (ex Heathen) e il batterista Andy Galeon (ex Death Angel), e uno sconosciuto ma capace bassista, Tom Gears, per un nuovo capitolo discografico, uscito a ottobre a titolo “Wrath Of The Gods”. Album di thrash tecnico e tuttavia accessibile, forse perché basato prevalentemente su tempi medi e su una particolare cura nella composizione dei riff, che rende più interessante l’ascolto e più memorabili i brani, pure mediamente lunghi, senza pregiudicare l’impatto sonoro. Ottima l’apertura con Straight As The Crowbar Flies, che sembra estratta dal repertorio dei Megadeth più progressivi, ma anche le seguenti Slow Death, vicina a certi Overkill, e la melodica Protomolecule mantengono alto il livello, con i loro molteplici cambi di tempo, i riff efficaci e le parti soliste che aggiungono dettagli ai brani senza appesantirli. Da dimenticare, però, la conclusiva No Rest Till Budapest, uno scialbo esercizio di hard rock malriuscito e fuori posto, che avrebbe potuto essere utilmente espunto per contenere il minutaggio (che comunque non supera i sessanta minuti). Se la copertina non brilla, la produzione viceversa si segnala, definita ma non plasticosa e inondata di trigger come spesso accade nelle odierne uscite metal, per un risultato finale che dimostra pulizia e definizione sonora (fondamentali per una proposta musicale di questo tipo) senza sacrificare l’impatto. Una gradita sorpresa che ha prodotto un ascolto valido anche per i mesi a venire, perlomeno fino a quando perdurerà l’Ira degli Dei.

The Maharajas – Rock n’ Roll Graduates

È uscito il giorno di Natale, e non ne ho ancora ascoltato una sola nota. Perché l’ho ordinato sulla fiducia, e per ascoltarlo aspetto che arrivi il disco. Quindi è sulla fiducia che viene inserito in questa lista, soprattutto dopo aver visto e sentito questo. Dottori del buso del cool.

Monophonics – Sage Motel

Soul classicamente inteso, quello che promana dal quinto album dei californiani Monophonics, adagiato sul lato più psichedelico del genere e derivazione diretta di quel suono spazioso eppure emotivo costruito a cavallo tra i Sessanta e i primi Settanta da gente del calibro di Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Delfonics, Temptations, Isaac Hayes. “Sage Motel” dovrebbe narrare la storia di un motel californiano meta di sbandati e creativi, musicali e non, negli anni Sessanta e Settanta; luogo dell’anima più che del corpo, essendo il motel fittizio, ma comunque funzionale a confezionare, in una bella copertina di atmosfera surrealista-metafisica, dieci riuscitissimi brani di dondolante soul psichedelico, sospinto gentilmente dal falsetto emozionante di Kelly Finnigan, nonché punteggiato da armonie vocali (Sage Motel) o confidenziali ottoni (Crash & Burn) o glasse di archi (Never Stop Saying These Words). Il tutto mentre una sezione ritmica ora pigra ora compatta e variegate sfumature tastieristiche disegnano nuove traiettorie del gioco della seduzione dilatando gli spazi della coscienza, forti di una produzione impeccabile nella definizione e nella dinamica. C’è spazio per qualche episodio più ritmato, in odor di funk (Warpaint, Love You Better), ma il clima è prevalentemente rilassato e a tratti languidamente pensoso. 37 minuti e 20 (compresi intro e outro) e nemmeno uno di troppo: la vacanza migliore, a tratti indimenticabile (Broken Boundaries e il suo ritornello), è quella trascorsa al Sage Motel.

L’altro 2022

Candy – Whatever Happened To Fun

Un titolo curioso per un disco inciso nella Los Angeles di metà anni Ottanta, eppure la malinconia fa capolino da tutte le parti, nei testi da teenager romantico, nostalgico e un po’ sfigato di Kyle Vincent, nei coretti dei suoi tre sodali e nelle sferzate chitarristiche di Gilby Clarke, per un disco che è uno dei capolavori ultimi e meglio celati del power pop, in diretta dalla città che lo aveva elevato a genere con dignità autonoma ma uscito troppo tardi (nel 1986, ad eoni musicali dallo zenith commerciale delle skinny tie bands) per lasciare un qualsiasi segno, e infatti fu esordio e congedo dei Candy. Ben altra fortuna attendeva Vincent e (soprattutto) Clarke, ma questo album è un monumento al pop chitarristico che sogna in grande e nondimeno è condannato all’anonimato; volete la riprova? Cercatelo in streaming.

Jon Batiste, Cory Wong – Meditations

Pubblicato solo in formato streamingzito nel 2020, questo album condiviso tra due dei più promettenti musicisti contemporanei è probabilmente stato per entrambi un divertissement da lockdown, ma il risultato è di grande livello: ambient che avvolge l’anima e le orecchie, forte delle stratificazioni tra tastiere e chitarra, a creare un clima elegiaco e avvolgente, come la best practice del genere richiede. Impossibile, ovviamente, citare singoli brani, ché la fruizione dev’essere integrale e ininterrotta, ma i passaggi emozionanti sono molti. Ottimo a qualsiasi volume, l’ascolto di “Meditations” è un regalo che si fa a sé stessi.

Angelo Badalamenti – Soundtrack From Twin Peaks

La morte di Angelo Badalamenti ha focalizzato l’attenzione (in particolare la mia) sul suo corpo d’opera, vasto e lodato ma forse lasciato in secondo piano dallo scorrere del tempo. Doveroso, quindi, il recupero del suo lavoro più celebre e forse più significativo, la colonna sonora di “Twin Peaks”, serie televisiva scritta e diretta da David Lynch che all’alba degli anni Novanta cambiò il modo in cui questo format è pensato e realizzato, pur mantenendo una propria personale cifra stilistica. Un risultato dirompente che, però, il regista non avrebbe potuto ottenere senza l’apporto del commento musicale predisposto dal grande compositore per il cinema, dai suoni eterei e vaporosi eppure ben saldo sul piano ritmico e melodico, avanguardistico ma al tempo stesso ancorato alla tradizione, soprattutto jazzistica, e capace del raro miracolo di completare e arricchire le immagini a cui corredo è posto nel contempo vivendo di vita musicale propria e mantenendosi interessante anche per ascolti autonomi. Si alternano così melodie minimaliste quanto indimenticabili (Twin Peaks Theme, Laura Palmer Theme), andamenti felpati e morbosamente swinganti da noir urbano (Audrey’s Dance, Freshly Squeezed, The Bookhouse Boys) e dream pop reso tale dai carezzevoli vocalizzi di Julee Cruise (The Nightingale, Into The Night e soprattutto Falling, tutte estratte dal suo album “Floating Into The Night” (1989) e con testi di David Lynch su spartiti di Badalamenti). Un raro esempio di musica per lo schermo con una statura almeno pari all’opera di cui è parte, la colonna sonora di Twin Peaks è innovativa, influente e senza tempo. Un classico del genere da (ri)scoprire assolutamente.

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Summer of ’96. Thomas Häßler discografico

Thomas Jürgen Häẞler nasce a Berlino Ovest nel 1966. Scopre la passione per il calcio e la musica rock già da ragazzino, ma, mentre con gli strumenti non si cimenta, col pallone ci sa fare eccome, e a 18 anni già esordisce in Bundesliga con il Colonia, dove gli viene affibbiato il soprannome “Icke”, canzonando la storpiatura dialettale berlinese del pronome “Ich”, e nondimeno rimane fino al 1990. L’anno delle “notti magiche”, alle quali lo svelto centrocampista non contribuisce con reti, ma con quella solidità di gioco e di mentalità che permetterà alla nazionale tedesca di arrivare seconda agli Europei del 1992 e trionfare nella successiva edizione del 1996. Già, il 1996. Ma prima facciamo un passo indietro.

Sull’onda dell’impressione suscitata dalle prestazioni al mondiale italiano, Häßler è passato alla Juventus e, subito dopo, alla Roma, dove rimane fino al 1994, trasferendosi poi a Karlsruhe, con la locale squadra che per averlo sborsa una cifra che non ha mai speso, né prima né dopo, per un singolo giocatore. Tra alti e bassi arriva quindi il 1996, anno in cui il nostro uomo, ormai uno dei giocatori più affermati del Vecchio Continente, si rompe una gamba durante una partita col Fortuna Düsseldorf ed è costretto a rimanere lontano dal campo a lungo, in ogni caso quanto basta per vedere la sua squadra eliminata dalla Coppa UEFA. La passione per la musica, però, è sempre presente; compressa dagli impegni professionali e familiari (nel frattempo si è sposato e ha avuto tre figli), ma pur sempre latente e intensa. Cosicché, quando lo svedese Magnus Söderqvist, che da inizio anni ’90 si muove in ambito AOR, agevolando la realizzazione di dischi di vecchie glorie del genere che, a seguito dell’avvento del grunge, si sono trovate senza lavoro, propone a lui e al connazionale Mario Lehmann, anch’egli impegnato in produzioni musicali di area rock melodico, una joint venture discografica, il facoltoso trentenne non può non sentire un sussulto adolescenziale e accettare un’altra sfida.

Nel marzo 1996 apre quindi, in un centro direzionale alla periferia est di Monaco, al numero 1 di Hohenlindener Straße, la MTM Music, che già dalla ragione sociale dà conto della conduzione triumvira, pure temperata dall’esistenza di una filiale svedese, con base a Stoccolma, affidata a Söderqvist. I tre soci si propongono da subito di andare controcorrente, producendo e pubblicando dischi di AOR in un momento in cui le quotazioni del genere sono ai minimi storici: infatti, il nuovo corso post-Nevermind del mainstream ha inferto un colpo ferale a tutte le forme di rock duro in voga negli anni Ottanta, che nel giro di un paio d’anni si sono trovate letteralmente dalle stelle alle stalle, prosciugandosi per effetto di un apparato discografico non più intenzionato ad investire tempo e denaro nelle loro costose produzioni quanto, invece, ad assecondare le nuove istanze del pubblico di massa. L’impatto, com’è noto, è stato particolarmente devastante per i musicisti più tipicamente legati a schemi di rock melodico, poiché, se gli hard rocker da acconciature vaporose e vestiario glamorous potevano tentare di riciclarsi come hard rocker da capelli bisunti e abiti boschivi – come concretamente fecero, perlopiù senza fortuna, Mötley Crüe, Warrant, Skid Row e altri ancora – per i melodici da studio e i costruttori di suoni tastieristici su impalcatura variabilmente hard una simile contorsione stilistica si rivelò più complicata o direttamente impraticabile, e le loro opere a base di sintetizzatori trovarono chiuse tutte le porte, quelle che fino a quel momento li avevano accolti e quelle a cui bussarono per ospitalità. In questo contesto, la MTM (come pure le coeve Now & Then e Long Island) funse da grotta di Betlemme: qui, nella seconda metà degli anni ’90, nella darkest hour per AOR e dintorni, trovarono casa progetti di gente del calibro di Vince DiCola (Storming Heaven), Peter Beckett (Think Out Loud), Stan Meissner (Metropolis), Billy Sherwood (The Key) e Mike Slamer (Steelhouse Lane), oltre a nuovi e promettenti virgulti del suono melodico come Tower City e CITA/Guild Of Ages. Si trattava quasi sempre di piccole produzioni, pensate per lo zoccolo duro di fanatici che non avevano abbandonato il genere allo spirare dei nuovi venti dal Nordovest americano, perlopiù concentrati in Europa e precipuamente in Germania (anche se l’Italia darà il suo fattivo contributo con la napoletana Frontiers), e tuttavia l’operazione funzionò ottimamente, generando entusiasmo e una certa quantità di profitti, che consentirono alla MTM di ampliare il proprio catalogo. Nel corso degli anni, infatti, l’etichetta mette sotto contratto vecchie glorie (Shy, Dare, TNT) e giovani virgulti (Jay Miles), arrivando a fondare addirittura tre sottoetichette: dal 1996, la MTM Scandinavia, affidata a Söderqvist e incaricata della distribuzione nel lucroso mercato scandinavo; dal 2003 la MTM Classix, dedita a ristampe di dischi più o meno noti; e la PsychoActive, veicolo per dischi nuovi di generi musicali non strettamente riconducibili al rock melodico. Il pubblico rimasto, ormai ridotto allo zoccolo duro di appassionati del genere, inizialmente reagisce bene, e le uscite si susseguono, ma col passare del tempo ci si rende conto che l’etichetta genera più perdite che profitti. E anche le vite dei soci non vanno sempre per il meglio.

Dopo essere rientrato dall’infortunio e avere contribuito al trionfo della nazionale tedesca agli Europei inglesi del 1996, nel 1998 Häßler si trasferisce al Borussia Dortmund, campione d’Europa in carica, rimanendovi solo un anno, per poi passare al Monaco 1860. Qui, però, si fa notare più per i dissidi con l’allenatore Edgar Geener che per le prestazioni sportive, e la situazione precipita quando i giornali scandalistici pubblicano la notizia di una relazione tra Geener e la moglie di Häßler, che è anche la sua procuratrice: le prestazioni del centrocampista e della squadra ne risentono, e così a novembre l’allenatore viene licenziato e a dicembre Thomas e Angela Häßler si separano, pur mantenendo i loro rapporti professionali. Il calciatore rimane a Monaco fino al 2003, quando, ormai trentasettenne, decide di andare a chiudere la carriera in Austria, al Salisburgo, dove gioca nella stagione 2003/2004 per poi ritirarsi. Sembra un presagio.

Nonostante ingaggi di indubbio valore, come Harlan Cage e Steelhouse Lane, e acclamate uscite (come i dischi del Hughes Turner Project, condiviso tra Glenn Hughes e Joe Lynn Turner), le vendite e gli accordi distributivi con altre etichette non bastano a coprire i costi di produzione, che il tentativo di allargamento ad altri generi, mai decollato, non riesce a compensare. In più la musica liquida è ormai realtà e, con il CD progressivamente messo all’angolo dai nuovi formati digitali e il vinile ancora un supporto di culto (a cui, peraltro, l’AOR è sempre stato estraneo), far quadrare i conti diventa sempre più difficile. Si comincia tagliando la filiale svedese, ma, a fronte di un pubblico tendenzialmente statico a livello numerico e di vendite in calo, anche questo non basta, e la situazione appare chiara: bisogna chiudere. Troppe cose, d’altronde, sono cambiate nel mondo esterno, nel panorama musicale e nelle vite dei protagonisti perché si possa pensare di tirare dritto ignorando la realtà. Nel 2007, quindi, la MTM Music chiude i battenti, lasciandosi alle spalle un catalogo di circa seicento titoli e una reputazione di baluardo del rock melodico nei suoi anni più difficili, che ha permesso a musicisti dotati ma estranei alle esigenze commerciali del momento di poter continuare ad esprimere la propria creatività. Non certo un’impresa titanica – anche perché, oggettivamente, nessuno dei dischi pubblicati dall’etichetta può essere ritenuto un capolavoro – ma comunque un apporto rilevante a una causa probabilmente persa e proprio per questo fonte di simpatia. Anzi, è proprio in quel periodo, e grazie all’opera di etichette come la MTM, la Now & Then, la Long Island e la Frontiers, che l’AOR passò definitivamente, nella percezione del suo stesso pubblico, da genere mainstream a sonorità underground, da produrre opere pensate per la fruizione di massa a confezionare dischi realizzati da adepti per adepti secondo coordinate stilistiche ben codificate; un passaggio cruciale per un genere abituato alle luci della ribalta e in cerca di una propria dimensione esistenziale all’indomani della fine improvvisa del grande successo di pubblico e del tramonto definitivo di ogni possibilità di riconquistarlo. Un po’ come Häßler.

Finita l’esperienza come calciatore e come discografico, l’ex centrocampista diventa, al pari di molti suoi colleghi, allenatore, venendo ingaggiato dal Colonia, sua prima squadra da professionista in Bundesliga, e trovando anche il tempo di fare il vice allenatore della nazionale nigeriana per qualche mese, per poi ritrovarsi senza contratto e girovagare tra Iran (vice al Shahr Khodro) e Libano (nel 2015 fu dato dalla stampa come futuro allenatore della nazionale, ma la notizia si dimostrò infondata) e infine rientrare a Berlino come allenatore per squadre semiamatoriali, attività a cui una malattia ancora imprecisata (ma che pare comprenda tra i suoi sintomi dolori al collo, amnesia e, amara ironia della sorte, tintinnitus) lo ha strappato a tempo indeterminato a partire da agosto 2022. Un destino infausto per uno che ha dimostrato molto presto e a lungo di possedere la stoffa luccicante del campione, la quale, però, ha spesso travisato un’es(i)s(t)enza da uomo di blues, benedetto da un talento non comune e nel contempo vessato da morti premature (il fratello maggiore Andreas portato via dalla leucemia a 17 anni, nel 1980), matrimoni naufragati, imprese fallite e malattie potenzialmente invalidanti. Il denaro non può comprarmi l’amore, cantavano quelli. La musica (e forse anche il calcio), però, sì.

Grazie, Herr Häßler, per le note magiche su cui inseguire un gol, calcistico o altrimenti.

Qui i dischi usciti per la MTM Music. Curiosamente non sono (ancora?) editi in formato streamingzito.

Sometimes The World Ain’t Enough: David Andersson (1975 – 2022)

Ieri si è diffusa la notizia che David Andersson, polistrumentista svedese di 47 anni, è morto, probabilmente per effetto del consumo di alcol e della depressione. Con lui se ne va una colonna portante dei Soilwork e soprattutto della Night Flight Orchestra, gruppo nel quale militava da quindici anni e sei album e che aveva contributo a rendere la più fulgida stella dell’AOR contemporaneo. A volte il mondo non è abbastanza, purtroppo.

Addio David, you belong to the night.

21 colpi a salve.

Fino a non troppo tempo fa a 21 anni si diventava maggiori di età. Forse è ancora così, più per contingenze esterne che per disposizione normativa. Come che sia, anche il ventunesimo anno della Ventesima Era (quella che comincia per 20, naturalmente) sta per concludere il suo moto rivoluzionario perisolare (per isolare?), lasciandosi alle spalle la solita scia di defezioni e di “dischi” (facciamo “pubblicazioni musicali”, va’) recanti la fatidica data 2021. Quanto alle prime, ricordo Joey Jordison, talentuosissimo batterista già negli Slipknot, Jeff LaBar, sfortunato ma capace chitarrista dei Cinderella, il fu cantante dei Trouble Eric Wagner, il giornalista musicale inglese Malcolm Dome e naturalmente Charlie Watts, mentre degli altri, pure illustri (Phil Spector, Chick Corea, Marco Mathieu), mi ero dimenticato. Pace a costoro. Quanto alle uscite discografiche, l’anno non è stato dei più fecondi, per ragioni varie e già esplicitate in precedenza. Non mi resta, quindi, che procedere alla solita elencazione, non in ordine qualitativo bensì meramente espositivo, nella speranza che la situazione complessiva possa migliorare. Un augurio a tutt* ($i $crive co$ì, giu$to?).

1. Les Grys-Grys – To Fall Down

Qui. Nel frattempo il gruppo si è sciolto; niente male come testamento olografo. Nell’attesa del comeback (from the grave).

2. Durand Jones & The Indications – Private Space

Qui. Con il passare degli ascolti si conferma un album di grande livello; forse il migliore dell’anno, per quanto se ne può capire da queste parti. In attesa che Witchoo diventi un singolo di successo mercé qualche remix.

3. Pearl & The Oysters – Flowerland

Easy listening 4.0 per questo duo franco-statunitense di stanza in Florida, giunto al terzo album in quattro anni, che porge un cocktail (mescolato, non agitato) di trip hop, disco pacata, slow jam, armonie bossa nova, orchestrazioni anni ’60, elettronica ed exotica. Lalo Schifrin che beve un Martini coi Portishead e Martin Denny, insomma. Il sincretismo che è la cifra del pop contemporaneo è qui presentato ad alti livelli e scorre dissetante e inebriante dal primo all’ultimo sorso. Da consumarsi, naturalmente, liquido.

4. Mild High Club – Going Going Gone

Elettronica gentile, ai profumi di jazz, trip hop e musica brasiliana. Un Nightmares On Wax primevo ma più stiloso, per così dire. Anche qui è impossibile scegliere singoli brani, e anche qui la fruizione raccomanda un aperitivo di accompagnamento. Cocktail music con spirito.

5. David Crosby – For Free

Una sorpresa davvero, questo “For Free”. L’atmosfera è schiettamente yacht rock (e per chi scrive ciò è un bene), come testimoniano River Rise con Michael McDonald alla voce e Rodriguez For A Night di e con Donald Fagen, e, tra il country rock jamestayloriano di I Think I, i ricami blues di Ships In The Night e l’emozionante duetto vocale con Sarah Janosz nell’ossuta rilettura di For Free di Joni Mitchell, la qualità si mantiene alta per tutti i 37 minuti del disco, peraltro ottimamente prodotto da James Raymond, figlio “ritrovato” di Crosby. Cosicché l’ascoltatore si trova a desiderare ardentemente che nel commovente congedo di I Won’t Stay Long, su cui aleggia una tromba che è specchio dei rimpianti di chi sa di aver dato più di ciò che ha ancora da dare, l’autore non faccia sul serio. Un gran bel disco e probabilmente il modo migliore con cui il neo-ottantenne Crosby potrebbe chiudere la propria carriera discografica.

6. Helloween – Helloween

Premetto di non essere mai stato un grande fan, ma, per motivi che non so ancora ben spiegarmi, l’entusiasmo più o meno posticcio per una reunion che mettesse tutti insieme e d’accordo ha contagiato anche me. Il disco, però, non merita dubbi di sorta: livello compositivo alto (da quanto tempo gli Iron Maiden non scrivono un pezzo della qualità di Best Time, onestamente?), performance solide da parte di tutti i musicisti coinvolti (soprattutto i cantanti) e melodie che si fanno ricordare senza per questo sacrificare l’impatto complessivo. Al punto che anche le eccessive divagazioni progressive, noiose come al solito e non sempre centrate (serviva davvero un pezzo, Skyfall, di oltre 12 minuti?), si fanno perdonare. Con la tolleranza che a tratti si può accordare alle vecchie glorie, un ritorno sorprendente e infarcito di idee, al quale fa piacere ritornare ripetutamente. La copertina è, a suo modo, un epitaffio. Bravi, zucconi.

7. Unto Others – Strength

“Strength” è il secondo album per la formazione di Portland, Oregon da quando ha cambiato nome in Unto Others. E che album! Metallo gotico che sa tenere insieme al meglio classicità (le chitarre che suonano linee melodiche armonizzate) e modernità (echi di growl e passaggi in doppia cassa), inserendovi in maniera convincente le influenze dark (io, che conosco poco il genere, ci sento soprattutto i Sisters Of Mercy), mentre le melodie carezzano potenti eppure malinconiche e i testi affrontano le mestizie della vita adulta senza disperazioni posticce. La scoperta dell’anno e un gruppo da seguire.

8. Mortal Vision – Mind Manipulation

Giovani, ucraini e disoccupati, i Mortal Vision partoriscono un debutto che per loro espressa ammissione suona come se fosse uscito dal Brasile del 1987. Come i Sepultura di “Schizofrenia” e “Beneath The Remains”, dunque. A cui, però, i Mortal Vision aggiungono qualche elemento di compattezza midtempo derivato dai Sodom di quel periodo. Il risultato è un disco di thrash metal della vecchia scuola (o meglio, di una delle vecchie scuole) che, però, complici la giovane età e la “fame” del gruppo e una produzione accurata ma non plastificata, suona molto più autentico di molti album di formazioni più celebrate e patinate, esodate o meno. Niente di nuovo sotto il sole, direte; senonché quella luce che sta là in alto non è il sole, ma un’esplosione nucleare, ed è molto più credibile sentirlo dire da quattro ventenni ucraini che da “rockstar” ultracinquantenni californiane.

9. The Night Flight Orchestra – Aeromantic II

Solitamente i sequel non promettono bene, e il fatto che il titolo dell’ultimo LP del gruppo svedese richiamasse espressamente quello del precedente “Aeromantic”, uscito appena un anno fa, non faceva ben sperare per risultati di livello. L’ascolto, però, ha parzialmente smentito questo pregiudizio, perché, se è vero che la formula è ormai consolidata e lo “slittamento” verso il pop ballabile continua inarrestabile, la qualità compositiva si conferma alta e la capacità del gruppo di ricostruire un’atmosfera spazio-temporale (ma soprattutto spazio-) rimane ammirevole. E il disco è, naturalmente, divertente e ottimamente prodotto. Menzione speciale per la sequenza How Long Burn For Me – Chardonnay Nights, la prima all’insegna di un AOR danzereccio da colonna sonora e le altre tra Toto e Survivor, e per il singolo White Jeans, una cavalcata che si stempera in un ritornello da aerobica. Una gAORanzia.

10. Labyrinth – Welcome To The Absurd Circus

Un ritorno di inattesa qualità. Sarà per il nuovo batterista, che ha infuso linfa giovan(il)e, o l’ispirazione fornita dalla pandemia e dalle conseguenti misure restrittive, ma “Welcome To The Absurd Circus”, incentrato proprio sulle questioni sollevate dall’abbattersi del COVID-19 sul mondo, funziona dall’inizio alla fine dei suoi 60 minuti. Rimane una quota di assoli inutilmente virtuosi e prolungati, ma nel complesso i riff ariosi, le armonizzazioni chitarristiche, le andature ritmiche variegate senza essere cervellotiche, le melodie insidiose (quelle di The Absurd Circus e di One More Last Chance si rivelano indimenticabili) e la “solita” rilettura di un brano di synth pop (stavolta Dancing With Tears In My Eyes degli Ultravox) rendono il disco un piacere per le orecchie. Per giunta uscito su Frontiers, ed è bello sapere che in Italia musicisti, produttori e discografici compongono, incidono e pubblicano (ancora) dischi di questo livello. Nell’attesa che il circo dell’assurdo leaves town

L’altro 2021

Pride Of Lions – Lion Heart

È uscito nel 2020 ma mi è entrato in circolo solo quest’anno, complice la diffidenza verso un gruppo che non presentava più molto dell’appeal del suo naturale predecessore, i Survivor. Però questo album coinvolge fin dal primo ascolto, e brani diretti, arrangiamenti lineari ma ragionati, melodie convincenti e memorabili (tutte, incredibilmente) e, in generale, scelte stilistiche in favore di un AOR più schiettamente tradizionale, come quello della casa madre”, anziché delle rielaborazioni contemporanee del genere, che si svolgono quasi sempre all’insegna di aggiornamenti spesso posticci, lo rendono vincente. In una collezione di canzoni che non vuole saperne di levarsi dagli ascolti si segnala particolarmente Carry Me Back, dal ritornello inobliabile. Considerazioni a latere: il disco è stato pubblicato il 9 ottobre 2020, circa un mese prima delle elezioni presidenziali americane, da un gruppo del Midwest composto di soli uomini bianchi per un pubblico composto quasi solamente di uomini bianchi; i testi parlano, fra l’altro, di essere bravi cristiani ed esercitare la carità (Lionheart), degli eroi in divisa che proteggono i cittadini dai brutti e cattivi (Heart Of The Warrior), dell’importanza di concentrarsi sui veri valori e non sul diventare “il più ricco del cimitero” (Give It Away) e dell’illusorietà delle lusinghe offerte dello show business losangeleno (Rock n’ Roll Boom Town). Immagino dica qualcosa dell’America profonda.

Pellegrino & Zodyaco – Morphé

Anch’esso datato 2020, questo LP (letteralmente: si può ascoltare solo a 33 giri o in streaming) del produttore e dj partenopeo Pellegrino, animatore anche dell’etichetta Early Sounds Recordings, condiviso con gli Zodyaco, formazione musicale napoletana dedita ad uno stiloso jazz-funk, produce un lavoro di notevole impatto a partire dalla copertina, sognante e spettacolare riproposizione del Golfo di Napoli. La musica non è da meno, però, con la sua accattivante quanto equilibrata mistura di Italo-disco, jazz, funk morbido, tocchi fusion e house di ispirazione mediterranea. Ottimo sottofondo come pure ascolto piacevole, “Morphé” dimostra, una volta di più, che in Italia talento ce n’è eccome.

Halford – Resurrection

In attesa di rivedere/risentire i Judas Priest dal vivo e/o su disco, la riscoperta di questa uscita dello storico cantante del gruppo inglese, nel periodo in cui viveva ancora della sola carriera solista, è stata una soddisfazione. Nel 2000, esauriti gli esperimenti con i progetti Fight e 2wo, di qualità altalenante e dai tiepidi riscontri, Halford si era reso conto che il suo destino era l’heavy metal più puro, e, venendo a patti con la sua essenza musicale, aveva accettato di entrare in società con Metal Mike, entusiasta chitarrista polacco trasferitosi in America, e il produttore Roy Z, responsabile del mantenimento in vita del suono più classicamente heavy nella tempesta degli anni ’90. Ne uscì un album, significativamente intitolato “Resurrection”, quasi che fosse un ritorno alla vita dopo un lungo sonno mortale, dove il sound priestiano dei primi anni ’90 rifioriva, forte della produzione eccezionalmente compatta e di brani di potenza tuttora ineguagliabile come la title-track, Made In Hell e il duetto con Bruce Dickinson in The One You Love To Hate. Il disco è forse troppo lungo e non tutti i passaggi sono sempre a fuoco, ma la gioia di sentire Halford tornare ad esprimersi su tali registri e con tante consapevolezza e autorevolezza non può che commuovere e far agitare avanti e indietro la testa, in segno di approvazione e non solo. Al cor gentsteel rempaira sempre amore.

Richie Sambora – The Stranger Returns

Per qualche motivo, forse il trentesimo anniversario, nello scorso anno è apparsa in formato streamingzito la storica registrazione radiofonica, che circolava con vari nomi in formato bootleg già dagli anni ’90, del concerto tenuto dal chitarrista dei Bon Jovi al Pecos Theater di San Diego il 16 novembre 1991, nel corso del tour a supporto del suo primo album solista, “Stranger In This Town”. E vale dunque la pena parlarne. Anche perché la qualità della registrazione è indubbiamente alta, ma ciò non varrebbe nulla se non fosse per la qualità elevatissima della prestazione musicale: Sambora, oltre che chitarrista di vaglia e compositore, è sempre stato un eccellente cantante, e l’esibizione in proprio, senza Jon Bon Jovi a fare ombra, gli permette di dimostrarlo in maniera definitiva. Impeccabile la scaletta, che per metà pesca dal disco allora appena uscito (senza mancanze di rilievo, a parte, forse, Ballad Of Youth) e per la restante metà dal repertorio dei Bon Jovi (Bad Medicine, I’ll Be There For You e Wanted Dead Or Alive; saggia la scelta di non cavalcare l’effetto nostalgia o di somministrare un greatest hits), da cover indiscutibili (Midnight Rider in acustico, più Gregg Allman che Allman Brothers Band, e With A Little Help From My Friends secondo il canone joecockeriano) e da brani composti conto terzi (quella We All Sleep Alone che Cher trasformò in una hit), e caloroso e accogliente il sound, che sfronda gli “eccessi” hard rock in favore di arrangiamenti più sobri e toni più classicamente rock, spesso acustici o all’insegna di un blues a tratti leccato ma suonato con sincerità e devozione da una formazione di immense capacità (un plauso alla cantante Crystal Taliafero), per un risultato finale sbalorditivo, da ascoltare dall’inizio alla fine, scoprendosi coinvolti più di quanto si potesse pensare in principio. E non sono molti i dischi dal vivo di cui si può dire lo stesso, specialmente se privi di ritocchi in studio. Un album eccellente, nonché la testimonianza definitiva sul valore di un musicista di enorme talento finito intrappolato nei cliché della rockstar. Nell’attesa che qualcuno si decida infine a pubblicarlo ufficialmente su formato fisico.

Diventi, inventi. Pillole musicali dell’anno incorso.

Non l’anno migliore della storia umana, bisogna dire. Nemmeno musicalmente, per quanto qui interessa. Naturalmente il giudizio sconta la situazione discografica attuale, in cui le uscite si susseguono in numero soverchiante e al pur benintenzionato ascoltatore-recensore, ancorché con poco tempo a disposizione, non resta che affidarsi all’intuito, ai suggerimenti, a letture e al caso, con ovvie ricadute in termini di rispondenza del giudizio più al gusto e alla percezione del recensore che all’effettivo contenuto del disco. Ma questo fa parte del rischio di leggere una recensione scritta da altri. In ogni caso, da queste parti il 2020 è risultato ancor più avaro di uscite memorabili che l’anno pregresso, al punto che risulta difficile persino compilare la canonica lista di dieci, e ciò che resta di più memorabile in assoluto sono, ahimè, i lutti eccellenti tra gli operatori musicali: Ennio Morricone, Little Richard, Eddie Van Halen, Neal Peart, Ken Hensley, Keith Olsen, Martin Birch, Charlie Daniels, Lee Konitz, Sean Malone, Justin Townes Earle, Leslie West e tutti gli altri. Sarebbe bello lasciarci tutto alle spalle, ma probabilmente questa volta sarà più difficile. Proviamoci, quindi. Proviamo a lasciarci tutto alle spalle, tranne qualche disco da tenerci stretto.
Auguri.
P.S.: come sempre, la numerazione non implica giudizi di valore, ma costituisce una mera elencazione.

1. Green Day – Father Of All Motherfuckers
Qui. Con il progredire dell’anno il clima sereno che qui si respira, forse perché mancava la percezione della tragedia imminente, è diventato quasi assurdo, e però sempre piacevole e utile. Mi tocca ribadire la considerazione formulata al tempo: non avrei mai pensato di dover spendere ancora soldi per i Green Day. Bravi.

2. Night Flight Orchestra – Aeromantic
Qui. Rimane confermato il giudizio iniziale: gradevole ma inferiore ai due dischi che lo hanno preceduto; sarà la matrice maggiormente pop o la stanchezza che comincia ad insinuarsi nella composizione secondo coordinate intrinsecamente limitate. In ogni caso, per gli amanti di queste sonorità è una chicca.

3. X – Alphabetland
Qui. My my, hey hey, rock ‘n’ roll is here to stay.

4. Devon Williams – A Tear In The Fabric
Qui. Non mi pare di aver letto peana di questo disco e del pensoso pop chitarristico e cantautorale che vi alligna. E va bene così; etiamsi nemo, ego sic. Si parla di uno strappo nel tessuto, d’altronde.

5. Evildead – United $tate$ of Anarchy
Qui. Non è un capolavoro e nemmeno aspira ad esserlo, però non escono più tanti dischi così, lucide e impietose istantanee spazio-temporali con i suoni che sono nubi di ieri sul nostro domani odierno. Meno male, verrebbe da dire. O forse no.

6. Kylie Minogue – Disco
Partiamo da una constatazione: per essere una cantante professionista, l’australiana non ha una gran voce, in termini sia tecnici che espressivi. Però ha intuito, e ha capito che adesso è il momento di divertere la mente del pubblico dalla situazione attuale. E cosa c’è di più divertente delle sonorità che furono dello Studio 54, disco e R&B spruzzato di funk, rilette secondo lo stile già collaudato dai Daft Punk con “Random Access Memories”? Il risultato è un disco sorprendentemente godibile, cantabile come il migliore pop, ballabile come la migliore disco e colmo di idee melodiche variegate e altamente orecchiabili. E altrettanto sorprendentemente regge a plurimi ascolti. Sorprendente, appunto; soprattutto se prima di quest’anno sciagurato non avevate mai ascoltato un disco della popstar australe. Ora potete.

7. Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia
Qui. Musica radicata, solida e inscalfibile, eppure carica di emotività ed empatia, come il suo autore. A cui, qualcosa mi dice, il futuro prossimo non cesserà di fornire spunti.

8. Mr. Bungle – The Raging Wrath Of The Easter Bunny Demo
Non è tuttora chiaro per quale ragione Mike Patton abbia deciso di ripescare dall’archivio il primo demo dei Mr. Bungle, inciso nel 1986, e riproporne i pezzi di grezzo thrash-core con la formazione originale integrata da alcuni amici musicisti, che rispondono al nome di Dave Lombardo e Scott Ian. Certo è che ne è uscito un manicaretto di thrash metal, che si lascia alle spalle gli sperimentalismi che hanno sempre caratterizzato questa band per gettarsi a capofitto in un vortice di tupa tupa e riff affilati, sovrastati dalla voce proteiforme di Patton, per un risultato non dissimile da “Speak English Or Die” dei S.O.D., non fosse che per i titoli dei brani (Hypocrites/Habla Espanol O Muere), o dai Corrosion of Conformity degli esordi, omaggiati con l’arrembante rilettura di Loss For Words, che rivaleggia con l’originale. La dimostrazione definitiva che il thrash metal, se fatto bene, non invecchia.

9. Once & Future Band – Deleted Scenes
Il secondo album di questo trio di San Francisco tesse le trame di un rock d’altri tempi, o forse proprio di questi, epoca di riciclo e recupero. Infatti, tengono qui banco le sonorità del periodo compreso tra la fine dei Sessanta e i primi anni Settanta, le armonie (vocali e non) di scuola liverpool-californiana e la stratificazione progressive, il pop evoluto degli Steely Dan, un tocco di psichedelia e un pizzico di teatralità che si potrebbe ricondurre ai primissimi Queen, per un risultato eccellente in cui i nove brani (dei quali solo due superano i cinque minuti, e uno per soli tre secondi) sono composti ed eseguiti per farsi ascoltare, senza indulgere in contorsioni strumentali o soluzioni artificiosamente inusitate. Godibile, intelligente e ottimamente costruito, questo disco è permeato dal senso della misura e dalla comprensione degli elementi decisivi nel confezionare un’opera di qualità (non da ultimo i suoni, che restituiscono un’atmosfera schiettamente naturale agli strumenti). Rock progressivo in senso ampio, insomma; progressista, persino.

10. Dining Rooms – Art Is A Cat
Un affascinante mélange di dilatato trip hop, morbidi tocchi funk, languide voci femminili, soffusa tromba jazz, arpeggi acustici, atmosfere da colonna sonora anni ’60/’70, dettagli elettronici e altro ancora, per un risultato di grandissima suggestione, che sa essere in uno romantico e (a tratti) malinconico. Una volta di più il duo Ghittoni-Malfatti non delude, allargando ancora i già ampi orizzonti musicali frequentati e arricchendo il progetto Dining Rooms di un altro capitolo significativo e piacevole. Sarebbe bene ricordarsi, ogni tanto, che in Italia ci sono anche musicisti di questo livello.

Altri dischi

Harry Beckett – Joy Unlimited
Ad agosto, nel disinteresse generale, la Cadillac Records ha ristampato il disco più celebre del trombettista Harry Beckett, pubblicato originariamente nel 1973, mai ristampato e da allora praticamente sparito dal mercato. Incredibilmente, perché si tratta di una delle migliori incisioni mai realizzate nell’ambito del cosiddetto jazz elettrico: infatti, le linee suonate da Beckett si inseriscono in un contesto modale senza mai perdere di vista la melodia e dimenticare la solarità caraibica che ha accompagnato il trombettista per tutta la carriera (si ascolti il tema di Glowing), mentre il pianoforte elettrico tesse trame armonicamente sofisticate su cui la chitarra può guizzare su registri ora rock-blues ora latineggianti, con la sezione ritmica a sospingere un funk sinuoso e poliritmico di ascendenza afrocaraibica. E il risultato, al crocevia tra il jazz-rock, il funk e i primi Santana, è meraviglioso. Un disco imperdibile.

Little Richard – Southern Child
Negli anni ’70 Little Richard aveva tutte le carte in regola per beneficiare della risorgenza dei suoni rock n’ roll e dell’ondata di revival degli anni ’50 allora in corso. Invece, scelse di abbracciare due lati misconosciuti della sua formazione musicale, il country e il blues: nel 1972, un anno dopo “The Second Coming”, registrò undici pezzi in quegli stili, con un orecchio alla musica nera contemporanea, presentando quindi alla Reprise, con cui all’epoca aveva un contratto discografico, le incisioni per un nuovo disco, corredate di titolo, “Southern Child”, e artwork. Per motivi mai realmente chiariti, l’etichetta accantonò il master, che rimase così a prendere polvere sino al 2005, quando i brani rientrarono in una raccolta, e infine a quest’anno, in cui è stato infine pubblicato nella forma e nelle intenzioni di mister Penniman, che non ha fatto in tempo a vedere la sua creatura venire alla luce con trentotto anni di ritardo. Gran peccato, perché, tra funk sensuale (California (I’m Comin’), Burning Up With Love), country verace (Ain’t No Tellin’, Over Yonder) e imbastardito con il rock (If I Pick Her Too Hard), blues campagnolo (la title-track, I Git A Little Lonely) e umori southern soul (In The Name), questo disco è un affresco di sorprendente qualità, nonché una finestra sul talento poliedrico di un artista che è facile liquidare sbrigativamente come one-trick pony. Un degno epitaffio per uno dei più grandi musicisti pop del Novecento.

L’altro 2020

Teaze – One Night Stands
Avevano tutte le carte in regola per accedere al grande successo, i canadesi Teaze: bella presenza, perizia strumentale, talento compositivo, capacità di stare sul palco. E mai questa sensazione è stata più forte che nel 1978, quando, dopo due album che ne avevano stabilmente aumentato le quotazioni sui mercati internazionali, il quartetto aveva ottenuto un contratto con la potente Capitol anziché con la limitata Aquarius. “One Night Stands”, l’album che ne uscì, pubblicato l’anno seguente, soddisfaceva tutte le aspettative riposte nel gruppo, ma, schiacciato tra la coda dell’era della disco e l’alba della new wave, senza peraltro riuscire ad agganciare le sonorità del rock radiofonico del periodo, fu un fallimento commerciale, che sancì la fine delle speranze di gloria dei Teaze, che si sciolsero l’anno seguente, lasciandosi alle spalle quattro album, tra i quali spicca questa gemma di hard rock dei tardi anni Settanta, in cui convivono spinte verso sonorità più dure e furbe strizzate d’occhio alle esigenze radiofoniche del periodo: Touch The Wind sono gli Iron Maiden ante litteram, Loose Change indica la via a What’s Up? delle 4 Non Blondes, mentre Young And Reckless potrebbero essere gli Aerosmith che maneggiano la disco e Red Hot Ready sembra uscita da un album dei Rose Tattoo. Il tutto corredato da accenni di sintetizzatori, chitarre roboanti che spesso si intrecciano in linee melodiche armonizzate e ritmi a tratti fratturati. Connotato da grande varietà di stili pur senza perdere in coerenza e qualità del songwriting e rilegato da una produzione impeccabile, “One Night Stands” è un recupero meritorio, nonché un’altra dimostrazione che il Canada è il naturale trait d’union tra Stati Uniti e Inghilterra, in questo caso tra hard rock radiofonico e quella che sarebbe diventata la NWOBHM. Tra le varie stampe disponibili, è meglio evitare quella americana, la cui scaletta inserisce brani dai dischi precedenti (Boys Night Out dal debutto omonimo e Stay Here da “On The Loose”) rimpiazzando Loose Change, uno dei brani migliori; scelta, quest’ultima, curiosamente condivisa anche dalla recente ristampa in CD della Rock Candy.

Wall Of Silence – Shock To The System
I canadesi Works non ebbero fortuna con il loro unico album di AOR, “From Out Of Nowhere”, pubblicato nel 1989. Mutati tre componenti del gruppo su cinque, decisero di cambiare anche nome, in Wall Of Silence, scrivendo nuove canzoni e trovando un accordo discografico con la A&M. Ne uscì questo “Shock To The System”, unico parto della formazione, datato 1992 e quindi condannato in partenza, nonostante un AOR tosto e curatissimo, di qualità superiore, non da ultimo per la produzione e il contributo compositivo e strumentale di quel gran genio di Mike Slamer. Chitarre distorte ma non invadenti e sempre arrangiate con varietà e cognizione di causa, panneggi di tastiere ad aggiungere sfumature, suoni scintillanti e dinamica impeccabile ci sono e si sentono, ma ciò che fa la differenza sono la qualità di scrittura e le melodie sempre vincenti, in contesti duri (il sofisticato esercizio leppardiano di Addicted, probabile singolo mancato) o languidi (It’s Only Love, power ballad memorabile come poche altre e ancor più sorprendente perché autografa). Dieci brani che lambiscono i territori di Giant, Signal, Unruly Child e Harem Scarem pur mantenendo una propria identità, a costituire un’altra hidden gem in ambito AOR, come confermato dal fatto che l’album non è mai stato ristampato e oggi passa di mano a prezzi rilevanti.

Bullet/Alan Tew – The Hanged Man OST
“The Hanged Man” era una serie di genere poliziesco ambientata nello Yorkshire e trasmessa dalla televisione britannica nel 1975. Alan Tew è un compositore inglese di musica per il cinema e la televisione, sia mirata che in forma di library music, e fu lui a ricevere l’incarico di scrivere il commento musicale alla serie citata. Le partiture furono quindi girate a un gruppo di turnisti delle etichette specializzate KPM e Themes International, il bassista Les Hurdle, il batterista Barry Morgan, il chitarrista Alan Parker, il percussionista Frank Ricotti e il tastierista Alan Hawkshaw. Costoro incisero a Monaco le musiche scritte da Tew e, quando fu il momento di pubblicarle, si battezzarono, per la prima e unica volta, Bullet. Ne uscì uno sfavillante LP di funk polizi(ott)esco, dal groove irresistibile e dalle atmosfere avvincenti come e più delle immagini, capace di superare in qualità lo sceneggiato che era stato chiamato a corredare e vivendo di luce propria come una delle migliori uscite in assoluto nel genere, a suo agio indistintamente con vibrafoni e sintetizzatori, trombe e pianoforti elettrici, chitarre “grattugiate” e ottoni pungenti. In breve: un capolavoro. Del quale l’ascoltatore saggio vorrà preferire la ristampa in CD su Vocalion, che alle diciotto tracce originali aggiunge, oltre a un booklet ricco di dettagli e fotografie, ventidue brani incisi nelle medesime sessioni, già usciti sui due volumi della raccolta “Drama Cues” di Alan Tew, e sette temi in stile di Alan Parker, James Clarke e Alan Hawkshaw.

Unleash The Archers – Apex
In ambito hard ‘n’ heavy, il Canada è particolarmente famoso per due stili: un AOR cristallino e nitido e un heavy metal classico particolarmente epico e arrembante. Ad ulteriore (dopo Cauldron, Striker, Skull Fist e molti altri) conferma che quest’ultimo stile è uno degli export di punta del vessillo con la foglia d’acero si pongono gli Unleash The Archers, che sono in giro da più di dieci anni e hanno recentemente pubblicato il loro quinto album “Abyss”. Ma non è a questo che ci si deve rivolgere per trovare un’uscita sorprendente in un panorama stilistico dalle coordinate limitate e molto affollato, bensì al predecessore “Apex”, del 2017. Qui le varie anime del metal che guarda alle classiche sonorità heavy senza però volersi arroccare in filologiche quanto stantie riproposizioni si saldano al meglio, complici le capacità compositive del gruppo, l’enorme abilità strumentale dei musicisti (soprattutto i due chitarristi e il batterista) e la varietà nel dosaggio degli stilemi. In questo disco il tipico suono power metal convive con ritmiche fratturate di doppia cassa e inserti di matrice groove, le chitarre armonizzate di ascendenza maideniana non stonano a fianco di una voce occasionalmente in growl, riff stradaioli ripresi dalla NWOBHM si saldano ad epiche andature cadenzate e a falsetti sia maschili che femminili. Ottimamente prodotto (nonostante le recenti tendenze “polimeriche” della Napalm), “Apex” tiene magnificamente insieme tutto ciò che di buono ha prodotto l’heavy metal negli ultimi anni, suscitando tuttavia il timore che i suoi autori non siano in grado di superarlo in qualità, rendendo così il titolo un inequivoco nomen omen. E se anche fosse, poco male, perché resterebbe comunque “Apex” a confermare che si può ancora dire qualcosa in ambito heavy metal, e dirlo bene.

Damnatio memoriae

Metallica – S&M 2
Non ho idea di chi, maggiorenne, e non solo di età, possa averlo ascoltato.

Ibam forte Via Sacra: Carl Dixon – One

carl dixon - one

Nella vita il tempismo è molto, se non tutto, e questo disco ha avuto un tempismo pessimo: uscito nel 1993, quando le quotazioni di AOR e suoni affini erano in picchiata da almeno un anno, non riuscì a intercettare praticamente nessuno dei potenziali interessati. Niente di strano, poiché la storia della musica è disseminata di casi simili, ma, a volte, il tempo fa giustizia di dischi di qualità che hanno scontato una sfortunata scelta dei tempi, e “One” di Carl Dixon è uno di questi dischi. Ma innanzitutto due parole sul suo autore.

Carl Dixon, canadese dell’Ontario, è il cantante dei Coney Hatch, gruppo di hard rock melodico al confine con l’AOR autore, tra il 1982 e il 1985, di tre LP di qualità apprezzabile ancorché non eccezionale. Il successo arrise al gruppo solo in patria, senza mai varcare il confine sud del ben più lucroso mercato statunitense, conducendo la formazione allo scioglimento nel 1986. Dopo qualche anno passato a comporre brani per conto terzi (dopotutto, era stato autore o coautore di tutti i brani dei Coney Hatch), Dixon decise che era il momento di lanciare una carriera solista, radunando attorno a sé sconosciuti musicisti canadesi (il più noto il chitarrista Mike Hall, ex membro dei Killer Dwarfs) ed esordendo nel 1993 con questo “One”, pubblicato per l’etichetta indipendente canadese Interplanet Music; scelta sensata, visto la risonanza del nome dell’autore principalmente nel pubblico indigeno, e però condanna ad attingere inevitabilmente ad un bacino d’utenza molto limitato, vista anche la penuria di mezzi che la casa discografica, che esordiva proprio con questo disco e il cui catalogo non ha superato le dieci pubblicazioni, era in grado di mettere a disposizione. Prevedibilmente, il disco non ebbe riscontri di pubblico, complice anche il mutato clima nel mainstream, e di fatto arrestò la carriera solista di Dixon, ripresa solo nel 2001. Queste avversità, tuttavia, non hanno impedito all’album di mostrarsi come un ottimo saggio di rock melodico e “adulto”, tanto da essere ritenuto meritevole di ristampa dalla tedesca AOR Heaven nel 2019, quando tutti se ne erano da lungo tempo dimenticati, riportandolo così ad una più ampia e meritata fruizione.

Con “One”, Carl Dixon sceglieva di percorrere strade parzialmente diverse da quelle battute con i Coney Hatch; non era più tempo, infatti, per le tastiere imponenti di “Friction” (1985). E però il nostro resta sempre legato all’hard rock melodico che ne ha decretato le pur parziali fortune; solo decideva, in questo frangente, di declinarlo in chiave più melodica e al tempo stesso più sobria, non lesinando in arrangiamenti ma mantenendo l’insieme legato a suoni che sanno di concreto, di heartland rock come pure di hard blues, e non (solamente) di plastica patinata. Sul piano della scrittura, invece, vengono tentate più strade, cosicché l’album, complice una notevole ispirazione e una certa varietà, risulta un ottimo riassunto dell’hard rock melodico del decennio allora da poco trascorso: se One Good Reason e Love Strikes si muovono nei territori dei Bad Company epoca “Holy Water”, Good Time To Be Bad fa il verso agli ultimi Bad English; se la compatta The Blood Rises richiama i lavori dei primi Coney Hatch (e consente al chitarrista di sublimare, una volta di più, la sua ossessione per gli AC/DC), Taste Of Love sculetta a braccetto di Def Leppard e Aerosmith; se Treacherous Emotion si staglia per i suoi chiaroscuri AOR, More Than A Memory chiama in causa il compatriota Bryan Adams; se l’acustica Love Is Waiting è un piacevole intermezzo in un clima elettrico (da notare il riff iniziale, fin troppo simile a quello di Fast Car di Tracy Chapman), Little Miss Innocent è un riuscitissimo omaggio ai Thin Lizzy con un pizzico di melodia in più; se Across The Great Divide è una ballata di gran classe che occhieggia al country più patinato, la conclusiva Get Where I Belong sposa magnificamente la causa dell’heartland rock in veste esclusivamente acustica. Certo non tutto è riuscito alla perfezione, come il flebile esercizio AOR di Against The Night o il calligrafico hard edonista di Hard To Leave, Hard To Love, e forse quindici brani in scaletta sono troppi (d’altronde, negli anni ’90 prevaleva l’idea che il CD dovesse essere riempito per tutta o quasi la sua durata), ma la sensazione è che il songwriting e gli arrangiamenti (ma anche i suoni, a cura del veterano produttore Ed Stone) siano stati curati con attenzione, per arrivare a un risultato che rispecchiasse i gusti e le intenzioni stilistiche dell’autore senza rinunciare a dimostrare una certa personalità nel panorama variegato ma dell’hard rock melodico. Tentativo senza fortuna commerciale, come si è detto, ma culminato in un prodotto durevole, capace di regalare emozioni piacevoli anche ad un ascoltatore distante decenni e non esattamente fidelizzato.

Immagino che ciò sia abbastanza per rendere orgoglioso l’autore; di certo basta a me per sentirmi contento nell’apprendere che esistono ancora album del genere, che non cambiano la vita (quali, d’altronde, lo fanno più?) ma che accompagnano piacevolmente e solidamente per un pezzo di strada, che è poi quella che noi scegliamo di fare con loro. Fino al prossimo incontro con un seccatore, magari noto nomine tantum, che pretenda insistentemente le nostre attenzioni in esclusiva.

Il trono scintillante: Night Flight Orchestra – Aeromantic

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Da mercoledì sono costretto a casa da una gastroenterite (o un’influenza intestinale, non si è capito bene; se non altro è escluso il contagio dal fatidico virus che in questi giorni è sulla bocca di tutto il mondo), sicché quale migliore occasione per recensire “Aeromantic”, il quinto lavoro degli svedesi Night Flight Orchestra, uscito lo scorso 28 febbraio? Fiato alle trombe, dunque.

L’album mantiene immagine e immaginario legati agli aerei di linea e al volo che ha sinora caratterizzato la formazione, nel contempo spostando lievemente le coordinate del suono. Infatti, la proposta dell’Orchestra è stata levigata, e ora si appoggia maggiormente al lato più leggero e pop del suono radiofonico del periodo di riferimento, che stavolta sembra essere stato ristretto a un ipotetico 1980-1983, con giusto una puntata nel biennio ’85-’86. Il risultato è un ulteriore spostamento dell’asse sonoro in direzione di orecchiabilità e ballabilità dei brani, pur senza perdere la propria identità, e dunque le fondamenta hard rock che sorreggono il progetto: maggiore spazio è concesso alle tastiere, al basso (incredibile sentirne così distintamente il pulsare in un disco a marchio Nuclear Blast!) e alla cassa della batteria, che spesso detta un tempo “four on the floor” debitore della disco. Nel contempo, però, la scrittura si è fatta più accurata e gli arrangiamenti più ragionati, cosicché, se questo “Aeromantic” è un passo ulteriore verso l’alleggerimento sonoro (la commercializzazione, si sarebbe detto una volta), non risulta uno stacco rispetto a quanto realizzato in precedenza dal gruppo, bensì una naturale evoluzione, magari dettata da esigenze non strettamente artistiche ma pur sempre coerente con il primum movens del progetto, che è sempre stato la celebrazione dell’età dell’oro del rock radiofonico, e quindi il periodo 1978-1989.

Non mancano, quindi, variazioni stilistiche anche rispetto al recente passato, a quel “Sometimes The World Ain’t Enough” (2018) che già vedeva il gruppo applicare al proprio suono una dose rinforzata di patina ottantiana, nella forma di sintetizzatori e produzione scintillante. Ora tali elementi sono stati mantenuti, ma altri e leggermente diversi sono stati introdotti: la presenza più frequente e intensa delle due coriste, udite come mai in precedenza; la drum machine che apre Golden Swansdown, che peraltro è la cosa più somigliante a una power ballad tra le canzoni sinora composte dalla NFO; la tastiera con sequencer che apre il singolo Transmissions, donandogli un’ascendenza moroderiana, come pure il lungo assolo di violino che lo inframezza, in una versione danzereccia di certo metal neoclassico o magari del Rondò Veneziano. Pochi aggiustamenti, certo, ma notevoli in un contesto così “passatista” e utili per conferire sapore a una pietanza che corre il rischio di essere una ennesima riproposizione di un format ben collaudato. Ma le melodie ancora funzionano e scintillano e, nonostante comincino a ripetersi, avvincono ancora con la loro mistura di positività e melanconia: Divinyls ha un ritornello da cartone animato che non si schioda più dal primo ascolto e un ritmo in 4/4 a cui si resiste a malapena, If Tonight Is Our Only Chance assembla AOR dei primi anni ’80 e un ritornello rubato ai Survivor di era Rocky IV, This Boy’s Last Summer apre come gli ABBA e prosegue come una videolezione di aerobica di quelle belle e nei 2:55 di Taurus ci si immagina all’inseguimento dell’amata/o fuggita/o. Qualcosa, ovviamente, non funziona, e infatti una sforbiciata alla tracklist (dodici i brani) e, conseguentemente, al minutaggio avrebbe giovato, ma nel complesso “Aeromantic” è un altro luccicante tassello sulla disco ball che il sestetto svedese ha spedito nella stratosfera da ormai otto anni. Nota a margine: che un disco a marchio Nuclear Blast suoni così dinamico ha davvero dell’incredibile, e anche di questo piccolo dettaglio c’è da rendere merito all’Orchestra (produce il gruppo e mixa il tastierista-multistrumentista Sebastian Forslund). Chissà che alla casa discografica se ne accorgano e riflettano.

In conclusione, un disco piacevole e godibile per più ascolti, con cali più vistosi che nelle uscite precedenti ma con una sua autonomia nel catalogo del gruppo. E anche se il gate è spalancato, perché indugiare nell’imbarcarsi?

Ci sono persone che sanno tutto, e purtroppo è tutto quello che sanno: Planet 3 – Music From The Planet

planet 3 - music from the planet

Aveva ragione Son House buonanima: null’altro è il blues se non un freddo che duole laggiù nel profondo, e beato te se non l’hai mai avuto. Perché, quando ti coglie, hai voglia a mandarlo via, e non sempre il rimedio che funziona una volta si rivela efficace anche quella dopo.

Ieri era una di quelle giornate in cui inopinatamente insorge quella sensazione, e allora le ho provate tutte: cibo buono, compagnia giusta, musica celestiale (i dodici concerti grossi dell’opera 6 di Corelli eseguiti dall’English Concert sotto la direzione di Trevor Pinnock; esperienza, l’ascolto, poco meno che ineffabile) o sagace (“Soul Station” e “Roll Call” di Hank Mobley; melodie irresistibili del sassofono più misconosciuto dell’hard bop acclimatate al magistrale understatement pianistico di Wynton Kelly e, soprattutto, sospinte dal sopraffino drive ritmico di quel gigante che risponde al nome di Art Blakey) o nuova (“40” degli Stray Cats, il loro primo album di inediti da venticinque anni, appena uscito e per il quale vale lo stesso discorso fatto per gli Whitesnake). Ma niente, non funziona nulla stavolta, e quindi mi trascino sotto il cielo livido, sperando che prima o poi passi da sé, come solitamente avviene quando nemmeno i conforti sonori leniscono l’assetto saturnino. Finché, all’improvviso, qualcosa succede, qualcosa che riporta il sorriso, incerto e filiforme eppur sempre tale. Una scoperta, l’ennesima serendipity che volta per volta ci spinge, nostro malgrado, a sopportare molto, a tratti persino troppo.

Planet 3 significa che sono coinvolte tre persone. Nel caso di specie, non tre qualunque, ma Jay Graydon, Glen Ballard e Clif Magness. Il primo è stato tra i primi teorici del rock radiofonico sin dalla fine degli anni Settanta, con i (ogni tanto è aggettivo appropriato) seminali Airplay e soprattutto in fase compositiva (assieme a David Foster) e in studio, quale chitarrista, e per scoprire come dietro a molto di ciò che nei decenni è stato prodotto ai livelli di massima professionalità discografica ci sia il nostro uomo vi rimando ai soliti siti compilativo-enciclopedici. Il secondo è uno dei massimi autori di canzoni per conto terzi, e anche qui è meglio una cursoria ricerca telematica che un’elencazione sterile e inevitabilmente incompleta. Il terzo, il meno noto dei tre, è turnista chitarristico di lusso e autore in proprio di una gemma minore dell’AOR anni Novanta, quel “Solo” (1994) che sapeva unire la maggiore sobrietà richiesta dalla nuova decade alla potenza lussureggiante del suono rock pensato con in mente solo o quasi la fruizione radiofonica. Eminenze grigie, insomma.

Il giro dei professionisti del settore, tutti o quasi gravitanti su Los Angeles, è talmente ristretto che diventa in un certo senso inevitabile incontrarsi e, a volte, piacersi e decidere di collaborare. La solita storia tra umani, insomma. E quindi dall’incontro tra Graydon, Ballard e Magness, a inizio anni Novanta, nascono i Planet 3, progetto di studio con giusto un paio di uscite concertistiche nella zona di residenza, che nel 1991 debuttano con dieci canzoni scritte, suonate, registrate e prodotte in proprio. Naturalmente gli Stati Uniti di inizio anni Novanta sono un contesto non semplicissimo per commercializzare la proposta melodica e ariosa dei tre, e quindi non stupisce sapere che il loro debutto esce innanzitutto in Giappone a nome “A Heart From The Big Machine”, e forse qualcosa sulla valentia della formazione (o sugli agganci dei suoi componenti all’interno dell’industria, fate voi) lo dice il fatto che rechi il marchio della Columbia. Del resto, l’una o l’altra impressione resta confermata dal fatto che la stessa Columbia faccia uscire il disco l’anno seguente in Svezia, stavolta a nome “Music From The Planet” e con la conclusiva I Will Be Loving You sostituita da Ever After Love. Tracklist mantenuta anche nelle successive stampe tedesca (su Beverly Records, 1994) e americana (su Sonic Thrust, 2002), e che, nonostante il tempismo storico non perfetto, il disco abbia avuto qualche riscontro, sia pure di culto, sembra potersi sostenere in base alla scelta della Aor Heaven di ristamparlo, sempre nella versione europea, nel 2011.

Perché tanto interesse per un disco obiettivamente minore, nato con intenti smaccatamente commerciali ma sin da subito o quasi predestinato al quieto alveo del cult e come tale insinuatosi nelle orecchie e nei cuori di un manipolo non numeroso di appassionati? Dopotutto, i suoni sono irrimediabilmente datati, costruiti su batterie sintetiche o poco meno e tastiere dai suoni temporalmente ben circoscritti (anche se nella popular music mai dire mai), e non si vede chi potrebbe volersi giovare di un album del genere, che peraltro si colloca al di fuori di ogni schema mercantile attualmente e da ormai un ventennio praticato per l’AOR, ossia quello di alzare volumi e distorsioni per venderlo al pubblico dell’hard rock e/o ai nostalgici del Sunset Strip anni Ottanta, stante che qui predominano le stratificazioni vocali, i ritmi medio-lenti, la misuratezza chitarristica e l’ossessivo cesello melodico tipici della frangia West Coast dell’AOR, oggi praticamente rimossa dalla memoria collettiva degli ascoltatori. Perché, dunque? Per la sua qualità.

“Music From The Earth”, o come si ritiene di chiamarlo, è un disco di qualità, fatto da chi di musica pop e rock (“musica” intesa in senso ampio, e dunque come composizione, arrangiamento, esecuzione, produzione, registrazione, missaggio) se ne intende, perché è ciò che fa di mestiere da decenni e ai massimi livelli. Musica da professionisti del coinvolgimento pensata per chi, inizialmente conquistato dalla maestria melodica, non disdegni di soffermarsi sugli aspetti non immediati dei brani e di gioire del talento dispiegato. Sarà poco, patetico o farisaico, non sarà rock ‘n’ roll, ma è molto (mi pare molto, quantomeno) in questi tempi di Auto-Tune e Pro-Tools. Perché, poche ciance, ormai sappiamo bene che la tecnologia non è mai neutra. È, questa, musica sfigata, in ogni senso, ma che, forte della sostanza che ne sorregge la creazione, sa prendersi le sue rivincite; potremmo dire che è musica nerd, se il termine non fosse, oggi, ormai completamente compromesso.

E così Born To Love conquista con un ritornello alla Tim Feehan, From The Beginning è un distillato di solarità californiana e ad ogni ascolto la power ballad Insincere (unico tra i brani ad essere stato registrato dal vivo) suscita interrogativi sul perché non sia un classico ad oggi riconosciuto, al pari di una Always o di una I Don’t Want To Miss A Thing. Il prosieguo cala un po’ in qualità, pur restando di spessore, salvo rialzarsi in esito con il brillante synth-pop di Modern Girl. Da saltare, però, Ever After Love, aggiunta posticcia della stampa europea e probabilmente motivata dall’esigenza di arrivare a un minutaggio sufficiente a giustificare un’uscita in CD, e nemmeno paragonabile al livello di ciò che la precede, mentre confesso di non avere ascoltato né la “giapponese” I Will Be Loving You né la Dreamers che la AOR Heaven ha ritenuto di porre a fondo scaletta nella ristampa del 2011 dell’album. Che, con qualsiasi tracklist, resta fonte di sorriso assicurato; con la claims made, beninteso: denuncia in vigenza di contratto per danni prodottisi in vigenza di contratto. Altrimenti inculati, e scegliete voi su quale vocale mettere l’accento, ché tanto è noto chi vince e chi perde, sorriso o meno.

Ah, ci sarebbe “Gems Unearthed”, raccolta di demo di quelle stesse sessioni pubblicata da Graydon nel 2004, ma tornerà buono per un’altra giornata dal cielo blues. Nel frattempo sul mio piatto da ieri sera gira già “Pampered Menial”; è proprio vero che Insincere avrebbe dovuto essere una hit.

Bella e d’annata.

Brevi aneddoti di ciò che è e ciò che non dovrebbe mai essere.

herbie mann - muscle shoales nitty gritty

Herbie Mann è una figura tutto sommato poco nota, soprattutto al di fuori del jazz, nonostante una carriera quasi cinquantennale e una varietà stilistica poco usuale nell’ambito di riferimento; circostanza forse dovuta allo strumento di elezione, il flauto traverso, che poco appeal ha per le masse e che conosce rilevanti limitazioni sonore. Ciò, tuttavia, non ha impedito al nostro uomo di attraversare a testa alta diverse epoche musicali, dal bebop al soul-jazz fino alla disco e oltre, e di realizzare taluni dischi di ottimo livello. Tra questi si segnala proprio “Muscle Shoals Nitty Gritty”, classe 1970 e si sente tutto. Registrato, naturalmente, a Muscle Shoals, Alabama, e anche questo si sente eccome, i musicisti quelli che hanno prodotto gli esiti a tratti leggendari a marchio Stax o Atlantic (Barry Beckett, Roger Hawkins, Eddie Hinton, David Hood, Wayne Jackson, Andrew Love) e a coronamento l’apporto di quel maestro del groove che è il vibrafonista Roy Ayers. Ne esce un capolavoro di jazz che, imbevutosi come da titolo del soul più rustico e verace, è pronto ormai a trasmigrare nel funk senza per questo barattare la ricchezza armonica per il coinvolgimento ritmico; su questi presupposti, classificarlo come jazz ci può stare (valga, al riguardo, il posizionamento al numero nove della classifica di Billboard dedicata al genere), ma sarebbe nondimeno riduttivo. Nel fluire non-stop delle suggestioni, una menzione speciale va fatta per la curiosa rilettura di Come Together dei Beatles, a cui il basso dell’ospite Miroslav Vitous dona una particolare ed avvolgente elasticità ritmica. Nel mio locale ideale, prima di una certa ora e dopo una certa ora la musica è questa.

jimmy smith - the cat

In inglese lo chiamano bachelor pad jazz, jazz per appartamento da scapolo, e che mi venga un colpo (cit.; cit. Carson, naturalmente) se la definizione non è perfettamente appropriata per descrivere una musica il cui scopo precipuo è di fungere da elegante sottofondo per attività lato o stricto sensu edonistiche: piacevole se effettivamente ascoltata ma mai invadente al punto da richiedere attenzione; idonea a coprire eventuali pause di silenzio della conversazione o a commentare sornionamente fruscii di durata e intensità variabili (della puntina, beninteso); stimolante per menti e, all’occorrenza, corpi abbisognevoli di intrattenimento. In questo ipotetico sottogenere psico-musicale, quasi esclusivamente strumentale, l’organo elettrico troneggia, siccome strumento dai plurimi registri e dal timbro variabile, capace di carezzare e di schiaffeggiare, di liquidità come di consistenza. Ma il solo organo a lungo andare stanca (sic!), e dunque quale miglior modo per stemperarne la monotonia polifonica che non affiancargli un’orchestrina organizzata sul modello delle big band dello swing ma in formato ridotto, in grado di apportare ulteriori spinta ritmica e policromia sonora e di atmosfera? Il dubbio deve essere venuto anche a Jimmy Smith, l’uomo che ha sdoganato l’Hammond in ambito jazz, perché nel 1963, un anno dopo essere passato dalla Blue Note alla Verve, decide di collaborare con Lalo Schifrin, compositore e arrangiatore argentino in bilico tra jazz, musica brasiliana e colonne sonore (opera sua, in un futuro allora relativamente lontano, l’immortale tema di “Mission Impossible” e l’inquietante funk elettrico posto a corredo dei film che vedono protagonista l’ispettore Callahan). Ne esce una delle pietre miliari del jazz per scapoli (più C.C. Baxter che Rudy Radcliff, a onor del vero), dove l’organo sa accentare sornione scopofili passaggi blues senza dimenticare di esibirsi in impennate di guizzanti cromatismi da maschio alfa, mentre gli ottoni incitano e punteggiano e rinfocolano e la sezione ritmica sospinge con dolcezza e senza rudezza veruna. Insomma, un sound (av)vincente per chi non può rinunciare e nondimeno non vuole legami. Eccetto che con la musica.

jimmy davis & junction - kick the wall

Da un Jimmy all’altro e il cambiamento è totale, perché il qui sopra effigiato Davis è stato una fulgida meteora della stagione d’oro dell’AOR, con un unico album, questo “Kick The Wall” del 1987, a lungo dimenticato e ristampato solo nel 2017 in Australia. Gran peccato, perché il contenuto è solido e costituisce, complice forse la provenienza del leader e dei suoi Junction (il chitarrista Tommy Burroughs, il tastierista John Scott e il batterista Chuck Reynolds) da Memphis, uno di più validi esempi di collegamento tra il suono patinato dell’AOR e la solidità anche concettuale dell’heartland rock che da John Mellencamp arriva a certo country ruffiano ma a suo modo autentico: emblematiche sul punto la sudista Shoe Shine Man, come dei Georgia Satellites che incidono per la Stax, e Why The West Was Won, tra Blasters e Bryan Adams. Siamo a metà degli anni Ottanta, però, e si sente, soprattutto nella ballad Just Having Touched, che i ricami pianistici e il languido sassofono riconducono al tipico AOR soft del periodo (certe cose di Michael Bolton, ad esempio), nonostante tra i solchi allignino rocker di tutto rispetto come Over The Top, in grado di insegnare un paio di cosette a Stan Bush, e l’emblematicamente intitolata Are We Rockin’ Yet?, impreziosita dalla slide di Joe Walsh. Disco emblematico del periodo e tuttavia (o forse per questo) dalla scrittura solida, dall’esecuzione impeccabile e dalla produzione accurata, “Kick The Wall” non ebbe fortuna, nonostante un certo riscontro guadagnato dal video della title-track su MTV, finendo per pagare in maniera probabilmente troppo salata il suo porsi al crocevia tra mondi, quello scintillante e (sub)urbano dell’AOR e quello down home del southern e dell’heartland rock, apparentemente inconciliabili. Di esso, dunque, non è inutile né sgradita una riscoperta.

Aerosmith-Music-From-Another-Dimension

Sedici tracce per oltre settantadue minuti, e già questo basterebbe. Ma, volendo fare le cose in grande, si possono aggiungere gli altri tre brani della versione deluxe, per ulteriori tredici minuti circa. Neanche fossimo a inizio anni Novanta, quando sembrava che ciascuno dei settantaquattro minuti di musica a disposizione del CD, supporto ormai assurto definitivamente a standard dell’industria, dovesse essere riempito ad ogni costo. Del resto, che i cinque bostoniani ancora considerino l’inizio dei Novanta come una loro personale età dell’oro è evidente, giacché è da allora che la qualità media dei loro dischi ristagna pericolosamente, nonostante occasionali guizzi, come fa notare il guru John Kalodner. Non sorprende dunque che l’ultimo lavoro discografico degli Aerosmith in ordine di tempo sia proiettato a recuperare almeno in parte la, beh, magia del periodo che va da “Permanent Vacation” a “Get A Grip”. A voler essere più prosaici, si può ritenere questo “Music For Antoher Dimension!”, ormai vecchio di sette anni, il probabile epilogo discografico della formazione di Steven Tyler, al netto delle raccolte e dei dischi dal vivo ormai di prammatica; come valutare, altrimenti, il coinvolgimento del chitarrista Rick Dufay, che sostituì Brad Whitford nel periodo 1981-1984 (circostanza che, peraltro, ben dimostra le gerarchie interne al gruppo, atteso che di Jimmy Crespo, sostituto di Joe Perry dal ’79 all’84, non c’è traccia nella lista degli ospiti)? È dunque comprensibile che in questa uscita gli ormai non più giovani musicisti abbiano voluto convogliare tutte le presunte buone idee partorite e elaborate negli ultimi anni, ossia dal poco meno che tedioso “Just Push Play”. E il risultato è valido ma interlocutorio: infatti, se l’album si fosse limitato ai primi otto brani (che durano comunque 37:23 minuti), “Music From Another Dimension!” si porrebbe inequivocabilmente come il miglior disco degli Aerosmith dal 1993, a tratti arrivando persino a insidiare “Get A Grip”, che ha sì picchi inarrivabili, ma anche una certa stanchezza nella seconda metà; così, invece, zavorrato dall’eccessivo minutaggio e dalle idee non sempre a fuoco, resta “solo” una solid(issim)a testimonianza di quella che ebbe il fegato di autodefinirsi la più grande rock ‘n’ roll band d’America e, in ogni caso, un ascolto che è piacevole ripetere numerose volte. Nota a margine: produce Jack Douglas, l’artefice del suono Aerosmith dell’epoca d’oro, e si sente. Eccome se si sente. Salutiamo gli Aerosmith incisi, dunque, e con loro tutto un approccio a come registrare e far suonare i dischi.

‘cause I’m: “Hey Teen!”. Minimo annuario discopatico.

Esiste solo una cosa più da sfigati che comprare “Dookie” in CD nel 2018 e ben dopo aver compiuto i trent’anni: macchiarne il libretto con la zuppa di verdure. Surgelata.

È con questa consapevolezza che mi accingo a riferire pillole musicali dell’anno ormai trascorso, che ha visto meno lutti di quello andato (anche se Vinnie Paul…) ma anche meno dischi memorabili. D’altronde il ’18 è l’anno della vittoria, ed è fisiologico rilassarsi un po’. Dite di no, che non ci rilassiamo proprio per niente? Oh beh, peggio per voi: io ho “Dookie”. Sì, beh, quasi.

Auguri.

Dischi notabili

1. JUDAS PRIEST – FIREPOWER
Ne ho scritto a caldo qui e confermo tutto. Dal vivo a Firenze, poi, i pezzi nuovi non hanno per nulla sfigurato a fianco dei classici, e questo vorrà pur dire qualcosa. Col passare del tempo e degli ascolti il valore dell’album si è normalizzato, ma resta comunque la migliore uscita dei Priest dai tempi di “Painkiller”, confermando che proprio quando è data per spacciata la formazione inglese dà il meglio di sé. Il futuro è ignoto, ma un simile congedo discografico sarebbe un trionfo.

2. VISIGOTH – CONQUEROR’S OATH
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Del quintetto di Salt Lake City e del suo secondo LP non si dirà mai abbastanza bene: heavy metal epico in senso tradizionale, possente ma non troppo veloce, zeppo di cori pensati per infondere coraggio sul campo di battaglia e di fraseggi di chitarra armonizzati che allargano lo spazio come un coro in una cattedrale gotica, prodotto al meglio ma con in mente la tradizione (“si sente che anche il produttore era in cotta di maglia!“, l’immortale commento di un amico), non troppo lungo e sempre memorabile (anzi, quasi sempre, Salt City un boogie trascinante ma stilisticamente e tematicamente fuori luogo). Non a caso griffato Metal Blade. Se non il disco dell’anno, senz’altro nel Valhalla con i migliori.

3. LUCIFER – LUCIFER II
Qui

4. THE 16 EYES – LOOK
Qui

5. THE MORLOCKS – BRING ON THE MESMERIC CONDITION
Qui

6. THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA – SOMETIMES THE WORLD AIN’T ENOUGH
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Neanche dodici mesi dopo l’ultimo album (di questi tempi, converrete, fa notizia, se uno non si chiama Ty Segall), i cinque svedesi tornano con il quarto LP in sei anni, confermando l’ottimo stato di salute di cui godono. La struttura è la solita: apertura con un brano tirato di hard rock simil-Seventies; prosieguo con addolcimenti tastieristico-melodici; singolo effettivo o potenziale in terza-quinta posizione; dosaggi variabili degli ingredienti predetti fino al congedo, preferenzialmente affidato a una stesura articolata ed evocativa. Però funziona anche stavolta; rischiando qualcosa nell’aggiungere ulteriore patina medio-ottantiana a una formula collaudata ma riscuotendo appieno i profitti del rischio, e basti a conferma il solo lato A dei quattro: This Time straccia i Rainbow post-Dio al loro stesso gioco, Turn To Miami si regge sui chiaroscuri di indolenza sensuale e pericolo tropicale evocati già dal titolo, Paralyzed riscrive in melius gli anni Ottanta dei Doobie Brothers e la title-track è purissimo e scintillante AOR come non se n’è sentito quest’anno. Io continuo a preferire il precedente “Amber Galatic”, ma qui siamo al vertice del catalogo del gruppo e del genere; ammesso che sia uno solo. Il catalogo.

7. THE CREATION FACTORY – THE CREATION FACTORY
CREATIONFACTORY
Quest’anno le sonorità di area Sixties non hanno dato frutti migliori di questo quintetto californiano alla prima prova sulla lunga distanza, che, complice una ragione sociale inequivocabile, un’immagine filologicamente ineccepibile e una produzione manieristicamente perfetta, mette a segno una delle uscite di area più godibili del giro intorno al sole. Un Bignami, potremmo chiamarlo; perché c’è dentro molto di ciò che conta: i Beach Boys in You Be The Judge, i Rolling Stones in Girl You’re Out Of Time, i Kinks in I Don’t Know What To Do e Why Can’t You Make Up Your Mind, i Them in I Want To Be With You, i Creation in Without You, i Byrds in Spring Ain’t Gonna Let You Stay e i 13th Floor Elevator in Hallucination Generation. Il tutto filtrato attraverso la sensibilità della quarta generazione di revivalisti dei Sixties, che ha assimilato ciò che è accaduto medio tempore ma resta fermamente intenzionata a riportare in vita al meglio possibile l’aura quantomeno sonora del decennio principe del rock. Revival o meno, il risultato è eccellente per scrittura, esecuzione e resa. Non resta che ascoltare e sperare silenziosamente che il debutto non diventi anche la tomba dei Creation Factory.

8. GHOST – PREQUELLE
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Un perfetto esempio di somma paraculaggine musicale, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost. Lima le asperità del precedente e vincente “Meliora” con una carta di grana fina che chiama in causa gli anni Ottanta di Def Leppard e Savatage, ma anche ABBA e Pet Shop Boys, per imbastire un vero e proprio blockbuster, pensato per essere un “Trash” o un “Hey Stoopid!” del terzo millennio, e riuscendoci perfettamente. Il plauso è stato ampio ma non generale, e ognuna delle opinioni non è implausibile. Certo è che la prestazione dei musicisti e del cantante è ancora una volta superlativa. Certo è che la scrittura è stata raffinata ai massimi livelli. Certo è che l’immagine, ancora una volta reinventata dal diabolus ex machina Tobias Forge, funziona e affascina come prima più di prima. Certo è che un singolo incisivo come Dance Macabre il rock non lo sentiva da tempo. Certo è che i Ghost sono i principali candidati a fare da headliner ai festival estivi dei prossimi anni, quando i veterani via via si ritireranno. Certo è che “Prequelle” ce lo si gode. Last but not least per merito della produzione di Tom Dalgety, capace di tenere insieme arrangiamenti articolati ed esigenze commerciali odierne, e del missaggio di un veterano del calibro di Andy Wallace, che dosa sapientemente la densità dei singoli strati sonori, adagiandoli l’uno sull’altro fino a fonderli in un unicum pieno ed avvolgente. Un capolavoro di professionismo, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost.

9. TH’ LOSIN STREAKS – THIS BAND WILL SELF-DESTRUCT IN T-MINUS
th'losin streak - this band will self destruct in t minus
Dopo quattordici anni da un debutto, “Sounds Of Violence”, che aveva fatto sobbalzare non pochi adepti del più selvatico sound garagistico, i quattro di Sacramento sono infine tornati insieme nel 2010 e quest’anno, dopo un acclamato tour europeo, hanno messo insieme un secondo album, anch’esso edito per la solita Slovenly Records e anch’esso selvaggio e urgente come ci si poteva aspettare dalle Scie Perdenti. Ma “This Band…” non è un calco del suo predecessore, perché inietta nella formula di sgangherato rock ‘n’ roll del gruppo una vena distintamente danzereccia e un senso della melodia di matrice mod che, se a tratti smorzano il flusso di elettricità, nondimeno conferiscono all’album una sua identità in un panorama anch’esso ormai fattosi affollato. Lo si può definire freakbeat, merce non particolarmente frequente in terra americana, e se uno come Tim Warren si prodiga a definirlo il migliore inciso quest’anno ci si può accodare senza troppe remore. Ciò che conta, dopotutto, è che la scrittura si mantenga di livello per tutte le tredici tracce, e questo disco, forte dell’adrenalina fuzzosa di (This Man Will Self-Destruct In) T-Minus, dell’esuberanza mod di You Can’t Keep A Good Man Down, dei richiami ai Creation di Order Of The Day e di quelli ai Kinks di  Falling Rain, lo fa. Non perfetto ma potentissimo e sempre coinvolgente, il secondo album dei Th’ Losin Streaks svetta per la splendida copertina, senza dubbio la migliore dell’anno. Avercene, di band che si autodistruggeranno così bene.

10. THE MARCUS KING BAND – CAROLINA DREAMS
marcus king band - carolina confessionsTerzo LP e terzo centro per la formazione del chitarrista e cantante del South Carolina, che a ventidue anni dimostra un’abilità di scrittura e una padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi a dir poco sbalorditive. Ancora una volta tiene banco il Sud, principale serbatoio musicale americano e quindi inesauribile fonte di ispirazione per chi voglia mettersi dietro a un microfono con una chitarra in braccio. E the South does it again su “Carolina Confessions”, titolo che cita i sogni della Marshall Tucker Band (che però muoveva dal North Carolina) e scaletta parimenti da sogno con la partenza inarrivabile di Where I’m Headed, le acustiche degli Allman post-Fillmore che convivono sorridenti con i fiati di Otis Redding, e il prosieguo affidato al dramma di Goodbye Carolina, dove il country di Alan Jackson (Midnight In Montgomery) è trafitto al cuore da una slide carica di pathos come quella di Warren Haynes. E da qui in poi, tra il soul ancheggiante di Homesick, l’inchino ad Ike e Tina di How Long, il sofferto lirismo blues di Confessions e lo sterrato imboccato per fuggire da Memphis sulle note di Welcome ‘Round Here, niente è meno che meraviglioso. Un atto d’amore verso il southern rock che nulla ha di nostalgico o didascalico e molto, anzi tutto, di sincero e sentito. Probabilmente il disco dell’anno, e in ogni caso una plausibile ragione per ritenere migliore soffrire e trascorrere sotto un cielo blu a cinquanta stelle anziché sotto uno rosso a cinque.

Altre pillole di 2018
Immortal – All Shall Fall
: manca Abbath ma non conta nulla, perché è tornato Demonaz e i suoi riff thrasheggianti esaltano come non hanno potuto fare in questi years of silent sorrow. Non ci si crede che sia così consistente, eppure lo è; come il male, quello vero. Sento solo freddo, tanto freddo, fuori e dentro me.

Cranston – II: le parti strumentali di chitarra e tastiera sono in mano a Paul Sabu, uno che sa quello che fa. La voce, appartenente a tale Phil Vincent, sfoggia credibilmente un timbro ruvido e bluesy simile a quello che David Coverdale ha ormai perduto. Nel mezzo un valido esercizio di hard rock melodico, che bascula in zona hard blues ma non per questo disdegna l’AOR più virile. Uscita sottotono ma seconda a nessuno dei monicker più blasonati del genere.

Monstrosity – The Rise To Power
Una gradita sorpresa. Non che ci siano dubbi se ascoltare questo o “Millennium”, ma fa piacere saperli ancora vivi e ancora in forma, capaci di declinare il classico suono brutal death della Florida senza cadere negli opposti tranelli del revivalismo e dell’ultratecnicismo iperprodotto. Solo la morte resta uguale a se stessa, dopotutto. La morte, appunto.

Blackberry Smoke – Find A Light: I soliti grandiosi georgiani, leggermente più tirati a lucido di prima ma sempre a fuoco nella scrittura e nell’esecuzione. È legittimo preferire ciò che è venuto prima, ma i Blackberry Smoke restano il migliore gruppo southern rock al mondo (o magari il secondo, dopo la Marcus King Band).

L’altro 2018
The Feelies – Crazy Rhythms

Il primo vagito del college rock. Praticamente i Television risuonati dai R.E.M. con Maureen Tucker alla batteria, mentre i Weezer sbavano tra il pubblico. Forse il più sconosciuto classico del rock. Chissà perché, poi.

Greg Guidry – Over The Line
Chiamiamolo yacht rock ché va (ancora) di moda. Ma scritto bene, arrangiato meglio, eseguito a livelli stratosferici e prodotto come non si fa più. Il fatto che non sia reperibile in digitale se non da un paio d’anni scarsi dice chiaramente che non è un disco per tutti, ed è giusto e bene così.

Orchid – Capricorn
Per tanti è passato senza lasciare traccia, archiviato nell’affollata sezione di cloni dei Black Sabbath. A me ha lasciato un segno, e non so spiegare perché; forse perché condensa meglio di qualunque altro disco mi venga in mente il lato che preferisco di Iommi & co., quello della potenza poderosa e dell’impietosa ineluttabilità, e tanto mi basta a preferirlo negli ascolti a “Volume 4” e “Sabotage”, nientemeno. Sarà campanilismo zodiacale. Tenere un blog di musica mica è necessario, in effetti.

The Gruesomes – Gruesomania
Il migliore album garage di quelli non usciti negli anni Sessanta, e anche con quelli è battaglia serrata. Provateci voi ad ascoltarlo senza fare casino (rumore o altro).

Billy May –  Johnny Cool Soundtrack
Uscito nel 1963, “Johnny Cool” è un omaggio anni Sessanta alla stagione più feconda del noir, gli anni Cinquanta, e, nonostante il cast prestigioso e la regia solida, è poco più che il giusto intrattenimento per una serata qualunque. La colonna sonora, però, è opera di Billy May, uno dei più grandi arrangiatori dell’era swing e oltre, e ha quindi assunto una minuscola dimensione di culto per la sua capacità di affrescare vividamente le atmosfere stilose, minacciose ma invitanti, del noir con un precisissimo dosaggio dello spettro tonale e una padronanza somma della dinamica. Praticamente tutta strumentale (tranne la ballata finale, intonata da Sammy Davis Jr.) e affidata alla versatilità di una big band, questa colonna sonora è jazz per jazzofobi, noir per sorridenti, classe a buon mercato; non ne starei parlando, altrimenti. Ottimo il suono dell’edizione in CD su Ryko (l’unica etichetta che fa le jewel case verdi).

Damnatio memoriae
Incertum habeo
eccetera, quindi fate voi. Mi limito a rilevare che oggi, dopo tutti questi anni, ho finalmente capito perché quella volta al referendum ha vinto la repubblica: perché l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re. E comunque quest’epoca streamingzita fa schifo.