
“Può essere che il più grande pericolo per il futuro della nostra cultura musicale sia…il suo passato?”, si domanda Simon Reynolds nell’introduzione del suo “Retromania”, seminale analisi del perché la musica pop dei nostri tempi (all’incirca da metà anni Novanta in poi) si è sempre più adagiata sulla riproposizione, quando non sul calco, di stilemi del passato, rimestando a fondo nel calderone della cultura pop pur di scovare qualche nuovo elemento da fare oggetto di revival o da combinare con qualcos’altro per creare un ibrido nuovo (o meglio, un nuovo ibrido). Ed effettivamente la situazione del riciclaggio sonoro sembra ormai giunta allo stadio terminale in praticamente tutti i comparti musicali. C’è dunque di che preoccuparsi?
Forse. O forse no. Se ciò che sostiene Reynolds è sotto gli orecchi (e gli occhi, perché la musica pop ha insita nella propria definizione l’importanza dell’elemento visuale) di tutti, è altrettanto vero che forme di recupero e rielaborazione di stilemi precedenti non sono ignoti ad altri movimenti artistici del passato anche remoto: il neoclassicismo e certo manierismo, per fare due nomi. Ma anche restando nell’ambito della musica popolare novecentesca si potrebbero citare diversi esempi: nel confuso e irrequieto panorama di fine anni Settanta, periodo che indubitabilmente non può essere tacciato di scarsa creatività, i Cramps si volsero al rock ‘n’ roll delle origini, al surf e ai vecchi film horror, miscelando il tutto in un ibrido originale e, beh, nuovo, a sua volta influente; gli Stray Cats dei primissimi anni Ottanta richiamarono dalla tomba il rockabilly, iniettandolo di blues, frammischiandolo allo spirito del punk e partorendo un influentissimo look che vede jeans strappati e pompadour convivere armoniosamente. Insomma, non è un fenomeno di oggi, anche se oggi assume dimensioni preoccupanti per l’apparente assenza di alternative. Ma entra qui in gioco un altro rilevante fattore.
A volte, la riproposizione pedissequa e filologica di uno stile del passato risponde alla volontà di inserirsi coscientemente in un filone o in un genere ben determinato. Sappiamo tutti che etichettare la musica è molto riduttivo, ma si tratta di un male nondimeno necessario per rendere adeguatamente lo sviluppo della corrente artistica; male che permette di individuare la continuità stilistica in antitesi alle innovazioni. Catalogare aiuta a capire, a ricordare e anche a sviluppare. E ovviamente, l’aderenza ad alcuni stilemi artistici si rende necessaria al fine di ottenere l’agognato incasellamento nel genere prescelto, perché solo grazie all’inserimento di quegli stilemi il pubblico può porre in relazione l’artista con la specifica corrente artistica. Questo vale particolarmente per quei generi che si pongono come antagonisti alla musica di consumo, venendo da questa e dalla sua industria mediatica di contro snobbati (il metal), quelli che ostentano un’appartenza, parimenti antagonistica, sotterranea, e conseguentemente si organizzano con un apparato parallelo di etichette discografiche, distributori, radio, locali, ecc. (uno su tutti l’hardcore punk) e quelli che puntano alla stretta conservazione di stili del passato, magari precedentemente di grande successo, ritrovandosi tuttavia relegati all’apprezzamento di un ristretto manipolo di cultori dall’indifferenza della grande industria: il rockabilly, il surf, l’AOR. E il garage.
Come il nome suggerisce, il garage nasce nelle autorimesse, e precisamente in quelle nordamericane. Alla metà degli anni Sessanta, i Beatles hanno appena visitato gli USA, dando avvio a quella stagione di fervore che gli annales americani registrano come “Beatlesmania“. Ma non solo i Fab Four sono sbarcati sulla costa atlantica: anche i loro storici “rivali”, i Rolling Stones, un imberbe complessino che rilegge il meglio del blues di Chicago con inaudita elettricità e una spontanea eccitazione frutto della giovane età. E gli Who, i mod per antonomasia che rivendicano la diversità della loro g-g-g-g-generazione. E i Kinks, tra i primi a suonare una chitarra volutamente distorta. E i Them di Van Morrison, e altri ancora. La nuova versione a sette note dell’Union Jack, di tal copia da venire definita “British Invasion“, strega la gioventù americana, sorprattutto quella suburbana bianca, mostrandole le enormi potenzialità di ciò che aveva dietro l’angolo e di cui non si era accorta, vale a dire la musica nera. Da quel momento, i garage di tutta America si riempiono di sgangherate band di ragazzini con in testa il moptop e il desiderio di emulare i loro idoli d’oltreoceano, i cui dischi passano ininterrottamente alla radio. Da tale emulazione, però, nasce l’inaspettato: ben pochi di questi garagisti hanno le doti musicali di un Dave Davies o di un Brian Jones, e infatti partoriscono una musica di grezzezza e innocenza inaudite, brani di due minuti retti da due accordi di chitarra o poco più, punteggiati da un organo acre e cantati sgraziatamente, il tutto raccolto da registrazioni povere di mezzi quando non amatoriali. Ma poco importa, quello che conta è soddisfare l’urgenza creativa che pervade la nazione, visto che il garage più autentico esonda dai meandri dell’America profonda, da luoghi fino a quel momento non toccati da alcuna rilevanza musicale: il Northwest, con Seattle in testa, e il Midwest, sull’asse Cleveland-Minneapolis. Ce n’è già abbastanza per parlare di punk, e infatti la critica successiva lo chiamerà “garage punk”, rinvenendovi i primi, inequivocabili prodromi del movimento concepito a New York nel ’76 e battezzato a Londra l’anno seguente. Come, del resto, asseverato dalla monumentale opera filologica che è “Nuggets: Original Artifacts From The Psychedelic Era 1965-1968”, antologia in doppio LP compilata da Lenny Kaye, chitarrista del gruppo di Patti Smith, e pubblicata nel 1972 e nuovamente nel 1976 dalla Sire, l’etichetta dei Ramones.
Poi, come sempre accade, anche il vento più impetuoso si placa e si fa bonaccia: il garage sopravvive all’esaurimento dell’onda lunga dell’invasione britannica e trova nuovi stimoli – sonori, visuali e chimici – nella nuova stagione psichedelica, che dal 1967 parte da San Francisco per invadere il mondo di LSD e buone vibrazioni. L’autunno psichedelico che segue a Woodstock spinge verso soluzioni musicali più morbide (la scuola cantautorale californiana), più roots (il montante southern rock) o più dilatate (il progressive), e il garage cade in disgrazia, rifugiandosi nell’underground, dove una sparuta pattuglia di amatori tiene viva la fiammella del rock essenziale ed eccitante, che sa mischiare ribellismo giovanile, fuzz e organo elettrico. E il definitivo interramento del genere (da allora una costante, all’infuori di un breve ma intenso revival, con buon seguito di pubblico, a metà anni Ottanta) comporta una sua decisa internazionalizzazione. Vediamone uno squarcio.
Ho scritto in passato che la Svezia è la Terra Promessa del rock ‘n’ roll. Chiunque lo frequenti abitualmente se ne è fatto una ragione, e peraltro senza troppo sforzo, vista la qualità delle proposte che provengono dal regno gialloblù. Come tutto ciò che è americano, anche il garage ha fatto presa nel profondo del pubblico svedese, e dunque non stupisce apprendere dell’emersione di molte valide formazioni dedite a ripescare i più variegati stilemi del garage dei Sixties, sublimato nelle innumerevoli collane antologiche in più volumi (“Nuggets”, “Pebbles” e “Back From The Grave” le più famose) e in polverosi, oscuri e spesso mai ristampati LP. Alla cui scuola hanno senz’altro studiato gli Strollers, quartetto che sorregge il proprio garage ultrafilologico (tanto da avere “preso a prestito” il proprio nome da un misconosciuto quartetto americano degli anni Sessanta) con svisate melodiche, specialmente vocali, di matrice chiaramente svedese; ingrediente benvenuto in una ricetta altrimenti completamente uguale a se stessa, spezia che dà nuovo gusto a una pietanza di prelibatezza collaudata.
In quest’ottica va apprezzato “Falling Right Down”, debutto del gruppo; risalente al 1999 ma che sembra in ritardo di trent’anni, tanto è archetipale di quel suono essenziale, di quell’esplosione di rock ‘n’ roll che è in uso chiamare garage: l’opener “Let Me Come In” è un assalto in due quarti a colpi di chitarre intossicate di fuzz che si contendono la scena con un organo che odora di incenso e zolfo insieme e con un’armonica lancinante, come degli Yardbirds sotto anfetamine di quelle buone; “Bad Situation” picchia duro ma mantiene quell’aura mistica che solo il suono dell’organo Farfisa sa conferire; l’intro chiesastico di “Little Cheater” ammonisce la peccatrice per poi intimidirla e sedurla nel prosieguo, e non sfigurerebbe in una raccolta dei Sonics; “Lies” sono gli Hellacopters depurati delle influenze Seventies. Ma c’è spazio anche per momenti più pacati e di atmosfera: “Won’t Stand It” le canta chiare alla lei di turno, ma con un animo romantico e un’invidiabile leggerezza pop, “Get Lost Child” sono gli Stones che si scoprono autori e non solo esecutori e i toni drammatici e pensosi di “I Saw It Coming”, il capolavoro del disco (e non solo), sono il miglior omaggio possibile agli Animals che alloggiano nella Casa del Sole Nascente. Opera prevedibile, forse, ma di fattura impeccabile: la perizia strumentale convince, la produzione aggiorna senza stravolgere, la copertina intenerisce. Da imputarsi, quindi, al solo essere relegati al circuito indipendente il breve prosieguo di carriera degli Strollers: “Captain Of My Ship”, uscito nel 2000, aggiunge ulteriori elementi pop e psichedelici, strizzando l’occhio ai migliori Love. Poi qualche concerto, lo scioglimento e l’oblio.
“Falling Right Down” – titolo profetico – è un disco senz’altro non essenziale, ma è pregevole sotto ogni aspetto e, pur con tutti i suoi limiti, non merita di essere dimenticato. Anzi, in un certo senso è la quadratura del cerchio, la prova provata che una riproduzione amorevole e filologica di sonorità passate ha propria autonoma dignità artistica nel consentire il perpetrarsi di stilemi che, altrimenti, finirebbero inghiottiti nella triturante ansia dell’innovazione ad ogni costo; la quale, però, porta solo spaesamento e crisi identitaria. La varietà è il motore della vita, e chi resta fermo in un certo punto contribuisce a questa varietà.