Stripped of your life’s worth.

Il successo di Angel Of Death degli Slayer è, forse paradossalmente, il miglior supporto che ci possa essere alla memoria dell’Olocausto: nessuno che la abbia ascoltata può dimenticarsi dell’esistenza della Shoah, e questo a prescindere dal valore musicale, evidentemente altissimo, del brano.

Naturalmente non è tutto così ovvio. Infatti, se l’immortale distico di apertura “Auschwitz/The meaning of pain” può essere utile alla causa della Memoria, il seguente verso “The way that I want you to die” può senz’altro ingenerare controversie. Ovviamente ognuno tira la coperta dalla sua parte: qualcun altro potrebbe appoggiarsi ai versi “Sickening ways to achieve the Holocaust” e “Infamous butcher Angel of Death” per perorare la posizione contraria. Ma non è questo il punto.

Il punto è questo: l’effetto ultimo è che chiunque abbia sentito Angel Of Death ne è rimasto colpito, in un modo o nell’altro, e probabilmente non dimentica che ci sia stato l’Olocausto e, in una certa misura, in cosa sia consistito. E tanto basta.

Poi, naturalmente, ci sono i critici competenti che ti spiegano (?) che non è affatto vero. Ma, per qualche motivo, gli Slayer non sono mai stati cancellati da festival più o meno importanti con l’accusa di essere apologi del nazismo o dei suoi ideali, e questo vorrà pur dire qualcosa.

Ricordare è importante; per chi ha sentito Angel Of Death, dimenticare è impossibile.

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Touch me I’m six.

Ed ecco passato un altro anno di Note in Lettere, in cui il calo di lettori e di visualizzazioni è netto rispetto al 2018 nonostante il pari numero di articoli. Lo so, la musica ha rotto il cazzo (cit.), ma anche i blog, a quanto si sente in giro, non sono messi meglio. Ci sta. L’unica speranza è che tutto ciò non diventi muffito come, chessò, un triplo live degli Yes; quello stesso che sta andando sul giradischi nell’altra stanza mentre vergo queste righe, indeciso se tenerlo o destinarlo altrimenti. E anche il disco.

Come che sia, grazie a tutti (e tutte) coloro che hanno voluto a vario titolo di consapevolezza partecipare a mantenere aperta questa finestra italografa (sì, beh, quasi; d’altronde anche Seneca era spagnolo ma scriveva in latino) su musica e vibrazioni varie, come sancisce la sezione “About” con una sobrietà ineccepibile quanto inesistente in rerum natura. Salut…cioè, grazie.

Come il vibrar di una molla: Dick Dale (1937-2019)

Dick_Dale

Un modo per dare un senso all’albosepolcrale festa del papà è celebrare un vero padre, qualcuno che ha dato origine a qualcosa di rilevante per la vita.

Il 16 marzo scorso è venuto meno l’ottantunenne Richard Mansour, in arte Dick Dale. La vulgata lo ricorda come “il chitarrista di Pulp Fiction”, alludendo a quella Misrilou che adorna i titoli di testa del film e che gli ha dato fama e profitti imperituri, ma non è per questo, o meglio non soprattutto per questo, che Dick Dale merita di essere ricordato, quanto, piuttosto, per essere stato uno dei più grandi innovatori e pionieri della chitarra elettrica: sua, infatti, è stata l’idea di usare il riverbero degli amplificatori Fender, per creare il suono spazioso e liquido della musica surf. Senza parlare della sua innovativa tecnica chitarristica, fatta di rapidissime pennate alternate che scandiscono melodie veloci e ossessivamente intense; accorgimento che non solo richiese un’ulteriore elaborazione degli amplificatori, ma anche l’uso di corde più spesse di quanto al tempo, i primissimi anni Sessanta, comunemente in uso, salvo poi diventare lo standard in epoca successiva e tuttora. Mancino, virtuoso, primo vero poster boy della Stratocaster (Buddy Holly ancora troppo compositore e Buddy Guy troppo stilisticamente settoriale) e consapevole del suo ruolo di strumentista d’eccezione, Dick Dale è stato il primo vero guitar hero, figlio adottivo della California (vi migrò diciassettenne con la famiglia, nel 1954) e del melting pot d’oltreoceano (padre libanese, madre polacco-bielorussa). Un Hendrix o un Eddie Van Halen ante litteram, insomma, capace di valorizzare le proprie radici inserendole nel vasto e allora plasmando campo del rock, introducendo nello stile chitarristico scale proprie della musica mediorientale e ampliando enormemente il vocabolario di tutti i chitarristi rock, a quel tempo fermi alla struttura armonica del blues e alla scala pentatonica.
Ecco perché Dick Dale è un padre. Nostro padre.

Il suo lascito musicale si compone di nove LP di materiale originale; pochi, per una carriera ultracinquantennale, ma monito del fatto che nel momento del massimo successo del nostro e del surf (1962-1964) l’industria andava principalmente a 45 giri. Sono quindi i singoli episodi il miglior modo di ricordare quest’uomo che tanto ha dato alla musica pur mantendendo sempre un basso profilo (eccetto che sul palco, dove non si è mai risparmiato): oltre al superclassico Misrilou (che, peraltro, è il riadattamento di una canzone tradizionale del Mediterraneo orientale), la sincopata Let’s Go Trippin’ (anticipo sulla Summer of Love?), la programmaticamente intitolata Shake ‘n’ Stomp, la frenetica rilettura del traditional ebraico Hava Nagila (a dimostrazione che il Mediterraneo è pur sempre il Mediterraneo) e la confessoria King Of The Surf Guitar. Una qualsiasi raccolta di singoli, insomma.

Il re della chitarra surf: questo è stato, il nostro Dick. Un re, il nostro Dick. Una vera festa del papà, non c’è che dire.

Bye Byalla, Richard.

Uno in più con noi.

Oggi Note in Lettere entra nel suo sesto anno, dopo essere stato, magari lo ricorderete dal tredici ottobre scorso, five years dead. Non se la passa granché numericamente (i post ben al di sotto dell’auspicata media di due al mese) e qualitativamente (futili sbrodolamenti personali e recensioni anodine in luogo di meditati approfondimenti), ma finché taluno seguita a capitarci pure intento in tutt’altre e più prosaiche ricerche, quelle sì indubbiamente meritevoli di approfondimento, tanto vale continuare a restare quivi abbarbicati. Nemo dat quod non habet, in ogni caso.

Ma non ci sono segreti: come sempre, il tempo è nei Journey, che passano pigri e lasciano in bocca il gusto del SAL. Approvato anche stavolta, spero e temo, ma niente a che vedere con calvizie elettriche capaci di suscitare plausi continentali e oltre, ché qui domina un’ipertricosi inestricabile, attrito all’azione e alibi concettuale per un trogolo passatista con istromento d’avvenire (quello di una volta). Qualcuno deve pur farlo, dopotutto.

Vediamo come va. E dove.

Agosto madre mia se ti conosco.

Quando la temperatura sembra raggiungere vertici prima ignoti e nemmeno la notte, ossia il momento in cui la canicola dà o dovrebbe dare un po’ di tregua, porta ristoro, occorre prendere provvedimenti. Ma cosa fare se il caldo intollerabile non solo persiste anche durante la notte, ma ha stabile alloggio dentro? Cosa fare se la calura opprimente null’altro produce se non sudori freddi, che dalla fronte incrociano gli occhi in perpendicolare e ne offuscano lo sguardo?

La notte è il tempo del foro interno, dei conati di inconfessabile, dei rimorsi mordaci. Del sentirsi persino senza madre, il sancta sanctorum dell’essere vivi, irrimediabilmente soli con se stessi. Delle ombre nere che trascolorano in blu. O meglio, in blues. E chi di blues e di notti calde dentro e fuori ne sa, o persino ne ha mai saputo, di più di Ray Charles?

“La calda notte dell’ispettore Tibbs” uscì nel 1967, e per la prima volta un canadese guardava al Sud e ai suoi costumi con lucidità mista a indulgenza. Ma non era costui un musicista; per quello ci vorranno altri cinque anni e non son pochi, specie in quel periodo. I musicisti indigeni, invece, avevano ben chiaro cosa succedesse nelle afose notti giù in Dixieland, e sempre meno tema di farlo sapere, anche solo in tralice, descrivendo notti di autoconsapevolezza, e perciò di blues, con i modi squisiti, artistici e umani, a cui già allora da tempo ci avevano abituato. Lasciamo quindi a loro, alla struggente voce di brother Ray, all’organo sornione di Billy Preston e agli arrangiamenti impeccabilmente dosati di Quincy Jones, di condurci oltre la siepe e poi del buio che ivi ristagna, raggelandoci e contemporaneamente scaldandoci il cuore in una notte già difficile. In cui adesso naufraghiamo, madidi dentro e fuori a discrezione, o forse il contrario, ma pur sempre vigili affinché non ci colga il sonno esiziale, quello che genera i mostri. Perché a quel punto saremmo davvero in the heat of the night, e se al Sud, altrove o all’inferno non farebbe più tanta differenza.

In Germania lo fanno. Buxtehude a Lubecca, ce lo chiede l’Europa.

L’11 aprile 1668, trecentocinquant’anni fa, la carica di organista e fabbriciere della Marienkirche di Lubecca, al tempo la più prestigiosa ed ambita di tutto il mondo germanico, venne conferita dal consiglio municipale ad un concorrente che non aveva presentato domanda, nonostante due distinte candidature fossero già state ricevute. Vincitore risultò per chiara fama il danese, ad onta del cognome omonimo di una città della Bassa Sassonia, Dietrich Buxtehude, e la storia non riporta cosa accadde agli altri due candidati, in tempi di inesistenza di giudici amministrativi e contenziosi sugli appalti.

Secondo l’usanza del tempo, il Werckmeister doveva assumere la cittadinanza anseatica e sposare una figlia del proprio predecessore, in questo caso Franz Tunder. Buxtehude vi si attenne e dalla solida posizione acquisita procedette ad orientare il corso della storia musicale, mediante un’abilità strumentale organistica elevatissima ma non virtuosistica e, a livello compositivo, una sapiente alternanza di improvvisazione e rigore contrappuntistico, aprendo così la strada alla stagione d’oro del barocco musicale tedesco. Non fu per caso, infatti, che, nel 1705, il ventenne Johann Sebastian Bach decise di camminare per quattrocento chilometri, da Altstadt a Lubecca, solo per ascoltare il celebre organista e maestro, ancorché celandosi tra il folto pubblico che si radunava ad ascoltare le rinomate serate musicali che egli organizzava e dirigeva dopo la messa del vespro di sabato (operazione economicamente sostenuta dai ricchi mercanti della città), trasferendo poi a Lipsia, nella liturgia della Thomaskirche come pure nei suoi stili compositivo e strumentale, le intuizioni di Buxtehude. E parimenti non casuale fu che due enfant prodige dell’organo e della composizione, Georg Friedrich Händel e Johann Mattheson, si candidassero senza esitazione a sostituire l’anziano maestro quando, nel 1703, manifestò l’intenzione di ritirarsi, e stavolta la storia riporta cosa accadde ai due candidati: ricevuta da Buxtehude la proposta di succedergli, a patto di rispettare la tradizione, entrambi ripartirono da Lubecca il giorno seguente. Tempi di inesistenza di divorzio e contratti di convivenza, quelli. E quindi le cose andarono come spesso accadeva: Buxtehude morì nel maggio 1707 e un mese dopo Johann Christian Schieferdecker, al tempo suo assistente da due anni, impalmò la primogenita del suo principale e se ne assicurò la successione anche professionale.

Al netto del gossipdi Buxtehude restano duecentosettantacinque opere, perlopiù musica liturgica (cantate, messe, arie nuziali) e composizioni per organo o strumenti a tastiera, che costituiscono uno dei motivi per cui la musica occidentale si è imposta nel mondo: per il suo rigore compositivo, la sua varietà espressiva, la sua ineguagliabile ricchezza melodica e armonica, il suo empito ultraterreno senza perdere, direttamente o mediatamente, la componente ctonia. E un appalto truccato trecentocinquanta anni fa in Germania.

Nel video sottostante è possibile ascoltare una composizione suonata sul Totentanzenorgel, l’organo della Totentanz (danza macabra), situato in una cappella laterale della Chiesa di Santa Maria di Lubecca. Lo stesso che conobbe le mani di Buxtehude, di Mattheson e Händel e, chissà, forse anche di Bach. Purtroppo non si tratta di un brano di Buxtehude, bensì del preludio in Mi minore di Nicholas Bruhns, anch’egli danese e allievo di Buxtehude a Lubecca. L’incisione, l’unica che mi è riuscito di reperire, è del 1941 ed è forse l’ultima, perché l’organo venne distrutto, assieme al celebre dipinto della danza macabra di Lubecca, realizzato nel 1462 e situato nella medesima cappella, dai bombardamenti angloamericani sulla città, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1942. Valga quindi come esempio di quello che dovettero udire i contemporanei di Buxtehude e come monito: bella gerant alii, ce lo chiede l’Europa.

That was just a dream.

Martin Luther King - Washington 1963

Esattamente cinquanta anni or sono, il 4 aprile 1968, in un motel di Memphis, Tennessee, trovava la morte per mano di un suprematista bianco piroarmato Martin Luther King Jr., pastore protestante e leader del principale movimento non violento per il riconoscimento dei diritti civili alla popolazione nera degli Stati Uniti d’America.

Sulla dinamica e le conseguenze dell’evento, come pure sull’importanza storica della figura del reverendo King, nulla può qui utilmente essere aggiunto rispetto a quanto reperibile altrove con una minima ricerca. Merita tuttavia ricordare che alla funzione funebre, tenutasi proprio a Memphis, città simbolo dei destini del Sud, Mahalia Jackson, la più grande cantante di gospel mai registrata, intonò dal podio una spettrale ed intensissima versione del brano tradizionale Precious Lord, Take My Hand, che proprio il dottor King le aveva chiesto, qualche settimana prima, di cantare al suo funerale. Non è difficile quindi cogliere il coinvolgimento dell’esecutrice, che, nonostante l’evidente commozione, riesce a fare appello a tutta la propria abilità professionale per portare a termine il gravoso compito affidatole; quello di fornire la colonna sonora ad un lutto nazionale.

Di questo evento nell’Evento, uno dei massimi esempi di come la parola “soul“, anima, abbia definito un genere musicale e un approccio alla musica, non sono rimasti che resoconti scritti e un piccolo spezzone di ripresa audiovisiva, reperibile in rete. A quest’ultimo, dunque, vi rimando, con la riflessione che forse è stato solo un sogno, ma forse no, e già il dubbio è la breccia nel bastione.

Cinque più cinque meno

Note In Lettere compie oggi cinque anni. Non li porta granché bene, a giudicare dal collasso numerico, di articoli e lettori, che lo affligge con cadenza ormai cronica, ma tant’è. E poi chissà. Segnalo però un dato incoraggiante (o scoraggiante, a seconda delle prospettive): la più frequente ricerca dell’anno per giungere al blog è stata il gaddiano “campicello di Monroe“, battendo, per la prima volta, materie riferibili alle qualità della consorte di Giove.

E niente, mi sembrava giusto ricordarlo.

All’anno prossimo, per chi ci sarà.