Sei proprio tu John Wayne?: Charlie Daniels (1936 – 2020)

Il clamore mediatico dato dalla dipartita di uno dei più grandi compositori italiani del Novecento ieri, sei luglio, ha offuscato un altro lutto musicale, questa volta squisitamente americano. In quella stessa data, infatti, lasciava questa vita, ormai quasi ottantaquattrenne, Charlie Daniels, contributore primario alle vicende musicali del Sud degli Stati Uniti.

Nato in North Carolina e attivo sin dall’adolescenza in ambito country e bluegrass, si trasferì a Nashville e lì si guadagnò presto una fama di capace songwriter e virtuoso del violino nei circoli che contano, finendo per suonare su “Nashville Skyline” di Bob Dylan e in diversi dischi di country e intraprendendo quindi, all’inizio degli anni Settanta, una carriera solista all’insegna di quella miscela di country, rhythm’n’blues, soul, rock e blues che fu definita southern rock. Ambito in cui finì per eccellere, fondendo le abilità di chitarrista blues e violinista bluegrass con un vocione profondo e un’abilità di narratore ereditata dal country. Dal 1971 al 1979 Daniels, a capo della band omonima, fu un inarrestabile alfiere della musica sudista, producendo caposaldi del southern rock come Long-Haired Country Boy, Uneasy Rider, Trudy, lo smash hit The Devil Went Down To Georgia e la programmatica The South’s Gonna Do It, preludio a quanto verrà.

Infatti, a partire dagli anni Ottanta l’uomo, che si era dimostrato un libertario moderato (si vedano a conferma le vicende salacemente narrate su Uneasy Rider, il mero titolo di Long-Haired Country Boy e la toccante ricostruzione dei traumi dei reduci in Still In Saigon), vira verso un conservatorismo spinto e patriottardo, cosicché le canzoni diventano occasioni per rivendicare orgogliosamente lo stile di vita redneck e le relative convinzioni (emblematica sul punto Simple Man, il cui testo propone di impiccare gli spacciatori, lasciati liberi da giudici “effemminati”, e di abbandonare gli stupratori, gli assassini e i pedofili legati in mezzo alle paludi, alla mercé di serpenti a sonagli, insetti e alligatori). Cambiare idea è sempre legittimo, beninteso, se non fosse che in corrispondenza del mutamento ideologico cala anche, e vistosamente, la qualità dei dischi, ormai adagiati su un country leccato o un gospel di maniera, che predicano a un pubblico di convertiti. Il risultato, prevedibile, è la (auto)segregazione nel circuito country e nei media di area ideologica. Da cantore in gioventù di un Sud non opprimente sebbene orgoglioso delle sue radici, con gli anni Charlie Daniels è diventato l’archetipo del bianco sudista retrivo e bigotto; fine ingloriosa, quella dell’attrazione da strapaese, per uno dei musicisti più ispirati del rock stars and bars. Che lascia comunque un’eredità musicale di rilievo soprattutto nei dischi degli anni Settanta, tra cui svettano “Fire On The Mountain” (titolo omonimo di un famoso brano della Marshall Tucker Band, sui cui dischi Daniels ha ripetutamente suonato) e “Saddle Tramp”, oltre a una quantità notevole di affascinanti storie del Sud e degli Stati Uniti in generale, compreso qualche colpo di genio, come la lucidissima lettura del mondo (il suo, quantomeno) offerta da una strofa di Long-Haired Country Boy: “La ragazza povera vuole sposarsi/E la ragazza ricca vuole flirtare/L’uomo ricco va al college/E l’uomo povero va a lavorare/L’ubriaco vuole un altro sorso di vino/E il politico vuole il voto/Io non voglio praticamente niente/tranne che la ruota faccia un altro giro“.

Quest’oggi l’aquila volerà lenta e la bandiera sventolerà bassa, come aveva predetto lui stesso.

Goodbye, Mr. Daniels.

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Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai: Steve Earle – Ghosts of West Virginia

La vita è un pantano, amiche e amici. Ma non fatevelo dire da me, che ho il culo piantato sulla sedia davanti a un computer; ascoltate chi di vita ne capisce veramente, ascoltate Steve Earle, il virginiano dagli occhi di ghiaccio che ha vissuto più di quanto si dovrebbe, perlomeno secondo gli standard occidentali.

Il suo ultimo disco, “Ghosts of West Virginia”, parla proprio di vita, quella dei minatori dei Monti Appalacchi che da sempre si spezzano la schiena estraendo carbone in condizioni spesso disumane. Lo fa dando voce alle emozioni di questa umanità irredenta ma resiliente, alle prese con difficoltà quotidiane difficilmente immaginabili per molti di noi eppure ricca di vitalità. Lo fa cantando del loro mondo, fatto di elementi identitari (Union, God and Country) e di una fatica quotidiana che è una condanna (Devil Put The Coal In The Ground), di miti collettivi (John Henry Was a Steel Drivin’ Man) e di destini scritti dalla nascita (Black Lung), di tenerezze piccole ma profonde (If I Could See Your Face Again) e di rabbia orgogliosa di chiamare le cose col loro nome (It’s About Blood). Lo fa con i suoni di quel mondo, il country, il folk e il bluegrass, occasionalmente ispessiti dalla solidità rock che i Dukes, il gruppo di musicisti che lo ha accompagnato per decenni, sanno garantire. Lo fa con testi struggenti, scritti senza giri di parole da chi non ha tempo per elaborare metafore ardite o atmosfere suggestive, perché ha storie da raccontare, storie di vita vera, di carne e ossa, di amore e morte, di qui e ora. Lo fa, come sempre, da outsider, incapace dell’ipocrisia di stare sempre con la ragione e mai col torto e pronto – anzi, ormai aduso – a pagarne le conseguenze, ad esempio schiaffando in copertina una carta geografica con nomi di luoghi e simboli di lavoro e di morte. Lo fa da par suo, con l’ennesimo album da incorniciare.

Probabilmente non è un caso che un disco del genere sia uscito nel 2020. O forse sì, chissà; bisognerebbe chiederlo a Steve ed essere pronti ad accettare la risposta di uno che, erede di Tennessee Ernie Ford e Woody Guthrie e ormai ben al di là di Springsteen, è l’ultimo (l’unico vero?) cantore dell’America profonda, quella che, come ha scritto Mauro Zambellini, dietro i grandi numeri fatica ad arrivare a sera.

Disco dell’anno e, finché le cose andranno così, di ogni anno.

‘cause I’m: “Hey Teen!”. Minimo annuario discopatico.

Esiste solo una cosa più da sfigati che comprare “Dookie” in CD nel 2018 e ben dopo aver compiuto i trent’anni: macchiarne il libretto con la zuppa di verdure. Surgelata.

È con questa consapevolezza che mi accingo a riferire pillole musicali dell’anno ormai trascorso, che ha visto meno lutti di quello andato (anche se Vinnie Paul…) ma anche meno dischi memorabili. D’altronde il ’18 è l’anno della vittoria, ed è fisiologico rilassarsi un po’. Dite di no, che non ci rilassiamo proprio per niente? Oh beh, peggio per voi: io ho “Dookie”. Sì, beh, quasi.

Auguri.

Dischi notabili

1. JUDAS PRIEST – FIREPOWER
Ne ho scritto a caldo qui e confermo tutto. Dal vivo a Firenze, poi, i pezzi nuovi non hanno per nulla sfigurato a fianco dei classici, e questo vorrà pur dire qualcosa. Col passare del tempo e degli ascolti il valore dell’album si è normalizzato, ma resta comunque la migliore uscita dei Priest dai tempi di “Painkiller”, confermando che proprio quando è data per spacciata la formazione inglese dà il meglio di sé. Il futuro è ignoto, ma un simile congedo discografico sarebbe un trionfo.

2. VISIGOTH – CONQUEROR’S OATH
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Del quintetto di Salt Lake City e del suo secondo LP non si dirà mai abbastanza bene: heavy metal epico in senso tradizionale, possente ma non troppo veloce, zeppo di cori pensati per infondere coraggio sul campo di battaglia e di fraseggi di chitarra armonizzati che allargano lo spazio come un coro in una cattedrale gotica, prodotto al meglio ma con in mente la tradizione (“si sente che anche il produttore era in cotta di maglia!“, l’immortale commento di un amico), non troppo lungo e sempre memorabile (anzi, quasi sempre, Salt City un boogie trascinante ma stilisticamente e tematicamente fuori luogo). Non a caso griffato Metal Blade. Se non il disco dell’anno, senz’altro nel Valhalla con i migliori.

3. LUCIFER – LUCIFER II
Qui

4. THE 16 EYES – LOOK
Qui

5. THE MORLOCKS – BRING ON THE MESMERIC CONDITION
Qui

6. THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA – SOMETIMES THE WORLD AIN’T ENOUGH
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Neanche dodici mesi dopo l’ultimo album (di questi tempi, converrete, fa notizia, se uno non si chiama Ty Segall), i cinque svedesi tornano con il quarto LP in sei anni, confermando l’ottimo stato di salute di cui godono. La struttura è la solita: apertura con un brano tirato di hard rock simil-Seventies; prosieguo con addolcimenti tastieristico-melodici; singolo effettivo o potenziale in terza-quinta posizione; dosaggi variabili degli ingredienti predetti fino al congedo, preferenzialmente affidato a una stesura articolata ed evocativa. Però funziona anche stavolta; rischiando qualcosa nell’aggiungere ulteriore patina medio-ottantiana a una formula collaudata ma riscuotendo appieno i profitti del rischio, e basti a conferma il solo lato A dei quattro: This Time straccia i Rainbow post-Dio al loro stesso gioco, Turn To Miami si regge sui chiaroscuri di indolenza sensuale e pericolo tropicale evocati già dal titolo, Paralyzed riscrive in melius gli anni Ottanta dei Doobie Brothers e la title-track è purissimo e scintillante AOR come non se n’è sentito quest’anno. Io continuo a preferire il precedente “Amber Galatic”, ma qui siamo al vertice del catalogo del gruppo e del genere; ammesso che sia uno solo. Il catalogo.

7. THE CREATION FACTORY – THE CREATION FACTORY
CREATIONFACTORY
Quest’anno le sonorità di area Sixties non hanno dato frutti migliori di questo quintetto californiano alla prima prova sulla lunga distanza, che, complice una ragione sociale inequivocabile, un’immagine filologicamente ineccepibile e una produzione manieristicamente perfetta, mette a segno una delle uscite di area più godibili del giro intorno al sole. Un Bignami, potremmo chiamarlo; perché c’è dentro molto di ciò che conta: i Beach Boys in You Be The Judge, i Rolling Stones in Girl You’re Out Of Time, i Kinks in I Don’t Know What To Do e Why Can’t You Make Up Your Mind, i Them in I Want To Be With You, i Creation in Without You, i Byrds in Spring Ain’t Gonna Let You Stay e i 13th Floor Elevator in Hallucination Generation. Il tutto filtrato attraverso la sensibilità della quarta generazione di revivalisti dei Sixties, che ha assimilato ciò che è accaduto medio tempore ma resta fermamente intenzionata a riportare in vita al meglio possibile l’aura quantomeno sonora del decennio principe del rock. Revival o meno, il risultato è eccellente per scrittura, esecuzione e resa. Non resta che ascoltare e sperare silenziosamente che il debutto non diventi anche la tomba dei Creation Factory.

8. GHOST – PREQUELLE
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Un perfetto esempio di somma paraculaggine musicale, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost. Lima le asperità del precedente e vincente “Meliora” con una carta di grana fina che chiama in causa gli anni Ottanta di Def Leppard e Savatage, ma anche ABBA e Pet Shop Boys, per imbastire un vero e proprio blockbuster, pensato per essere un “Trash” o un “Hey Stoopid!” del terzo millennio, e riuscendoci perfettamente. Il plauso è stato ampio ma non generale, e ognuna delle opinioni non è implausibile. Certo è che la prestazione dei musicisti e del cantante è ancora una volta superlativa. Certo è che la scrittura è stata raffinata ai massimi livelli. Certo è che l’immagine, ancora una volta reinventata dal diabolus ex machina Tobias Forge, funziona e affascina come prima più di prima. Certo è che un singolo incisivo come Dance Macabre il rock non lo sentiva da tempo. Certo è che i Ghost sono i principali candidati a fare da headliner ai festival estivi dei prossimi anni, quando i veterani via via si ritireranno. Certo è che “Prequelle” ce lo si gode. Last but not least per merito della produzione di Tom Dalgety, capace di tenere insieme arrangiamenti articolati ed esigenze commerciali odierne, e del missaggio di un veterano del calibro di Andy Wallace, che dosa sapientemente la densità dei singoli strati sonori, adagiandoli l’uno sull’altro fino a fonderli in un unicum pieno ed avvolgente. Un capolavoro di professionismo, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost.

9. TH’ LOSIN STREAKS – THIS BAND WILL SELF-DESTRUCT IN T-MINUS
th'losin streak - this band will self destruct in t minus
Dopo quattordici anni da un debutto, “Sounds Of Violence”, che aveva fatto sobbalzare non pochi adepti del più selvatico sound garagistico, i quattro di Sacramento sono infine tornati insieme nel 2010 e quest’anno, dopo un acclamato tour europeo, hanno messo insieme un secondo album, anch’esso edito per la solita Slovenly Records e anch’esso selvaggio e urgente come ci si poteva aspettare dalle Scie Perdenti. Ma “This Band…” non è un calco del suo predecessore, perché inietta nella formula di sgangherato rock ‘n’ roll del gruppo una vena distintamente danzereccia e un senso della melodia di matrice mod che, se a tratti smorzano il flusso di elettricità, nondimeno conferiscono all’album una sua identità in un panorama anch’esso ormai fattosi affollato. Lo si può definire freakbeat, merce non particolarmente frequente in terra americana, e se uno come Tim Warren si prodiga a definirlo il migliore inciso quest’anno ci si può accodare senza troppe remore. Ciò che conta, dopotutto, è che la scrittura si mantenga di livello per tutte le tredici tracce, e questo disco, forte dell’adrenalina fuzzosa di (This Man Will Self-Destruct In) T-Minus, dell’esuberanza mod di You Can’t Keep A Good Man Down, dei richiami ai Creation di Order Of The Day e di quelli ai Kinks di  Falling Rain, lo fa. Non perfetto ma potentissimo e sempre coinvolgente, il secondo album dei Th’ Losin Streaks svetta per la splendida copertina, senza dubbio la migliore dell’anno. Avercene, di band che si autodistruggeranno così bene.

10. THE MARCUS KING BAND – CAROLINA DREAMS
marcus king band - carolina confessionsTerzo LP e terzo centro per la formazione del chitarrista e cantante del South Carolina, che a ventidue anni dimostra un’abilità di scrittura e una padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi a dir poco sbalorditive. Ancora una volta tiene banco il Sud, principale serbatoio musicale americano e quindi inesauribile fonte di ispirazione per chi voglia mettersi dietro a un microfono con una chitarra in braccio. E the South does it again su “Carolina Confessions”, titolo che cita i sogni della Marshall Tucker Band (che però muoveva dal North Carolina) e scaletta parimenti da sogno con la partenza inarrivabile di Where I’m Headed, le acustiche degli Allman post-Fillmore che convivono sorridenti con i fiati di Otis Redding, e il prosieguo affidato al dramma di Goodbye Carolina, dove il country di Alan Jackson (Midnight In Montgomery) è trafitto al cuore da una slide carica di pathos come quella di Warren Haynes. E da qui in poi, tra il soul ancheggiante di Homesick, l’inchino ad Ike e Tina di How Long, il sofferto lirismo blues di Confessions e lo sterrato imboccato per fuggire da Memphis sulle note di Welcome ‘Round Here, niente è meno che meraviglioso. Un atto d’amore verso il southern rock che nulla ha di nostalgico o didascalico e molto, anzi tutto, di sincero e sentito. Probabilmente il disco dell’anno, e in ogni caso una plausibile ragione per ritenere migliore soffrire e trascorrere sotto un cielo blu a cinquanta stelle anziché sotto uno rosso a cinque.

Altre pillole di 2018
Immortal – All Shall Fall
: manca Abbath ma non conta nulla, perché è tornato Demonaz e i suoi riff thrasheggianti esaltano come non hanno potuto fare in questi years of silent sorrow. Non ci si crede che sia così consistente, eppure lo è; come il male, quello vero. Sento solo freddo, tanto freddo, fuori e dentro me.

Cranston – II: le parti strumentali di chitarra e tastiera sono in mano a Paul Sabu, uno che sa quello che fa. La voce, appartenente a tale Phil Vincent, sfoggia credibilmente un timbro ruvido e bluesy simile a quello che David Coverdale ha ormai perduto. Nel mezzo un valido esercizio di hard rock melodico, che bascula in zona hard blues ma non per questo disdegna l’AOR più virile. Uscita sottotono ma seconda a nessuno dei monicker più blasonati del genere.

Monstrosity – The Rise To Power
Una gradita sorpresa. Non che ci siano dubbi se ascoltare questo o “Millennium”, ma fa piacere saperli ancora vivi e ancora in forma, capaci di declinare il classico suono brutal death della Florida senza cadere negli opposti tranelli del revivalismo e dell’ultratecnicismo iperprodotto. Solo la morte resta uguale a se stessa, dopotutto. La morte, appunto.

Blackberry Smoke – Find A Light: I soliti grandiosi georgiani, leggermente più tirati a lucido di prima ma sempre a fuoco nella scrittura e nell’esecuzione. È legittimo preferire ciò che è venuto prima, ma i Blackberry Smoke restano il migliore gruppo southern rock al mondo (o magari il secondo, dopo la Marcus King Band).

L’altro 2018
The Feelies – Crazy Rhythms

Il primo vagito del college rock. Praticamente i Television risuonati dai R.E.M. con Maureen Tucker alla batteria, mentre i Weezer sbavano tra il pubblico. Forse il più sconosciuto classico del rock. Chissà perché, poi.

Greg Guidry – Over The Line
Chiamiamolo yacht rock ché va (ancora) di moda. Ma scritto bene, arrangiato meglio, eseguito a livelli stratosferici e prodotto come non si fa più. Il fatto che non sia reperibile in digitale se non da un paio d’anni scarsi dice chiaramente che non è un disco per tutti, ed è giusto e bene così.

Orchid – Capricorn
Per tanti è passato senza lasciare traccia, archiviato nell’affollata sezione di cloni dei Black Sabbath. A me ha lasciato un segno, e non so spiegare perché; forse perché condensa meglio di qualunque altro disco mi venga in mente il lato che preferisco di Iommi & co., quello della potenza poderosa e dell’impietosa ineluttabilità, e tanto mi basta a preferirlo negli ascolti a “Volume 4” e “Sabotage”, nientemeno. Sarà campanilismo zodiacale. Tenere un blog di musica mica è necessario, in effetti.

The Gruesomes – Gruesomania
Il migliore album garage di quelli non usciti negli anni Sessanta, e anche con quelli è battaglia serrata. Provateci voi ad ascoltarlo senza fare casino (rumore o altro).

Billy May –  Johnny Cool Soundtrack
Uscito nel 1963, “Johnny Cool” è un omaggio anni Sessanta alla stagione più feconda del noir, gli anni Cinquanta, e, nonostante il cast prestigioso e la regia solida, è poco più che il giusto intrattenimento per una serata qualunque. La colonna sonora, però, è opera di Billy May, uno dei più grandi arrangiatori dell’era swing e oltre, e ha quindi assunto una minuscola dimensione di culto per la sua capacità di affrescare vividamente le atmosfere stilose, minacciose ma invitanti, del noir con un precisissimo dosaggio dello spettro tonale e una padronanza somma della dinamica. Praticamente tutta strumentale (tranne la ballata finale, intonata da Sammy Davis Jr.) e affidata alla versatilità di una big band, questa colonna sonora è jazz per jazzofobi, noir per sorridenti, classe a buon mercato; non ne starei parlando, altrimenti. Ottimo il suono dell’edizione in CD su Ryko (l’unica etichetta che fa le jewel case verdi).

Damnatio memoriae
Incertum habeo
eccetera, quindi fate voi. Mi limito a rilevare che oggi, dopo tutti questi anni, ho finalmente capito perché quella volta al referendum ha vinto la repubblica: perché l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re. E comunque quest’epoca streamingzita fa schifo.

Anno ucciso, uomo lagno. Il 2017 musicale di Note in Lettere.

Disclaimer: questo articolo è stato scritto usando un computer fabbricato da lavoratori sfruttati.

Il 2017 non è stato un granché come anno. Anzi, ad essere esatti, lo si può qualificare come un bel disastro. Non tanto sul piano personale, dove pure gli argomenti in tal senso non mancherebbero, quanto su quello musicale, ben più rilevante. Vi risparmio i necrologi, anche se a scorrere la lista c’è da sbalordire ogni volta: Chuck Berry, Allan Holdsworth, Chris Cornell, Gregg Allman, Fats Domino, Tom Petty, Grant Hart, Walter Becker, Al Jarreau, Butch Trucks, Clyde Stubblefield, Martin Eric Sin, Geoff Nicholls, Robert Dahlqvist, Charles Bradley, e da ultimo Malcolm Young. Solo per citare i più noti e più cari. Neanche profondendo sforzi per ucciderli sarebbe stato possibile ottenere una simile lista di lutti. Aveva ragione il Reverendo Gary Davis, veggente come tutti ciechi: la morte è impietosa su questa terra. E non va mai in vacanza. Quindi, come sempre impotenti di fronte al Grande Viaggio, non ci resta che salutare coloro che si sono incamminati e onorarne la memoria attraverso la coltivazione del lascito terreno, sulla cui consistenza fanno fede i nomi, prima ancora che le biografie e le opere.

Venendo, invece, ai vivi, il 2017 non si è rivelato significativamente elevato nelle uscite discografiche, anche se ciò non impedisce di ricadere una volta di più nell’ozioso giochino della sommatoria qualitativa degli ascolti. Anzi, tale circostanza è forse uno stimolo ulteriore al solito passatempo. Ecco, dunque, l’esito musicale dell’anno (quasi) trascorso secondo chi scrive. Come sempre, le scelte indicate sono numerate per ragioni d’ordine estetico dell’esposizione, senza che la collocazione numerica implichi giudizio di valore rispetto agli altri dischi inclusi. Sono ben gradite le selezioni dei lettori, a com(pleta)mento della presente. Ove mancanti, se ne parlerà a voce, qui o di là. Auguri a tutti.

Dischi notabili

1. Flamin’ Grooves – Fantastic Plastic
Qui.

2. Styx – The Mission
Ne avevo scritto qui, e con gli ascolti non è diminuito in consistenza e piacevolezza. Il pensiero di definire così un album degli Styx mi lascia stupefatto tuttora, ma è giusto rendere onore al merito. Che su Marte l’umanità ammari o meno, noi siamo a posto, quantomeno per i prossimi trentadue anni.

3. Rolling Stones – On Air In The Sixties
Rolling Stones - On Air
Contrariamente alle loro ultime uscite, di carattere esclusivamente speculativo, questo doppio, che raccoglie le incisioni per diversi programmi della BBC tra 1963 e 1965, ha un notevole valore documentale e non è di interesse solo archivistico-completistico, perché fa infine luce in maniera adeguata e professionale (le incisioni, in precedenza reperibili su svariati bootleg dalla resa fonica limitata, sono state ripulite negli studi di Abbey Road con un’innovativa tecnologia che consente di separare dal master tape le singole tracce per un nuovo missaggio delle stesse, sostanzialmente riportando l’incisione alla fase di produzione) sul periodo decisivo delle Pietre Rotolanti, quello in cui, sotto la guida di Brian Jones, azzannavano il blues di Chicago e il rock ‘n’ roll con l’ingordigia e la sicumera di imberbi giovincelli, dimostrando la forza di tali forme espressive ad un mondo, e soprattutto ad un’America, che ottusamente negava loro dignità a cagione del tasso di melanina che le aveva originate. E nulla rende al meglio tale decisivo passaggio musicale, culturale e sociale della viva energia di queste esibizioni live, istantanea del Novecento significativa ancorché negletta perlopiù. Il repertorio consta essenzialmente di riletture di (non ancora) classici del blues e del rhythm & blues, ma anche le rare puntate nel repertorio autografo, che allora muoveva i primi passi, (la graffiante zampata di Satisfaction e la dinoccolata spavalderia di The Spider And The Fly), dimostrano che si era di fronte a una formazione destinata a lasciare il segno (una malignità, ma significativa: quando, pigiato il tasto “Play”, parte Come On, chiudendo gli occhi sembra di trovarsi al cospetto dei Chesterfield Kings). Se oggi è immorale, o semplicemente folle, spendere cifre a due zeri per assistere ad un’esibizione della world’s oldest rock ‘n’ roll band, altrettanto lo sarebbe scansare questa eccezionale e ben più economica spiegazione del perché ci si vede domandare cifre ad almeno due zeri.

4. Hüsker Dü – Savage Young Dü
husker du - savage young du
Ancora una ricapitolazione di inizi, ma addirittura in triplice CD. Stavolta occasionata dalla dipartita del batterista e cantante Grant Hart, ma resa nondimeno doverosa dalla latitanza di materiale d’archivio del trio di Minneapolis. Oggetto di recupero è il periodo iniziale della formazione, quello che va dal primo demo del maggio 1979 (otto pezzi, qui raccolti) al 1983, anno di pubblicazione di “Metal Circus” e definitivo salto di qualità nella scrittura e nella carriera discografica. Nel mezzo, bozzetti di brani in fieri elaborati durante le prove, esibizioni dal vivo, outtake di studio, lati B di singoli. La ricca messe di materiale (quasi settanta tracce) non consente di ricapitolarlo tutto analiticamente, ma per comodità lo si può scindere in tre parti: il capitolo demo, molto più eclettico di quanto vorrebbe la vulgata secondo cui i primi Hüsker Dü suonano hardcore punk a velocità supersonica senza badare a sottigliezze e melodie, ché ci si imbatte invece nell’influenza tanto del ’77 (Nuclear Nightmare) quanto dei Sixties (Can’t See You Anymore è già jangle pop); il capitolo dal vivo, che ripulisce la resa fonica del materiale già udito sul debutto “Land Speed Record” pur conservandone la forza d’urto, confermando l’appartenza del gruppo al fenomeno hardcore; il capitolo sessioni di studio, che vede la formazione sperimentare tra passato (le bordate di Afraid Of Being Wrong e Punch Drunk, puramente e schiettamente hardcore) e futuro (la rilettura nervosa di Sunshine Superman di Donovan e Everything Falls Apart, che fotografano il passaggio al nuovo corso). Ciò che ne esce è la ricostruzione di una delle formazioni più creative e originali del rock americano degli anni Ottanta che esplora le sue capacità espressive, dimostrandole spiccate già in esordio ed affinandole a rapide falcate. These important years.

5. Filthy Friends – Invitation
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Restando in tema di underground americano, questo quintetto, formato nel 2012 e poi nuovamente in attività dal 2016, vede a fare compagnia a Corin Tucker, chitarrista e cantante delle Sleater Kinney, nientemeno che Peter Buck, Kurt Bloch dei Fastback, Scott McCaughey (ex Minus-5 e R.E.M.) e Bill Rieflin (già nei King Crimson e nella touring band dei R.E.M.), con anche una comparsata di Krist Novoselic al basso. Visti i galloni alternative della formazione, e il suo atteggiarsi a “supergruppo” nello stile del più pomposo passato del rock, fa sorridere che il loro unico LP abbia visto la luce per l’etichetta Kill Rock Stars!, ma tant’è. Polemiche a parte, se “Infestation” fosse uscito negli anni Ottanta o primi Novanta, se ne parlerebbe ancora adesso come uno dei migliori album del circuito indipendente a stelle e strisce. Merito di canzoni che non si fanno imbrigliare stilisticamente né cedono al desiderio di distinguersi da tutti in forza di ideologie stilistiche preconcette: i tempi sono cambiati, la discografia è crollata e ognuno è libero di proporre qualsiasi cosa. I cinque, musicisti maturi, lo hanno capito e ne hanno fatto il loro punto di forza. E così, dopo l’apertura con il singolo Despierta, che echeggia a dodici corde per poi impennarsi elettricamente, ecco le carte mischiarsi in maniera sorprendente: il glam da arena di Windmill a fianco del pop acustico ma crespo di Faded Afternoon; una Any Kind Of Crowd che sorprende non sentir intonare da Michael Stipe giustapposta alla quasi-kissiana The Arrival; il garage-punk ortodosso di No Forgotten Son armonizzato con una Brother che sembrano i Muse capitanati da Debbie Harry; l’eccitazione power pop di You And Your King per nulla antitetica al delizioso congedo della title-track, che swinga districandosi tra certo jazz acustico e Macca il baronetto. Scrittura di livello altissimo, integrità artistica preservata, accessibilità massima: al tempo una cosa così non l’avrebbero tentata nemmeno i Replacements o i Meat Puppets. La vera meraviglia discografica del rock datato 2017.

6. Pretty Boy Floyd – Public Enemies
pretty boy floyd - public enemies
Non so chi tra i lettori abbia mai visto una foto della formazione dei Pretty Boy Floyd al tempo del suo massimo successo. Nel caso, eccone qui una. Il tutto ha un indubitabile potere respingente, ma, se solo uno abbia voglia di andare oltre l’apparenza (operazione complessa in casi, come questo, di apparenza sostanzializzata) e fermarsi a capire come la proposta musicale del quartetto sia sopravvissuta a mode e rivolgimenti in maniera essenzialmente inalterata, l’ascolto del nuovo disco dei Pretty Boy Floyd, riesumati da un silenzio discografico settennale ad opera della nostrana Frontiers, sembrerà la dimostrazione che, volendolo, è possibile fermare il tempo. Una dimostrazione delle più riuscite e divertenti, peraltro. Guardate la copertina: logo con lettering sottratto agli Iron Maiden e l’immancabile O che racchiude il pentacolo, alla foggia dei Mötley Crüe del periodo ’83 – ’85; e poi un disegno con pipistrelli, scheletro, armi e simboli mortifero-esoterico-complottistici sullo sfondo di una Gotham City da cartone animato. E tutto questo prima ancora di avere ascoltato una sola nota. Se uomini sui cinquant’anni spediscono sul mercato un prodotto del genere, convinti delle sue possibilità di affermazione commerciale, il buono dev’esserci necessariamente. E c’è, infatti: nella sospensione temporale. Anche qui, prima ancora di ascoltare una nota, basta leggere i titoli: High School Queen, Girls All Over The World, Do Ya Wanna Rock, American Dream, Run For Your Life, Shock The World. Non è nemmeno parodia, è proprio convinzione; come di cosa? Che sia ancora il 1988! Quando le chitarre erano fluo e il Muro non quello al confine col Messico. Che poi le canzoni siano pezzi di chewing glam metal tra i più gustosi mai consumati, senza per questo svelarsi come un tentativo di ricostruzione filologica (voglio dire, c’è persino una power ballad intitolata We Can’t Bring Back Yesterday!), resta irrilevante. Se credete che sia in atto una ripresa economica, comprate questo disco.

7. H.E.A.T – Into The Great Unknown
heat - into the great unknown
Ancora non mi faccio persuaso (cit.), ma in qualche modo funziona. Il singolo era terrificante, un inconcludente papocchio di rock moderno senza appigli melodici di rilievo o potenza sonora veruna. L’album, però, in qualche modo regge, nuovamente orientato verso quell’hard rock duro e puro che la formazione svedese ha deciso di praticare a partire dal precedente “Tearin’ Down The Walls” ma ancor più copioso in Watt e grida. Non che questo significhi un’abdicazione dai doveri compositivi, e valga in tal senso la conclusiva title-track, però è innegabile che il motore non gira più liscio come in passato. Per il momento la cosa è tenuta sotto controllo, e quindi godiamoci il disco (che comunque resiste a plurimi ascolti), ma il futuro è ignoto, giustappunto.

8. Cannibal Corpse – Red Before Black
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Svariati recensori e i suoi stessi autori l’hanno definito “catchy“, e se non è strano appioppare un simile aggettivo ad un album dei Cannibal Corpse non so cosa lo sia. Eppure la definizione ha senso, perché in questi solchi (anche il CD ne ha, dopotutto), pur non distaccandocisi dall’usuale formula stilistica, si trovano alcuni dei riff più densi di groove apparecchiati dai cinque americani nell’arco di una carriera quasi trentennale, a tratti vicini a certe soluzioni thrash eppure sempre inconfondibilmente uguali a se stessi. Difficile segnalare un pezzo che si elevi dalla mischia di sangue, frattaglie, growl vocale e ritmi ora velocissimi ora schiacciasassi, ma l’ascolto d’insieme è fluido e piacevole, spingendo una volta di più a giocarsi le vertebre cervicali per il puro gusto di farlo. Nota di merito alla produzione, che sottolinea la potenza definendo i suoni senza per questo cadere in inutili eccessi tecnologici. Ennesima conferma della qualità eccezionale del più famoso gruppo death metal in attività.

9. The Night Flight Orchestra – Amber Galactic
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Sembra impensabile che qualcosa del genere provenga dai principali compositori dei Soilwork, il cantante Björn Strid e il chitarrista David Andersson, peraltro in combutta con il bassista Sharlee D’Angelo, anche lui forte di un pedigree metallico di tutto rispetto (King Diamond, Mercyful Fate, Spiritual Beggars, Arch Enemy). Eppure il side-project in questione è arrivato al decimo anno di attività e al terzo LP, nel corso del tempo incontrando il favore di un gigante discografico come la Nuclear Blast, solitamente poco avvezza a queste sonorità. Che sono quelle delle radio di fine Settanta e inizio Ottanta, rock melodico che non disdegna moderate escursioni progressive e stilettate chitarristiche senza per questo dimenticare le esigenze del grande pubblico in termini di melodia e ballabilità. Il risultato sono undici pezzi deliziosamente démodé, tra Toto, Alan Parsons Project, Electric Light Orchestra, Journey, Foreigner e tutto il resto che sapete o potete immaginare. Si è detto ripetutamente che la Svezia ha una marcia in più quando si parla di melodie; ebbene, “Amber Galactic” non fa mai eccezione alla regola, e sul punto valgano esemplificativamente Gemini, preclaro esempio di smash hit single nel 1984 di una dimensione parallela, e una Domino che nella predetta dimensione ha fatto ricchi Giorgio Moroder, Harold Faltermeyer e Kenny Loggins. Il riciclo musicale di quella stagione raramente ha dato frutti migliori.

10. L.A. Guns – The Missing Piece
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Mi ero ripromesso di evitare di inserire in questa lista troppi dischi di hard rock anni Ottanta, di quelli fatti da gente avvezza alla pubblicità ingannevole in forma di cerone e pantaloni attillati con i calzini arrotolati dentro il pacco. La verità è che non ci riesco, che il grigiore di un’epoca (interiore ed esteriore) di disfacimento e transizione come la presente mi sembra contrastabile unicamente con manifestazioni estetiche corrusche e animate da una joie de vivre autodistruttiva e irresponsabile ma nondimeno tale. E tanto (poco) mi basta. Resta che il nuovo disco degli L.A. Guns, il primo che vede insieme dopo decenni lo storico cantante Phil Lewis e il chitarrista fondatore Tracii Guns (pur in una risibile situazione di coesistenza di due diversi gruppi omonimi, questo e quello capitanato dal batterista storico Steve Riley assieme a un pugno di carneadi; situazione che accomuna diverse realtà della scena del Sunset Strip, tra cui i Great White, e che, oltre ad ingrassare avvocati e promoter, disvela latenti problemi egotici e/o finanziari dei musicisti), è indiscutibilmente un disco di hard rock stradaiolo come non se ne fanno da tempo, un saggio della materia vergato con un’ispirazione stupefacente (vabbè…) per dei veterani. Anzi, la stupefazione si incrementa con l’ascolto, che disvela soluzioni compositive variegate, inusitate per questa sigla, senza sacrificare l’impatto complessivo: se l’iniziale It’s All The Same To Me già da subito alza i livelli di deboscia e quanto segue nulla fa per ridurre l’aria viziosa, l’atipica ballata Christine, il lento semi-blues The Flood’s The Fault Of The Rain (probabilmente sarò l’unico al mondo a sentirci un’assonanza con Roof With A Hole dei Meat Puppets), una title-track che con giusto una patina di modernità in più potrebbe essere un successo degli Stone Sour e gli articolati cinque minuti della conclusiva Gave It All Away sembrano il parto di un’altra band. Magari una migliore, ma per adesso va più che bene così. Ritorno tanto inatteso quanto sorprendente in qualità.

Altre pillole di 2017
Duel – Witchbanger
: texani che rifanno i Black Sabbath. Suoni analogici, riff scontati, voce al bourbon, groove da vendere. Duri e ottusi come il guscio di un armadillo.

Morbid Angel – Kingdoms Disdained: death metal americano che gorgoglia e bestemmia dal centro dell’universo, come solo deve fare. Di nuovo nessuna pietà. Per fortuna.

Marilyn Manson – Heaven Upside Down: meno riff blues e più atmosfere elettroniche e suoni metal, ma la sostanza c’è. Era meglio “The Pale Emperor”, ma il Reverendo è tornato per restare.

Don Barnes – Ride The Storm: inciso nel 1989 dal cantante dei .38 Special con fior di turnisti e lasciato a prender polvere sino a quest’anno. AOR vecchia scuola come non se ne sente più, a tratti (la title-track) memorabile come le cose migliori dell’epoca.

Target – In Range: come sopra, solo che l’anno era il ’79. Notabile per la voce magnifica di Jimi Jamison, a quel punto già giunta a maturazione timbrica. Per il resto un passabile southern rock che persegue le sue ambizioni radiofoniche flirtando con l’hard rock, così riflettendo la crisi del genere nel dopo ’77.

Steve Earle & The Dukes – So You Wanna Be An Outlaw: Una garanzia. Rock che sovente varca la Frontiera e si lorda della polvere della prateria; ma anche country che una volta ogni tanto si concede una serata in città. La conclusiva epopea western di Goodbye Michelangelo è toccante come non mai.

The Jesus And Mary Chain – Damage And Joy: c’è molto mestiere, ma la vena compositiva non si è esaurita. E, al solito, l’abito pop, sintetico ma anche acustico, dona proprio. Chiamiamolo Brit pop evoluto.

Gregg Allman – Southern Blood: in apertura è posto l’unico brano autografo, My Only True Friend, toccante testamento in forma di ballata al profumo di soul, che si apprezza vieppiù alla luce del supremum exitum. Il resto sono cover, nove, che spaziano da Tim Buckley ai Grateful Dead, da Willie Dixon ai Little Feat, da Bob Dylan a Jackson Browne (qui chiamato a duettare con Allman nella conclusiva Song For Adam), e si muovono in ambito più folk del solito, forse perché per il blues non c’è più tempo. Un congedo postumo con un sorriso, una carezza e una ritirata in punta di piedi, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.

L’altro 2017
Perché, ormai lo sappiamo, è il 2017 solo se ci credi.

Judas Priest – Jugulator
In occasione del ventennale l’ho rispolverato, scoprendolo più valido di quanto lo ricordassi e di quanto lo si è sempre fatto passare, forse per lo smarrimento di tutti i gruppi di heavy metal classico negli anni Novanta e senz’altro per la difficoltà a concepire i Priest senza Rob Halford. In realtà “Jugulator” è figlio legittimo del suo tempo, i suoni un concentrato di compressione al fine di incrementare lo spessore e i riff interamente pensati per creare il massimo groove possibile pur restando in velocità media, secondo lo schema portato al successo dai Pantera, ma la scrittura è solida e la voce di Ripper Owens non fa mancare nulla in termini di tecnica, aggressività ed espressività. Peccato solo per le intro e le outro che affliggono quasi ogni brano, aggiungendo a ciascuno almeno un minuto di troppo; in loro assenza, staremmo parlando del miglior album dei Judas Priest da “Painkiller”.

The Keys – The Keys Album
Incredibile scoperta casuale, ma di quelle destinate a durare. Perché l’omonimo LP del quartetto inglese, pubblicato nel 1981, è forse (ma forse neanche tanto forse) il miglior album di power pop di sempre. Prodotto da Joe Jackson, uscito su A&M, “The Keys Album” vedeva i Keys cesellare melodie meravigliose su chitarre cristalline e ritmi frizzanti, aggiungendovi strepitose armonizzazioni vocali, con un amore malcelato per il primigenio rock ‘n’ roll e la British Invasion ma un orecchio parimenti attento a ciò che accadeva nell’Inghilterra coeva, alle prese con new wave e rockabilly revival. E così Hello Hello è il singolo per cui i Cheap Trick degli anni ’80 avrebbero fatto carte false e One Good Reason tiene incredibilmente insieme Stray Cats e Wham! distillando il meglio da entrambe. E così il singolo I Don’t Wanna Cry si qualifica nientemeno come uno dei due o tre migliori pezzi power pop di tutti i tempi e la conclusiva World Ain’t Turning, stilisticamente vicina ai Plimsouls, non è tanto da meno. E così If It’s Not Too Much continua la tradizione di vestire Buddy Holly e Ricky Nelson della miglior sartoria britannica e Back To Black fa mostra di eco chitarristico e verve ritmica tipicamente rockabilly. E così fino alla fine, ossia finché si è costretti a ripartire da capo. La disgrazia, però, è che il disco non è mai stato ristampato e non ne esiste una versione digitale ufficiale, cosicché tocca o rivolgersi al mercato dell’usato, dove è difficile cavarsela con cifre contenute, o sfruttare il buon cuore di taluni utenti del solito sito dei video, a cui vi rimando. Imperdibile per chiunque.

Blue Ash – No More No Less
Altro classico del power pop, stavolta conclamato, ancorché di nicchia come il genere po(p)stula. Con questo debutto del 1973 il quartetto dell’Ohio intendeva alimentare la fiamma accesa dai Raspberries e dai Badfinger riportando in auge valori compositivi dei primi Sessanta. Con risultati artisticamente egregi ma di raggio limitato, visto che la penuria di vendite portava la Mercury a scaricare il gruppo già nel ’74, lasciandolo senza contratto per tre anni, fino ad un LP per l’etichetta di Playboy (!), ovviamente invenduto (il dico), e allo scioglimento nel 1979. Ma “No More No Less” resta una strepitosa istantanea della prima stagione power pop, quella più di tutte alle prese con l’alchemica individuazione dell’equilibrio tra armonia ed energia; spesso nella stessa canzone, come certifica in apertura Abracadabra (Have You Seen Her?), singolo esemplare, mentre le due cover in scaletta, Dusty Old Fairgrounds di Bob Dylan e Anytime At All di Beatles, fissano le coordinate stilistiche di riferimento, con giusto una punta di country in più. Nel mezzo, dieci pezzi autografi che avrebbero meritato miglior fortuna. Né più, né meno, per l’appunto.

The Bellrays – Black Lighting
Abbandonate le slabbrature punk degli esordi, gli ultimi Bellrays hanno abbracciato un suono pieno e a tratti quasi hard, senza per questo dimenticare chi sono e da dove vengono. Fermo che dal vivo sono insuperabili per quasi chiunque, “Black Lightning”, uscito nel 2011, ne è la prova: dieci pezzi, trenta minuti scarsi e una scarica emotiva che oscilla tra gli estremi di cui si compone il titolo, tra i muri chitarristici di Bob Vennum e gli affreschi vocali di Lisa Kekaula, tra la potenza di fuoco punk ‘n’ roll (la title-track, roba da far verdi d’invidia i Backyard Babies; Hell On Earth, punk allo spasimo; Everybody Get Up, machismo sonoro dal ritornello spietato) e una pur esuberante melanconia soul (Sun Comes Down è puro sound Hitsville U.S.A., la conclusiva Sun Comes Down legittimamente potrebbe essere griffata Motown, mentre nel mezzo Anymore è una lettera di congedo dalla vita con pochi equivalenti sul piano emozionale), tra l’anima black e la tempesta di fulmini. Difficile starne lontani, una volta scoperto.

Damnatio memoriae
Annihilator – For The Demented

Nomen omen.

And the road goes on forever: Gregg Allman (1947-2017)


E così da oggi non sentiremo più Gregg Allman intonare alcunché. La sua voce, la più grande voce del rock americano, un velluto tenorile squarciato e rappezzato con vibrante denim blues, una confessione accorata dell’impotenza umana di fronte alle ineluttabili miserie del mondo, una carezza porta da una mano screpolata, tace per sempre.

Da tempo la sua bellezza era sfiorita, vittima anche di quello stile di vita  che lo aveva condotto al trapianto di fegato ieri divenuto definitivamente inutile, ma dietro ai modi rallentati e alla favella esitante di un uomo che ha vissuto il blues con la stessa intensità con cui lo ha suonato e cantato si indovinavano ancora gli elementi che ne avevano determinato l’affermazione: un aspetto angelico (lunghi capelli biondi e penetranti occhi cerulei) mitigato da elementi canaglieschi (la barba incolta e le braccia ricoperte di tatuaggi) e un fascino carismatico che univa l’aura da rockstar predestinata alla casereccia cordialità tipicamente sudista. E poi, ma in realtà prima, un talento sconfinato per quella musica  catartica in dodici battute, che ha dapprima assimilata nel profondo e quindi contribuito in via primaria a reinventare con la band che portava il nome suo e del fratello Duane. Trovando per giunta il tempo di scrivere canzoni meravigliose come Whipping PostMelissa, Ain’t Wastin’ Time No More o quella Midnight Rider che è in un certo senso assurta a suo biglietto da visita.

Non a caso se ne è andato di notte. Senza lasciare che lo prendessimo. Buona cavalcata Gregg; so far so good.

E di Cher, di quando si sparò al piede per evitare la chiamata in Vietnam, o di quella volta che alla Casa Bianca si intrattenne con la madre di Jimmy Carter nella stanza da letto di Lincoln, fatevi raccontare da qualcun altro.

🎼20/17 Presto – coda

Ed eccoci di nuovo a fine anno, come sempre tempo di bilanci e annesse riflessioni sui risultati. Qui entrambi a carattere precipuamente musicofilo, e quindi non mi dilungo oltre in considerazioni non pertinenti. Le liste sono di lunghezza variabile e, come sempre, non in ordine di apprezzamento di ciò che viene elencato. Tanti auguri a tutti.

Dischi notabili

1. Imperial State Electric – All Through The Night

qui

2. Smokey Fingers – Promised Land

Lodi è quanto di più lontano dal Sud nordamericano si possa concepire, ma il secondo album di questo quartetto annulla sorprendentemente la distanza geografica che separa la band dalla sua terra promessa: voce sterrata, chitarre che pungono, slide campagnola, ritmiche compatte e neanche una canzone brutta. Musica onesta, verace, intensa, saporita. Southern rock come raramente se ne ascolta, tra gli Skynyrd odierni e certo hard alla Little Caesar.

3. Metallica – Hardwired…To Self-Destruct

Dopo l’esito referendario, la seconda sorpresa dell’anno: l’età si sente, ma il disco non è solo mestiere, perché ha il pregio di porgersi sentito (in ogni senso), e infatti i pezzi sono strutturati perché i quattro riescano a suonarli dal vivo a lungo (più a lungo di così!) senza rendersi ridicoli. Probabilmente hanno messo troppa carne al fuoco, ma l’insieme resiste al vaglio di ripetuti ascolti e tanto può bastare, a questo punto. Congedarsi così dalla discografia sarebbe un trionfo.

4. Testament –  Brotherhood Of The Snake

In epoca di paranoie complottistiche cosa c’è di meglio di un concept album su una setta esoterica che attraversa millenni e civiltà? In epoca di sensazione di trovarsi sul promontorio estremo dei secoli (cit., vabbè) cosa c’è di meglio di una quarantina di minuti di thrash suonato come si deve dalla migliore formazione del genere rimasta in circolazione? Dinamica, potenza, impatto, melodia, tecnica, ispirazione. Aspettando il nuovo degli Overkill, lo scettro resta in mano a Chuck e i suoi.

5. Exumer – The Raging Tide

Mai sottovalutare la Germania, perché altrimenti poi ti tocca combatterla frontalmente, e a quel punto per vincere bisogna impegnarsi. Dopo il dubbio ritorno del 2012, ecco finalmente quello che fin da subito avrebbe dovuto andare dietro ai due storici lavori degli anni Ottanta. Nulla di nuovo ma tutto fatto con competenza, gusto e passione, e con ottimi suoni (anche il thrash old school beneficia  dell’impatto che le nuove produzioni, se ben dosate, sanno garantire). La maschera di ferro è tornata per restare.

6. Blackberry Smoke – Like An Arrow

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7. Monkees – Good Times

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8. Great Master – Lion & Queen

Il power è morto anzi no, perché non solo è in atto un’operazione di ristampa dei classici (ad esempio “Return to Heaven Denied”; in vinile, per giunta) ma c’è anche gente che continua a macinare imperterrita il genere come se fosse il ’99 o giù di lì. Disco fuori dal tempo e però di spessore compositivo notevole, con tutto ciò che lo stile richiede: voci altissime, melodia, doppia cassa, riff da stinco con patate al forno e ambientazione storico-fantasy. Non per tutti, ma se piace delizia.

9. Boulevards – Groove!

L’imperativo che costituisce il titolo dice tutto di questo pastiche di funk fine ’70-primi ’80, disco e house: suoni fedeli senza essere filologici, voce tra canto e recitazione, ritmi coinvolgenti e un’atmosfera edonistica che congiunge l’epoca delle spalline a quella del twerking. Tipo un Bruno Mars fatto bene. Il male, se chiedete a me, ma al groove si resiste a malapena; ambientazione perfetta un party estivo all’aperto, che sia estate o meno.

10. The Excitements – Breaking The Rule

Meno che l’esordio ma più di “Sometimes Too Much Ain’t Enough” (2013), il terzo LP trova i barcelloneti in forma scoppiettante, capaci di costruire un groove spesso e pieno di anima, che lo straripante carisma vocale della meravigliosa Koko-Jean Davis (s)veste di una sensualità mas que caliente. Soul ed errebì antiquo more, per ballare e commuoversi, per desiderare ed ottenere; in breve: per sentirsi vivi. Da avere rigorosamente in vinile.

L’altro 2016

Perché è il 2016 solo se ci credi.

Lord Finesse – Funky Technician

Uno dei migliori dischi rap di sempre (per quanto mi riguarda, nella Top 3 con “It Takes A Nation Of Millions To Hold Us Back e “Straight Outta Compton”) e uno dei più ignorati. La old skool newyorkese all’apice delle sue possibilità: campionamenti di James Brown, virtuosismi inauditi ai piatti (mai sentito uno scratch così!) e un flow strepitoso del MC (il verso “I kick the tune like my man Beethoven” mi strappa un sorriso ogni volta). Ma soprattutto una fluidità di ascolto che gli album rap non hanno praticamente mai. Un capolavoro, punto.

Marvin Gaye – Trouble Man

Si comincia a riscoprirlo, ma resta comunque l’album più sottovalutato della sua carriera. Gran peccato, perché questa colonna sonora (del film omonimo) riassume al meglio il lato musicale del fenomeno blaxploitation, muovendosi “tra un funk in punta di dita e un jazz da nightclub” con atmosfere variegate ma sempre seduttrici, complice un sassofono ora guizzante ora ammaliante. Marvin canta poco (ma quando lo fa è subito spettacolo: la title-track è su ogni antologia del nostro che si rispetti) ma compone, arrangia, suona piano, chitarra e batteria e anche produce in maniera sopraffina. L’esperimento soundtrack non verrà mai ripetuto, ma l’album resta un fotogramma del fermento culturale nero degli anni Settanta che mantiene inalterato il suo fascino anche a distanza di oltre quarant’anni.

Mark Free – Long Way From Love

Ci sono (stati?) governi di “centro—-sinistra” e dischi di “AO—R”. Questo, ad esempio: la batteria è praticamente sempre una drum machine, le tastiere dominano e la chitarra si sente appena; dov’è il rock? Eppure gli arrangiamenti funzionano, la scrittura è di livello raramente eguagliato in quest’ambito e la voce altissima di Mark (ora Marcie) Free colora magicamente il tutto. Per amatori, probabilmente, ma qualificarlo guilty pleasure sarebbe riduttivo e ingiustificato: in fondo, per imparare ad apprezzarlo basta avere gli amici giusti.

The Shadows Of Knight – Gee-El-O-Are-I-Ay

Antologia di una delle più selvatiche band  del garage anni Sessanta, questo LP, uscito per l’inglese Edsel nel 1985, assomma gli episodi migliori dei primi due lavori della formazione di Chicago (entrambi classici del garage), aggiungendovi qualche brano altrimenti rimasto di difficile reperibilità (su 45 giri) e risultando nel complesso preferibile ai singoli  album per la sua capacità di racchiudere l’immediatezza del genere in uno spazio limitato. Mega biblìon, mega kakòn from the first psychedelic era.

Damnatio memoriae

Rolling Stones – Blue And Lonesome

Comprato appena uscito sulle ali dell’entusiasmo generato da talune recensioni, ascoltato subito e ripetutamente, piaciuto dapprima, accantonato poco dopo. Magari sarà anche vero che è nato spontaneamente, per caso, cazzeggiando in studio, ma la spontaneità non basta a far sì che la sensazione di raggiro ben orchestrato si dissipi; anzi, si accresce con gli ascolti (ed anzi decolla scoprendo che l’edizione limitata dell’album è un cofanetto doppio con “Blue And Lonesome” assieme a quell’altra sesquipedale presa per i fondelli nomata “Havana Moon”). Anche godibile ma decisamente superfluo; come ha notato taluno, se un disco del genere fosse uscito senza la celebre griffe linguacciuta non se ne sarebbe accorto nessuno. Non commettete anche voi il mio errore: piuttosto tirate su “Play Chess” dei Morlocks, che vi costerà un terzo e vi farà godere il doppio.

Dallas Powers: The Roomsounds – Elm St.

the roomsounds - elm st.
Lo ricorderanno tutti i lettori: Elm St. è la famigerata strada in cui per la prima volta si manifestava Freddy Krueger. Ma per gli appassionati di musica la cosa non si ferma qui, perché una via omonima esiste effettivamente a Dallas, Texas, ed è ab immemore l’epicentro (uno degli epicentri, quantomeno) della brulicante scena musicale cittadina.

Da questo microcosmo di creativi, sfaccendati, affamati o semplici curiosi vengono anche i Roomsounds. Un quartetto fondato da Ryan Michael, transfugo da trascorsi punk nel natio Connecticut, con il chitarrista Sam Janik, il bassista Red Coker e il batterista Dan Malone, con l’obiettivo dichiarato di far rivivere il migliore classic rock della tradizione a stelle e strisce, àuspici le migliori colonne portanti britanniche: e dunque via di Tom Petty & the Heartbreakers, Allman Brothers Band, blues elettrico, neo-garage d’inizio millennio, sprazzi country e tutto l’armamentario, ottimamente sorretto da un’immagine perfetta, vintage ma non oltranzista.

Del 2012 è il debutto “Ripper”, che irrompe sulla scena d’oltreoceano causando un certo qual passaparola per la qualità della proposta. Alla quale fa seguito ora, dopo tre anni e oltre duecentocinquanta concerti, il nuovo LP, intitolato giustappunto “Elm Street”, in uscita domani 25 marzo. Inciso a Muscle Shoals e già questo basterebbe; ma in realtà l’indicazione è fuorviante, perché, rispetto al passato, le tendenze melodiche sono aumentate a descapito dei decibel (“Mentre il nostro primo album era più rock ispirato dal blues, questa volta mi sono orientato maggiormente verso un’atmosfera power pop. Ho suonato una Rickenbacker per un po’, che in un certo senso si presta ad un jangle alla Beatles, Byrds e Tom Petty. E poi mi sono trovato ad approfondire band come i Badfinger, i Big Star, e Nick Lowe. Ma, alla fine, sono sempre quattro accordi nello spirito del rock ‘n’ roll“, ha dichiarato Ryan Michael, chitarrista-cantante e principale compositore), per un risultato comunque di ottimo livello. E, per sincerarsene prima di scucire i sudati denari, qui si può ascoltare in anteprima l’intero “Elm St.” in streaming.

Dei Black Crowes per il nuovo millennio? Chissà. Intanto, però, i Roomsounds sono pronti per riempire la stanza. La mia di sicuro. Spero non sia l’unica.

Deo vindice: Blackberry Smoke – Holding All The Roses

blackberry smoke - holding all the roses

Il southern rock è il linguaggio rock più geograficamente radicato che esista: lo suonano principalmente gli americani, e segnatamente quelli provenienti dagli Stati sudorientali degli U.S.A. (e nemmeno da tutti, perché la Florida è South solo al nord, sull’ipotetica linea che congiunge Jacksonville a Talahassee, e il Texas è neither southern nor western, mentre vanno senz’altro inclusi nel Sud musicale Stati quasi midwestern come Kansas, Missouri e Arkansas). Di questi, la Georgia è regina indiscussa del suono stars and bars: patria di Allman Brothers Band, Atlanta Rhythm Section, Wet Willie, Georgia Satellites, Black Crowes, Widespread Panic e Drive By Truckers, il Peach State è il custode ultimo della tradizione del rock più ruspante ed autarchico mai prodotto, proiezione del blues nell’era della psichedelia e delle jam nonché ponte verso la tradizione country e mano tesa ai suoni di più pura matrice nera (anch’essi homegrown, beninteso, ché Ray Charles, Little Richard, Otis Redding e Curtis Mayfield erano tutti georgiani).

La pervicace localizzazione e il rifarsi ad un linguaggio musicale sì globalizzato, ma sempre intrinsecamente locale, perché derivante da specifiche dinamiche socio-economiche esistenti in quei luoghi in un dato momento storico (all’incirca 1968-1977; il southern rock prodotto dopo è soltanto una rivisitazione degli stilemi codificati originariamente), ha con ogni evidenza limitato la diffusione mondiale di quel suono, cosicché attualmente è impossibile indicare un gruppo southern non americano di una qualche rilevanza o anche solo di una certa fama: europei, giapponesi, sudamericani, australiani e neozelandesi, e cioè oltre il 90% della produzione rock esistente, hanno sempre battuto altre strade sonore. Ma anche i complessi yankee hanno preferito orientarsi altrove, e i pochi sparuti che sono rimasti fedeli al verbo sudista godono di una sorta di fama “regionale”. Insomma, giunto ad un declino di popolarità ex abrupto nel 1977, fiaccato dall’esaurimento dell’iniziale spinta creativa, imbastarditosi con l’hard rock vero e proprio (spesso fino a confondervisi) negli anni Ottanta e solo parzialmente riesumato a partire dagli anni Novanta, il southern rock sembra essere morto. Sembra.

“Sembra” perché qualcuno ancora considera questo suono come una materia viva e pulsante, da plasmare secondo le proprie necessità e sensibilità, gettando un altro personale collegamento tra una pagina feconda ma ingiallita del passato del rock e un presente dispersivo in cui la liquidità sonora si coagula in mille rivoli distinti ma indistinguibili. E la plasma portandola da anni su tutti i palchi possibili, delle arene nelle grandi città come dei localini nella provincia profonda, per oltre duecentocinquanta sere l’anno. Vivendo sulla strada e incidendo dischi per passione più che per calcolo commerciale, con la costante consapevolezza che it’s a long way to the top if you wanna rock ‘n’ roll. I Blackberry Smoke, da Atlanta, GA, sono questo qualcuno.

Appresi dell’esistenza di questo quintetto un paio di anni fa, da un amico trasferitosi in America, proprio nel Sud. Mi parlò di una band locale di belle speranze, che, al tempo (si era nel 2012), aveva appena partorito il terzo album “The Whippoorwill”. Che l’amico mi consigliò: “Southern suonato alla vecchia maniera, e poi dal vivo spaccano“. Mi fidavo, e mi fido, del suo giudizio, quindi ascoltai il disco: effettivamente la stoffa c’era, e un paio di pezzi mi colpirono davvero profondamente e rimasero impressi nella memoria (Six Ways To Sunday e Everybody Knows She’s Mine avevano l’approccio insieme pigro e procace del migliore rock sudista), ma la maggior parte dell’album mi pareva troppo adagiato sul country, o perlomeno sul tentativo di un suo riadattamento al rock moderno, e quindi, dopo un paio di ulteriori ascolti, lasciai perdere e mi dimenticai del disco, registrando, però, il nome dei Blackberry Smoke tra quelli di potenziale interesse e da tenere d’occhio. Attesa durata fino ad oggi.

Il nove febbraio è uscito “Holding All The Roses”, quarta fatica sulla lunga distanza per il quintetto di Atlanta, e mantiene le promesse che il passato aveva lasciato trapelare: la gavetta concertistica ha pagato in termini di perizia strumentale, il songwriting è giunto a (definitiva?) maturazione e la crescente fama (che ha condotto il gruppo ad essere pubblicato in Europa dalla potente Earache) ha consentito ai nostri di accaparrarsi i servigi in studio di una vecchia e saggia volpe come Brendan O’Brien, per una resa sonora eccellente nel coniugare le esigenze dell’odierna loudness war e la rusticitas che il genere comanda. Ma la scrittura è ciò che più sorprende, disvelando un gruppo consapevole dei propri mezzi e pienamente abile nel decrittare le proprie influenze, forse scontate ma gestite con intelligenza e gusto: se Too High ci porta in gita nella Nashville di una volta, Lay It All On Me trasuda il feeling verace che può possedere solo chi gli honky tonk li ha frequentati davvero; se Let Me Help You (Find The Door) olezza degli Stones settantiani, la title-track parte bluesy da film western e approda a un ritornello insidioso senza per questo scordare un intermezzo country-bluegrass in stile Charlie Daniels Band; se Rock And Roll Again rolla il boogie come hanno insegnato gli ZZ Top, Randolph County Farewell è 1:17 in acustico che non sorprenderebbe sapere uscito dalla chitarra di Toy Caldwell. Non tutto è oro, in verità, perché Payback’s A Bitch sembra uno scarto degli Aerosmith e Woman In The Moon un interlocutorio pasticcio di R.E.M., country ed echi di James Taylor, ma nel complesso la qualità è ampiamente soddisfacente e, mi pare, superiore a quella dei loro dischi precedenti. Anche se, vista la sorprendente crescita dimostrata in soli due anni, una vocina insistente continua a suggerirmi che ci sono ulteriori margini di miglioramento per i Blackberry Smoke.

In conclusione: un album valido, per iniziare al meglio l’anno e per ricordarci che, anche nel rock ‘n’ roll, the more things change, the more they stay the same.

Ο μύθος δελόι ότι: Georgia Satellites – In The Land Of Salvation And Sin

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Sono un indeciso. Fatico a effettuare una scelta quasi tutte le volte in cui sono chiamato a farlo; e ancora più spesso me ne pento, ripensando alla bontà o meno della decisione presa e non infrequentemente cambiando idea, con annessa speranza nella possibilità, invero rara, di essere nuovamente chiamato alla stessa scelta, così da poterla compiere nel senso apparsomi infine corretto. Insomma, per me la Danimarca è tuttora più Kierkegaard che King Diamond. Eccone un esempio.

Treviso, settembre 2014. Fiera del disco. Ci vado con il solito compagno di questo genere di scorribande, per liberarmi di vecchi arnesi fonografici, il più delle volte per rimpiazzarli con altri. Ecco quindi che cerco di disfarmi di errori/orrori acquistati in passato, barattandoli con una scarna lista di titoli che da tempo mi occupa la mente. Uno di questi viene scovato dal mio compare, che mi addita l’ubertosa bancarella. Accorro, e lo individuo: è proprio lui, quello che cercavo! “Live: You Get What You Play For” degli REO Speedwagon, stampa americana d’epoca in CD e in ottime condizioni. Contratto con il venditore e alla fine l’affare è fatto, tre dei miei contro il suo (ovviamente starete già osservando che si capisce bene chi dei due ha fatto l’affare, ma c’è da dire che i dischi sacrificati davvero non avevano più diritto di cittadinanza nei miei padiglioni aurali, e dunque perché trattenerli solo per questioni numeriche?). Soddisfatto, indugio un altro po’, scorrendo la lista dei titoli, nella speranza di trovare qualcos’altro di interessante a cui opporre alcune delle vestigia del mio passato musicale che ho portato per fini di scambio. E, come spesso accade in questi casi, l’occhio mi cade per caso su un titolo. Uno in particolare.

“In The Land Of Salvation And Sin” dei Georgia Satellites. È là, davanti a me, e una costina di colore beige-crema con autore e titolo scritti in un asettico lettering nero sta lì a testimoniarlo. Un disco che nel mio personale immaginario è avvolto da un alone di leggenda, perché ne ho sempre letto in toni entusiastici senza, però, vederlo mai da alcuna parte. Ed ora è là, davanti a me, pronto per essere tirato fuori e barattato con altri dischi o, tuttalpiù, pagato una cifra bassa e comunque compatibile con le mie disponibilità. Un’occasione d’oro. Appunto.

Il cervello si sofferma brevemente sull’ipotesi di compiere le anzidette operazioni. Sembra ovvio, in effetti. Poi, però, accade l’inspiegabile. Interiormente, negli anfratti dello stato vigile, tra connessioni sinaptiche a pieno regime e un sistema simpatico di sufficiente efficienza, si fa strada un insistente frinire, che collodianamente e disneyanamente mi piace pensare adorno di cilindro, frac e ombrello, ma anche di occhiali scuri. Una specie di Lux Interior, insomma, di nome e di fatto. La sua voce si fa insistente, e si pronuncia a senso unico: “Ma cosa te ne fai di un altro disco, ché sei qua a liberarti di quelli che hai già? Magari, poi, sto album non è neanche tutto sto granché, e, oltre al problema dello spazio, hai anche quello dell’aver sprecato soldi per una cosa che non ti piace”. Martella insistente, l’insetto; non molla. “Ma sì – mi dico – in fondo ha ragione, cosa me ne faccio? Magari non è niente di che, e mi ritrovo con una delusione, che sarebbe ancora peggio del dubbio. E poi cosa me ne faccio di un altro disco, con tutti quelli che ho?”. Finisce che gli do retta, al grillo. Anzi no, che vengo via con un altro disco, “Win, Lose or Draw” della Allman Brothers Band; pagato dieci Euro, laddove è cosa nota che in qualunque megastore d’Italia è uno di quelli stabili a 4,99. Quando si dice un colpo da maestro.

I giorni passano, e il pensiero fisso resta. Che fare? Rimanere fermi sui propri principi o ammettere la sconfitta e soddisfare la curiosità procurandosi il benedetto disco? Se avete letto quanto sopra, saprete già la risposta: ricerca in rete, comparazione di qualche offerta, un paio di click e voilà, per un paio di Euro in più del prezzo del venditore trevigiano (giusta penale per la smemoratezza del carpe diem, oserei dire) “In The Land Of Salvation And Sin” entra a far parte della grande famiglia, completando il trittico di album del gruppo americano. Accoglienza trionfale per il pacchetto, apertura (facciamo distruzione) febbrile dell’involucro, inserimento subitaneo nel lettore e pressione del tasto “Play” con mano tremante e aspettative alle stelle. Ma prima un passo indietro.

I Georgia Satellites nascono nei primi anni Ottanta dalla fusione di due band rivali, entrambe dedite a battere i bar di Atlanta suonando un boogie ad alto voltaggio: gli Hellhounds schierano il cantante e chitarrista Rick Richards e il bassista Rick Price, mentre i Woodpeckers sono guidati dal cantante e chitarrista Dan Baird. Quando entrambi i gruppi si sciolgono, i tre, con il batterista Mauro Magellan a completare l’organico, si uniscono sotto la nuova ragione sociale e, assunti da Baird gli oneri della voce e del songwriting, iniziano a tessere le trame di un rock ‘n’ roll ruspante, essenziale e frenetico, che pesca in via direttissima nella tradizione più illustre del genere: Chuck Berry, Stones fino a “Some Girls”, Faces. Scelta sbagliata su tutta la linea, dal punto di vista sia temporale sia spaziale. È un tempo, quello, in cui dominano due realtà di segno esattamente opposto: da un lato la produzione pompata e lussuosa delle uscite mainstream (in campo rock ma non solo), prodiga di arrangiamenti elaborati e suoni sintetici e latrice di spettacolari sofisticherie, in linea col mantra voluttuario ed edonistico del decennio; dall’altro le scarne registrazioni delle realtà indipendenti sorte sull’onda lunga del punk, fieramente orgogliose della loro autonomia, capaci di fare di necessità virtù ottimizzando al meglio i pochi mezzi a disposizione e decise ad opporsi ai diktat della grande industria con lavori che puntano più sullo spessore artistico e sulla creatività che sulla commerciabilità. Inoltre, proprio dal Sud nordamericano, e in particolare proprio dalla Georgia, muovono molti artisti di grande interesse nel circuito indie rock di quel periodo (R.E.M., B-52’s, e altri ancora), mentre il blues e tutto ciò che vi deriva non godono di alcuna attenzione (perlomeno fino al successo di “Texas Flood” di Stevie Ray Vaughan, uscito nel 1983). Difficile, dunque, farsi notare con una proposta come quella dei Satelliti. Eppure…

L’Inghilterra ha aperto gli occhi degli americani bianchi sulla forza espressiva del blues, partorendone, nel lustro iniziale degli anni Sessanta e per tutto il decennio, con strascichi fino alla metà della decade seguente, la prima declinazione in chiave rock. Naturale, quindi, un maggior interesse britannico per le sonorità rock con derivazione immediata dalle dodici battute e dal boogie, persino in un momento in cui le tendenze sembrano andare in direzioni diametralmente opposte. Di tale circostanza si avvantaggiano i nostri, che, dopo l’immancabile gavetta concertistica nei locali di mezzo Sud, si trovano oggetto di interesse dell’indipendente inglese Making Waves, per la quale pubblicano l’EP “Keep The Faith” nel 1985, titolo inequivocabilmente programmatico e un rock che ancheggia e ondeggia come ai bei tempi senza, però, dimenticare la lezione e i volumi dell’hard e la tipica spensieratezza sudista. Mossa consolidata, quella di abbordare l’Inghilterra per poi (tentare di) tornare in pompa magna in America (Jimi Hendrix? Flamin’ Groovies? Stray Cats?), che funziona anche con i Satelliti: la major Elektra si accorge di loro e li scrittura subito, spedendoli in studio. Chissà cosa pensava di ricavarci, a metà anni Ottanta, da quel complesso di irriducibili revisionisti. Come che sia, l’album omonimo esce nel 1986 e sorprende tutti, in primis il gruppo stesso, finendo in classifica a traino del singolo Keep Your Hands To Yourself, boogie pestone in 4/4 con gli Humble Pie per padri e per nonno Chuck Berry e corredato da un video rustico, essenziale e divertente come il brano stesso. Le cose sembrano marciare bene per i Georgia Satellites, ma la vera faccia del music business è in agguato: il successivo “Open All Night”, uscito l’anno seguente e orientato sulle stesse coordinate sonore, ma con più pezzi originali e con l’apporto pianistico dell’ex Faces Ian McLagan, fallisce qualsiasi obiettivo commerciale, complice l’evidente estraneità del gruppo al mainstream rock coevo; come sperare di vendere un Dan Baird con pronunciata fessura tra gli incisivi e un look a base di All Star nere, t-shirt e jeans arrotolati (a mostrare un orrido tubolare bianco a coste) ad un pubblico che divora milioni di copie dei Poison e che manda in heavy rotation video in cui cantanti spalmati di cerone e dai boccoli biondi scintillanti esibiscono sfrontatamente il loro desiderio ammantati di spolverini di seta, mentre modelle in negligé si strusciano lascive su Jaguar fiammanti? Fine delle trasmissioni, e i Satelliti sono ricacciati nella dimensione a loro più congeniale: il palco.

Quando il gruppo si chiude nuovamente in studio, il calendario segna il 1989: l’hard blues sta conoscendo una risorgenza nelle classifiche grazie a gente come Aerosmith, Tesla, Great White, Kingdom Come e Blue Murder, ma a farla da padrone sono sempre gli stilemi codificati dal triumvirato Led Zeppelin-Kiss-AC/DC riletti attraverso le cromature sonore e i tecnicismi strumentali tipici della decade che volge ormai al termine, e su Billboard non c’è posto per proposte sonore affini ma più ruspanti e legate alle radici (come, invece, avverrà nel nuovo decennio con i Black Crowes, guarda caso georgiani anche loro). La Elektra, tuttavia, decide di provarci lo stesso, e quello stesso anno esce infine “In The Land Of Salvation And Sin”. “Infine” perché scarsi saranno i riscontri di vendite e il gruppo, dopo un tour promozionale culminato nell’ottima esibizione al Roskilde Festival di quell’anno, decide di separarsi, con buona pace di tutti. Richards sarà spalla per i Ju Ju Hounds dell’ex Guns ‘n’ Roses Izzy Stradlin (apprezzabile l’album omonimo del 1992, sempre a base di rock classico) e poi alfiere della disastrosa ed effimera reunion del 1997 (senza Baird), Baird sarà solista di spessore in una linea d’ombra tra rock e country, Magellan abbandonerà la musica. Satelliti di nome e di fatto.

Restano, come detto, tre LP, di cui quello in commento costituisce l’ultimo e l’apogeo qualitativo. Difficile spiegarne il perché: forse la raggiunta maturità compositiva di Baird, forse la consapevolezza che più nulla vi era da perdere dopo la debacle commerciale di “Open All Night” e che tanto valeva profondere tutto nel nuovo album. E dunque il gruppo, ma soprattutto il suo principale autore, dà sfogo alle proprie influenze più recondite, distaccandosi parzialmente dal boogie elettrico e festoso delle due prove precedenti e mostrando una faccia più riflessiva, animata dai soliti referenti (Faces – anche qui Ian McLagan è della partita -, Rolling Stones, Chuck Berry), ma anche debitrice di altri ascendenti: il country, Tom Petty, i Lynyrd Skynyrd, i Little Feat, Joe South (sua la Games People Play qui resa con piglio sornione), i Replacements. Ne risulta un perfetto equilibrio tra energia e melodia, in un amalgama raramente eguagliato dalle proposte di area lato sensu hard rock di quel periodo. Merito di una produzione attenta (opera del gruppo stesso e di Joe Hardy nella cornice storica degli Ardent Studios di Memphis; gli stessi, per dire, in cui Alex Chilton trascinò i Cramps debuttanti) e di canzoni che vanno oltre i più triti cliché del rock muscoloso: I Dunno si dimena come dei New York Dolls con al culo il miglior pepe dixie; Bottle O’ Tears tributa i ‘Mats al passaggio tra irruenza degli esordi e maturità di epoca “Tim”; All Over But The Cryin’ è un’amara constatazione di amore perduto che addita gli Spezzacuori di Tom Petty come i principali responsabili; Shake That Thing parte come la Mr. Brownstone “pistole&rose” ma sorprende subito con una slide presa a prestito da Lowell George e compagni ed esplode in un coro contagioso che parla di vizi sani; Another Chance, acustiche e un mandolino, e Sweet Blue Midnight, ricamata dalla lap steel e ingentilita da cori femminili, sono state incise a Memphis ma si direbbero di Nashville; Slaughterhouse rammenta di cos’erano un tempo capaci i Molly Hatchet; Stellazine Blues potrebbe essere il pezzo di gran lunga migliore di un qualsiasi album degli Stones post-’74. Rock ‘n’ roll, né più né meno.

Capaci di mantenere viva la fiammella del rock più ruspante e verace anche nel corso del decennio maggiormente dimentico delle radici musicali, i Georgia Satellites sono, ad onta dell’effimero e comunque scarso successo, un gruppo di importanza in un certo senso storica, per come hanno raccolto l’eredità del southern rock degli anni Settanta (a sua volta influenzato dalle sonorità rock blues sdoganate dagli inglesi nei Sessanta) e hanno traghettato il genere negli anni Novanta, periodo in cui ha conosciuto un inatteso ritorno di fiamma con la reunion della Allman Brothers Band, con il consolidarsi di quella dei Lynyrd Skynyrd e con un’ottima serie di giovani virgulti come Black Crowes, Gov’t Mule, Widespread Panic, North Mississippi All Stars, fino ai più recenti Drive By Truckers e Blueberry Smoke. Compito ingrato, quello del propheta in patria, ma necessario; questo, in sintesi, il merito ultimo dei Satelliti, sublimato nel terzo LP, splendida ricapitolazione di due decenni di rock sudista e, in generale, dello spirito rock ‘n’ roll.

Mai ristampato ma di non difficile reperimento, “In The Land Of Salvation And Sin” vale ogni centesimo dei dieci, quindici Euro che vi chiederanno. Perciò, se lo trovate, fatelo vostro senza pensarci due volte (ed è questa frase il senso ultimo della citazione nel titolo), perché è un peccato non farsi salvare da un disco così.

Nobody’s Fault But Mine

Vorrei farlo. Davvero, vorrei farlo ma non ci riesco. Mi sforzo, penso sempre che i miei venticinque…sì, insomma, voi che avete pazienza o sfortuna di capitare da queste parti meritate qualcosa di più. E infatti mi sforzo, ci provo, ci penso e ci rimugino. Ma niente, non ci riesco.

Vorrei raccontarvi grandi storie musicali e aneddoti significativi per comprendere il contributo delle sette note in versione popular allo sviluppo della società nell’ultimo secolo, anno più anno meno. Vorrei additarvi album storici, magari da riguardare sotto ottiche diffferenti, e gemme discografiche celate dal passato nel suo scrigno impietoso. Vorrei schizzare sarcasmo altamente urticante verso la degenerazione della musica e della società contemporanea con pappardelle misantropiche dal linguaggio piano e ricorrentemente sguaiato come quelli di Bastonate. Vorrei, ma non ci riesco. Qualcosa mi trattiene, qualcosa di ardua individuazione e dalla stretta ferrea.

Sicché me ne sto qui con le mani in mano, mentre la mente è un impetuoso tumulto di mesmerico ribollire, un crogiolo di ideazioni con crismi di genio e durata di crisalide, un magma incandescente di mercuriale frenesia sinaptica. E finisce che non vi narro nulla di ciò che vorrei e dovrei (perché, diciamocelo, nessuno ti obbliga ad aprire un blog, ma, una volta che decidi di farlo, hai delle responsabilità verso i terzi, lettori ignari; ma poi, l’ignavo sa di essevlo?). Perdonatemi. Ecco, ce l’ho fatta, ve l’ho detto. Perdonatemi.

Perdonatemi se non vi ho mai confessato che per me il primo, omonimo album dei Rush è il loro unico veramente meritevole di ascolto proprio perché non sembra un disco dei Rush, e quindi colmo di stramberie ideologiche e contorsioni strumentali, ma solo una chicca totalmente devota al verbo zeppeliniano in suoni, brani e intenzioni, per consolarsi che nel 1974, anno in cui uscì, il Dirigibile aveva già parzialmente smarrito la rotta.

Perdonatemi se non riesco a mettervi in guardia dall’effetto destabilizzante che l’ascolto di “Laid Back” di Gregg Allman potrebbe causarvi, con quella voce che è una carezza porta da una mano screpolata e quelle canzoni piene di anima e di soul, malinconiche senza generare malinconia, buone per tutte le stagioni dell’anima e della vita, per ricordarsi da dove veniamo e dove andiamo, ma soprattutto cosa dobbiamo affrontare nel tragitto.

Perdonatemi se vi ho celato che in “Louisiana Rock & Roll”, terzo LP degli americani Potliquor, c’è un tasso di umidità superiore a quello della fascia Comacchio-Grado e per quello alcolico è un serrato testa-a-testa, e che sapere l’album inciso a Baton Rouge, Louisiana è solo la riprova che la bandiera della Confederazione sventola maestosa mentre fiati stile Muscle Shoals, pianoforti di Memphis (lato Beale Street) e chitarre con la fregola di Jacksonville si radunano a far bisboccia sulle rive del Mississippi, whiskey di segale e certi funghi che non ti dico.

Perdonatemi se finora ho esitato nel definire “Home” degli Spearhead uno dei più godibili (ci sta? Ci sta: migliori) album hip-hop del secolo scorso, quando le basi si creavano anche senza un computer e la pantomima gangsta non aveva ancora relegato nell’ombra ogni altra forma espressiva del genere, un gioiello dal groove irresistibile per chiunque (lo ripeto: per chiunque; provare per credere) ricavato da rime ora politiche ora personali e sempre scomode adagiate dalla voce intensa e peculiare di Michael Franti su basi suonate che riassumono due decenni di musica nera, Curtis Mayfield e Bob Marley, Prince e James Brown, e che riportano il genere…beh, a casa.

Perdonatemi se mi è mancato il coraggio di invitarvi al ballo per spiriti inquieti dato dal misconosciuto Paul Roland, una “Danse Macabre” scandita da un folk rock gotico e sepolcrale nell’ambientazione quanto acido e lunatico nella resa, mentre dalle chitarre acustiche e dagli scarni archi promana un’aura funebre come il solingo e muto carro rammostrato in copertina, ad aumentare il fascino oscuro dell’ascolto.

Perdonatemi se non vi ho suggerito (rectius, prescritto) di fare vostro “Remedy”, l’ultimo disco dei giovani e promettenti (mantenenti, anche) Old Crow Medicine Show, per un saggio di musica degli Appalacchi, bluegrass in primis, scritta bene, suonata meglio e coinvolgente ancor di più, una perfetta ricostruzione di una tradizionale festa paesana di bianchi nel Tennessee rurale, dove tutti sono amici e si balla finché la banda suona e racconta storie hillbilly e l’alcol scorre (cioè si balla sempre).

Ecco, io voglio dirvi tutte queste cose, ci tengo proprio. Ma non ci riesco, qualcosa mi trattiene. Sì, lo so che è solo colpa mia; lo dice anche il titolo, se provate a leggere in cima. È che proprio non ci riesco, è più forte di me. Sconfitto torno a giocar con la mente e i suoi tarli. Perdonatemi, perdonatemi se potete.