Happy birthday, the Dude!

Oggi Quincy Jones, il più grande musicista pop vivente (dove “pop” va inteso nel senso lato di popular, e non nel senso più strettamente letterale dello stile musicale, altrimenti il titolo andrebbe condiviso con Paul McCartney), compie 90 anni. L’ultimo di una stirpe morente – e anzi sostanzialmente morta, vista anche la recente dipartita del quasi coetaneo Burt Bacharach – di compositori, arrangiatori, direttori d’orchestra ed esecutori con competenza, idee e gusto. In una sola, e spesso abusata, parola: talento. Tantissimo talento.

È pressoché impossibile enunciare tutti i nomi che hanno incrociato la strada di “the Q”, e anche senza tralasciare gente del calibro di Frank Sinatra, Miles Davis, Ray Charles e Michael Jackson l’elenco sarebbe sterile e comunque incompleto. Limitiamoci a rilevare che senza Quincy Delight Jones Jr., classe 1933, da Chicago, la musica non sarebbe quella che noi tutti, volenti o nolenti, conosciamo.

Tanti auguri, Mr. Jones. Anche se vivrai in eterno, possa tu vivere ancora a lungo.

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Where were you in ’22?

Un breve resoconto delle uscite discografiche ritenute interessanti di un anno non esaltante dal punto di vista musicale (e magari neanche da altri), al punto che il picco è probabilmente costituito dal concerto dei Gruesomes, il primo in terra italica, il 2 luglio scorso al Festival Beat (mentre il nadir dalla perdita del Rock The Castle per isolamento pandemico). Parafrasando i Barracudas, e nondimeno restando nel plausibile, I wish it could be 2021 again. Buoni ascolti e auguri.

Hellacopters – Eyes Of Oblivion

Difficile immaginare un rientro discografico dei ‘copters dopo la prolungata reunion solo concertistica del 2016, e invece Nicke Royale e compagnia hanno trovato l’ispirazione per entrare in studio e affidare al nastro dieci brani che fanno il punto sulla carriera del gruppo, inseriti nel presente retrò del rock ma non dimentichi dei trascorsi n’ roll della gioventù. Ovviamente il grosso della farina compositiva viene dal sacco del leader, che, oltre a cantare e suonare la chitarra, produce e si cimenta anche col basso (scelta curiosa, considerato che dal vivo le quattro corde sono affidate a Sami Yaffa o a Dolf DeBorst), ma il piacere dei quattro di riprendere da dove avevano lasciato con rinnovati entusiasmo e ispirazione, soffermandosi anche su qualche riflessione che la maturità quantomeno anagrafica e le conseguenti traversie della vita inevitabilmente impongono, è palpabile nelle rispettive prestazioni strumentali. Il risultato è, ancora una volta, una lezione di rocchenroll fatto come si deve, il culo a Stoccolma e il cuore a Detroit. Col passare del tempo, a onor del vero, la scrittura di Nicke si è fatta più pacata (sul lento soul di So Sorry I Could Die, dedicata all’ex chitarrista Robert Dahlqvist, morto suicida nel 2017, si trattiene a stento la commozione), ma non per questo ha perduto smalto melodico e impatto eccitante, e questi trentaquattro minuti che scivolano via con la massima naturalezza ne sono la migliore dimostrazione. Un ritorno pienamente soddisfacente, del quale è saggio preferire l’edizione speciale, che all’album aggiunge l’EP di cover “Through The Eyes Of The Hellacopters”, dove vengono rilette, al solito con impeccabili eclettismo e personalità, Eleanor Rigby, Circus degli String Driven Thing, I Am The Hunted dei GBH e I Ain’t No Miracle Worker dei Brogues. Avercene.

Skid Row – The Gang’s All Here

A proposito di ritorni, quello discografico degli Skid Row ha colto un po’ tutti di sorpresa, per la presenza dell’ex H.E.A.T Erik Grönwall alla voce in sostituzione dell’ex Dragonforce ZP Theart ma soprattutto per la qualità del nuovo album, uscito a metà ottobre e subito proiettato sul podio dei dischi migliori del gruppo del New Jersey. Merito della nuova linfa portata dal cantante svedese ma soprattutto di un lotto di canzoni che recupera gli elementi migliori della carriera del gruppo, dalla strafottenza beffarda del debutto (The Gang’s All Here, Not Dead Yet, When The Lights Come On) all’assalto strutturato di “Slave To The Grind” (Hell Or High Water, World On Fire), senza dimenticare le reminiscenze (post-)grunge del prosieguo della carriera (Time Bomb, Nowhere Fast). Mancano le ballate, ridotte alla sola October’s Song, progressiva e dal sapore vagamente bonjoviano, ma, visto il breve minutaggio dell’album (neanche 42 minuti), non c’è veramente tempo di rendersene conto, come pure dell’occasionale passaggio meno riuscito che qui e lì l’album palesa. Un disco compatto e ben riuscito, al quale la produzione di Nick Raskulinecz (Foo Fighters, Ash, Stone Sour) conferisce una sostanza e una compattezza che è lecito pensare sarebbero mancate in assenza di un produttore. Chissà che sempre più musicisti si avvedano dell’importanza di tale figura, e possano quindi pubblicare dischi come questo, ossia conferme del loro ottimo stato di forma musicale; conferma che gli Skid Row hanno saputo dare e che, evidentemente, il pubblico ha compreso e apprezzato, se è vero che alla Feltrinelli di Galleria Vittorio Emanuele II il disco era esaurito il giorno stesso della pubblicazione.

Ibibio Sound Machine – Electricity

Elettronica ballabile con atmosfere afrofuturiste, incrementate dal cantato spesso in ibibio, una delle lingue nigeriane. Messa così sembra un’accozzaglia senza costrutto di idee, e invece il quarto album del settetto londinese centra pienamente il bersaglio offrendo disco militante (Protection From Evil) e tenerezze in punta di synth (Afo Ken Doko Mien), singoli spaccapista (17, 18, 19) e sinuoso afrobeat (Something We’ll Remember), house canonica (Wanna See Your Face Again) e spiritual robotici (Freedom). Eclettico e ben strutturato, “Electricity” promette e mantiene. Una delle sorprese dell’anno.

Panic! At The Disco – Viva Las Vengeance

In una copertina di rara insulsaggine si nasconde una golosità pop, proprio come in un imballaggio anonimo si può celare un regalo bramato. “Viva Las Vengeance” è un disco di citazioni del rock cosiddetto classico già dal titolo, ma questo gioco di rimandi serve ad incrementare la meravigliosa caratura melodica e la varietà dell’album: il ritornello della lenta ma non troppo Don’t Let The Light Go Out si rifà astutamente ai Foreigner più melensi, Local God è puro power pop filtrato dall’approccio nerdy di ascendenza Weezer, Star Spangled Banger omaggia apertamente i Thin Lizzy e il glam più innodico, God Killed Rock And Roll e Something About Maggie si inchinano ai Queen, Sugar Soaker evoca AC/DC e T. Rex. Messa così sembra un disco citazionista e passatista, ma la cifra personale di Brendon Urie, unico vero titolare della ragione sociale, emerge prepotente nella scrittura (si vedano i testi, punteggiati di arguzie) e nel cantato, conferendo coesione e smalto a dodici brani composti, arrangiati, suonati e prodotti impeccabilmente. È difficile dire se sia pop-rock o rock-pop, ma resta comunque una gioia per le orecchie. Resta, soprattutto.

Maule – Maule

Ennesimo prodotto di alto livello in ambito heavy metal proveniente dal Canada, il debutto dei Maule, quintetto di Vancouver con tre chitarre in formazione, allinea un metallo tradizionale, debitore dei nomi classici della scuola inglese e di quella locale (con qualche passaggio thrash, pescato comunque dalle versioni più moderne del genere; si ascolti Father Time) ma composto e suonato con intelligenza e gusto. In nove brani privi di cedimenti si segnalano la proposta vocale, melodica senza lesinare in aggressività, e soprattutto gli assoli di chitarra, di grande perizia tecnica senza sacrificare la melodia e l’ancillarità al brano, e si fanno apprezzare anche le frequenti e ben calibrate armonizzazioni chitarristiche e le occasionali accelerazioni sancite dalla doppia cassa della batteria. In un panorama spesso stantio, i Maule sono riusciti a trovare una loro voce ed esprimerla in maniera convincente, complice anche una produzione curata ma non patinata, che avrebbe potuto uccidere l’impatto sonoro immediato che questo genere richiede. È presto per dire cosa riserva loro il futuro, ma questo esordio pone i migliori auspici.

Chez Kane – Powerzone

Fresca di debutto con l’omonimo album uscito a marzo 2021, la cantante gallese Chez Kane, già in forza ai Kane’d, ripete l’esperimento solista con “Powerzone”, uscito a fine ottobre di quest’anno. Squadra che vince non si cambia, e dunque riecco Danny Rexon degli svedesi Crazy Lixx in veste di compositore e autore di tutte le parti strumentali, alle prese con un sound ancora più sfacciatamente indebitato con l’AOR più classico, quello del periodo aureo di metà anni Ottanta, come peraltro denunciato dalla (simpatica) copertina. E il risultato, pur nel suo evidente manierismo, non delude, grazie alla qualità di scrittura e all’entusiasmo degli esecutori, cosicché, tra una I Just Want You che omaggia al meglio gli Heart del periodo di massimo successo, quelli tra “Heart” e “Brigade”, una Rock You Up scanzonatamente leppardiana ancorché non pienamente riuscita, una sprintata Love Gone Wild filologicamente animata dal sassofono e che nondimeno cita nel ritornello Crazy Train di Ozzy Osbourne, una Children Of Tomorrow Gone che ipotizza i Dare con Bonnie Tyler alla voce e gli oltre otto minuti della conclusiva Guilty Of Love, titolo che richiama gli Whitesnake ma suoni da qualche parte tra “Too Hot To Sleep” e “Raised On Radio” e ottima chiusura a base di chitarra solista, il disco si regge saldamente sulle sue gambe, dando una ulteriore ragion d’essere alla carriera di Chez Kane. Forse il predecessore era più costante e avvantaggiato dall’effetto novità, ma preferire l’uno o l’altro album è una questione di gusti. Un disco indubbiamente piacevole e una nuova conferma per Frontiers.

D’Virgilio, Morse, Jennings – Troika

Questo disco formalizza la collaborazione tra alcuni dei musicisti più in vista del progressive contemporaneo, Nick D’Virgilio (Big Big Train, Spock’s Beard), Neal Morse e Ross Jennings (Haken, Novena) con undici brani intessuti di preziose melodie e di sofisticati intrecci vocali tra i tre protagonisti. Le atmosfere si rincorrono, spaziando, spesso all’interno dello stesso brano, tra l’etereo e il giocoso, l’acustico e l’elettrico, il romantico (Julia) e il perentorio (Second Hand Sons), e sempre con un occhio di riguardo alle canzoni e alle loro esigenze, senza inutili farciture strumentali. Poco meno di un’ora di musica e nessun cedimento. Commovente dalla prima all’ultima nota (soprattutto l’ultima; ascoltare What You Leave Behind per credere). Crosby, Stills & Nash hanno i loro degni eredi; forse.

Young Guv – GUV III

Settimo album in sei anni per Ben Cook, in arte Young Gov, quattro dei quali usciti a coppia e con titoli sequenziali, “I” e “II” nel 2019 e “III” e “IV” quest’anno. Complice, probabilmente, l’ispirazione più o meno forzata da confinamento antipandemico, e bisogna allora dire che tutto è bene quel che finisce bene, perché “III” trasuda del miglior power pop che si possa udire oggigiorno, undici brani che non lesinano in chitarre scampanellanti e armonie vocali, con la necessaria dose di malinconia celata dietro ritmi briosi e, soprattutto, melodie folgoranti. Che sia un jingle jangle d’eccezione come la Couldn’t Leave U If I Tried (mi sbilancio: un instant classic del genere) o una Only Wanna See U Tonight che avrebbe reso i Raspberries orgogliosi, una outtake di “The Masterplan” come Scam Likely o il pacato esercizio post-scarafaggesco April Of My Life, una ariosa It’s Only Dancin’ che potrebbe provenire dall’unico, immacolato LP dei Someloves oppure i Byrds su telaio R.E.M. di una trasognata quanto favolosa Good Time, “III” brilla dalla prima all’ultima nota, celeste e luminoso come i petali dell’occhio in copertina. Uno squarcio di cielo di un azzurro intenso, reso vivo da una luce solare calda e che riscalda corpi e anime; e, come nella migliore tradizione power pop, una promessa che il di poco successivo “IV” (uscito a giugno, laddove “III” era di marzo), più melanconico e britannico, non ha saputo mantenere integralmente. Peccato, ma non è un buon motivo per perdersi una gioia come “III”.

Blind Illusion – Wrath Of The Gods

In un anno avaro di thrash metal memorabile si segnala un rientro in scena inatteso, quello dei californiani Blind Illusion, prime movers della scena della Bay Area ma giunti al debutto solo nel 1988 (“The Sane Asylum”, un caposaldo del techno-thrash) e ricordati principalmente per avere annoverato in formazione Larry Lalonde (ex Possessed e futuro Primus) e Les Claypool (anch’egli futuro Primus), dopo essersi persi nei rivoli di numerosi cambi di formazione, che hanno impedito loro la necessaria continuità. La sigla rivive quindi ad opera del fondatore e leader Marc Biedermann, cantante e chitarrista, che ha riunito attorno a sé due veterani di grande caratura, il chitarrista Doug Piercy (ex Heathen) e il batterista Andy Galeon (ex Death Angel), e uno sconosciuto ma capace bassista, Tom Gears, per un nuovo capitolo discografico, uscito a ottobre a titolo “Wrath Of The Gods”. Album di thrash tecnico e tuttavia accessibile, forse perché basato prevalentemente su tempi medi e su una particolare cura nella composizione dei riff, che rende più interessante l’ascolto e più memorabili i brani, pure mediamente lunghi, senza pregiudicare l’impatto sonoro. Ottima l’apertura con Straight As The Crowbar Flies, che sembra estratta dal repertorio dei Megadeth più progressivi, ma anche le seguenti Slow Death, vicina a certi Overkill, e la melodica Protomolecule mantengono alto il livello, con i loro molteplici cambi di tempo, i riff efficaci e le parti soliste che aggiungono dettagli ai brani senza appesantirli. Da dimenticare, però, la conclusiva No Rest Till Budapest, uno scialbo esercizio di hard rock malriuscito e fuori posto, che avrebbe potuto essere utilmente espunto per contenere il minutaggio (che comunque non supera i sessanta minuti). Se la copertina non brilla, la produzione viceversa si segnala, definita ma non plasticosa e inondata di trigger come spesso accade nelle odierne uscite metal, per un risultato finale che dimostra pulizia e definizione sonora (fondamentali per una proposta musicale di questo tipo) senza sacrificare l’impatto. Una gradita sorpresa che ha prodotto un ascolto valido anche per i mesi a venire, perlomeno fino a quando perdurerà l’Ira degli Dei.

The Maharajas – Rock n’ Roll Graduates

È uscito il giorno di Natale, e non ne ho ancora ascoltato una sola nota. Perché l’ho ordinato sulla fiducia, e per ascoltarlo aspetto che arrivi il disco. Quindi è sulla fiducia che viene inserito in questa lista, soprattutto dopo aver visto e sentito questo. Dottori del buso del cool.

Monophonics – Sage Motel

Soul classicamente inteso, quello che promana dal quinto album dei californiani Monophonics, adagiato sul lato più psichedelico del genere e derivazione diretta di quel suono spazioso eppure emotivo costruito a cavallo tra i Sessanta e i primi Settanta da gente del calibro di Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Delfonics, Temptations, Isaac Hayes. “Sage Motel” dovrebbe narrare la storia di un motel californiano meta di sbandati e creativi, musicali e non, negli anni Sessanta e Settanta; luogo dell’anima più che del corpo, essendo il motel fittizio, ma comunque funzionale a confezionare, in una bella copertina di atmosfera surrealista-metafisica, dieci riuscitissimi brani di dondolante soul psichedelico, sospinto gentilmente dal falsetto emozionante di Kelly Finnigan, nonché punteggiato da armonie vocali (Sage Motel) o confidenziali ottoni (Crash & Burn) o glasse di archi (Never Stop Saying These Words). Il tutto mentre una sezione ritmica ora pigra ora compatta e variegate sfumature tastieristiche disegnano nuove traiettorie del gioco della seduzione dilatando gli spazi della coscienza, forti di una produzione impeccabile nella definizione e nella dinamica. C’è spazio per qualche episodio più ritmato, in odor di funk (Warpaint, Love You Better), ma il clima è prevalentemente rilassato e a tratti languidamente pensoso. 37 minuti e 20 (compresi intro e outro) e nemmeno uno di troppo: la vacanza migliore, a tratti indimenticabile (Broken Boundaries e il suo ritornello), è quella trascorsa al Sage Motel.

L’altro 2022

Candy – Whatever Happened To Fun

Un titolo curioso per un disco inciso nella Los Angeles di metà anni Ottanta, eppure la malinconia fa capolino da tutte le parti, nei testi da teenager romantico, nostalgico e un po’ sfigato di Kyle Vincent, nei coretti dei suoi tre sodali e nelle sferzate chitarristiche di Gilby Clarke, per un disco che è uno dei capolavori ultimi e meglio celati del power pop, in diretta dalla città che lo aveva elevato a genere con dignità autonoma ma uscito troppo tardi (nel 1986, ad eoni musicali dallo zenith commerciale delle skinny tie bands) per lasciare un qualsiasi segno, e infatti fu esordio e congedo dei Candy. Ben altra fortuna attendeva Vincent e (soprattutto) Clarke, ma questo album è un monumento al pop chitarristico che sogna in grande e nondimeno è condannato all’anonimato; volete la riprova? Cercatelo in streaming.

Jon Batiste, Cory Wong – Meditations

Pubblicato solo in formato streamingzito nel 2020, questo album condiviso tra due dei più promettenti musicisti contemporanei è probabilmente stato per entrambi un divertissement da lockdown, ma il risultato è di grande livello: ambient che avvolge l’anima e le orecchie, forte delle stratificazioni tra tastiere e chitarra, a creare un clima elegiaco e avvolgente, come la best practice del genere richiede. Impossibile, ovviamente, citare singoli brani, ché la fruizione dev’essere integrale e ininterrotta, ma i passaggi emozionanti sono molti. Ottimo a qualsiasi volume, l’ascolto di “Meditations” è un regalo che si fa a sé stessi.

Angelo Badalamenti – Soundtrack From Twin Peaks

La morte di Angelo Badalamenti ha focalizzato l’attenzione (in particolare la mia) sul suo corpo d’opera, vasto e lodato ma forse lasciato in secondo piano dallo scorrere del tempo. Doveroso, quindi, il recupero del suo lavoro più celebre e forse più significativo, la colonna sonora di “Twin Peaks”, serie televisiva scritta e diretta da David Lynch che all’alba degli anni Novanta cambiò il modo in cui questo format è pensato e realizzato, pur mantenendo una propria personale cifra stilistica. Un risultato dirompente che, però, il regista non avrebbe potuto ottenere senza l’apporto del commento musicale predisposto dal grande compositore per il cinema, dai suoni eterei e vaporosi eppure ben saldo sul piano ritmico e melodico, avanguardistico ma al tempo stesso ancorato alla tradizione, soprattutto jazzistica, e capace del raro miracolo di completare e arricchire le immagini a cui corredo è posto nel contempo vivendo di vita musicale propria e mantenendosi interessante anche per ascolti autonomi. Si alternano così melodie minimaliste quanto indimenticabili (Twin Peaks Theme, Laura Palmer Theme), andamenti felpati e morbosamente swinganti da noir urbano (Audrey’s Dance, Freshly Squeezed, The Bookhouse Boys) e dream pop reso tale dai carezzevoli vocalizzi di Julee Cruise (The Nightingale, Into The Night e soprattutto Falling, tutte estratte dal suo album “Floating Into The Night” (1989) e con testi di David Lynch su spartiti di Badalamenti). Un raro esempio di musica per lo schermo con una statura almeno pari all’opera di cui è parte, la colonna sonora di Twin Peaks è innovativa, influente e senza tempo. Un classico del genere da (ri)scoprire assolutamente.

Diventi, inventi. Pillole musicali dell’anno incorso.

Non l’anno migliore della storia umana, bisogna dire. Nemmeno musicalmente, per quanto qui interessa. Naturalmente il giudizio sconta la situazione discografica attuale, in cui le uscite si susseguono in numero soverchiante e al pur benintenzionato ascoltatore-recensore, ancorché con poco tempo a disposizione, non resta che affidarsi all’intuito, ai suggerimenti, a letture e al caso, con ovvie ricadute in termini di rispondenza del giudizio più al gusto e alla percezione del recensore che all’effettivo contenuto del disco. Ma questo fa parte del rischio di leggere una recensione scritta da altri. In ogni caso, da queste parti il 2020 è risultato ancor più avaro di uscite memorabili che l’anno pregresso, al punto che risulta difficile persino compilare la canonica lista di dieci, e ciò che resta di più memorabile in assoluto sono, ahimè, i lutti eccellenti tra gli operatori musicali: Ennio Morricone, Little Richard, Eddie Van Halen, Neal Peart, Ken Hensley, Keith Olsen, Martin Birch, Charlie Daniels, Lee Konitz, Sean Malone, Justin Townes Earle, Leslie West e tutti gli altri. Sarebbe bello lasciarci tutto alle spalle, ma probabilmente questa volta sarà più difficile. Proviamoci, quindi. Proviamo a lasciarci tutto alle spalle, tranne qualche disco da tenerci stretto.
Auguri.
P.S.: come sempre, la numerazione non implica giudizi di valore, ma costituisce una mera elencazione.

1. Green Day – Father Of All Motherfuckers
Qui. Con il progredire dell’anno il clima sereno che qui si respira, forse perché mancava la percezione della tragedia imminente, è diventato quasi assurdo, e però sempre piacevole e utile. Mi tocca ribadire la considerazione formulata al tempo: non avrei mai pensato di dover spendere ancora soldi per i Green Day. Bravi.

2. Night Flight Orchestra – Aeromantic
Qui. Rimane confermato il giudizio iniziale: gradevole ma inferiore ai due dischi che lo hanno preceduto; sarà la matrice maggiormente pop o la stanchezza che comincia ad insinuarsi nella composizione secondo coordinate intrinsecamente limitate. In ogni caso, per gli amanti di queste sonorità è una chicca.

3. X – Alphabetland
Qui. My my, hey hey, rock ‘n’ roll is here to stay.

4. Devon Williams – A Tear In The Fabric
Qui. Non mi pare di aver letto peana di questo disco e del pensoso pop chitarristico e cantautorale che vi alligna. E va bene così; etiamsi nemo, ego sic. Si parla di uno strappo nel tessuto, d’altronde.

5. Evildead – United $tate$ of Anarchy
Qui. Non è un capolavoro e nemmeno aspira ad esserlo, però non escono più tanti dischi così, lucide e impietose istantanee spazio-temporali con i suoni che sono nubi di ieri sul nostro domani odierno. Meno male, verrebbe da dire. O forse no.

6. Kylie Minogue – Disco
Partiamo da una constatazione: per essere una cantante professionista, l’australiana non ha una gran voce, in termini sia tecnici che espressivi. Però ha intuito, e ha capito che adesso è il momento di divertere la mente del pubblico dalla situazione attuale. E cosa c’è di più divertente delle sonorità che furono dello Studio 54, disco e R&B spruzzato di funk, rilette secondo lo stile già collaudato dai Daft Punk con “Random Access Memories”? Il risultato è un disco sorprendentemente godibile, cantabile come il migliore pop, ballabile come la migliore disco e colmo di idee melodiche variegate e altamente orecchiabili. E altrettanto sorprendentemente regge a plurimi ascolti. Sorprendente, appunto; soprattutto se prima di quest’anno sciagurato non avevate mai ascoltato un disco della popstar australe. Ora potete.

7. Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia
Qui. Musica radicata, solida e inscalfibile, eppure carica di emotività ed empatia, come il suo autore. A cui, qualcosa mi dice, il futuro prossimo non cesserà di fornire spunti.

8. Mr. Bungle – The Raging Wrath Of The Easter Bunny Demo
Non è tuttora chiaro per quale ragione Mike Patton abbia deciso di ripescare dall’archivio il primo demo dei Mr. Bungle, inciso nel 1986, e riproporne i pezzi di grezzo thrash-core con la formazione originale integrata da alcuni amici musicisti, che rispondono al nome di Dave Lombardo e Scott Ian. Certo è che ne è uscito un manicaretto di thrash metal, che si lascia alle spalle gli sperimentalismi che hanno sempre caratterizzato questa band per gettarsi a capofitto in un vortice di tupa tupa e riff affilati, sovrastati dalla voce proteiforme di Patton, per un risultato non dissimile da “Speak English Or Die” dei S.O.D., non fosse che per i titoli dei brani (Hypocrites/Habla Espanol O Muere), o dai Corrosion of Conformity degli esordi, omaggiati con l’arrembante rilettura di Loss For Words, che rivaleggia con l’originale. La dimostrazione definitiva che il thrash metal, se fatto bene, non invecchia.

9. Once & Future Band – Deleted Scenes
Il secondo album di questo trio di San Francisco tesse le trame di un rock d’altri tempi, o forse proprio di questi, epoca di riciclo e recupero. Infatti, tengono qui banco le sonorità del periodo compreso tra la fine dei Sessanta e i primi anni Settanta, le armonie (vocali e non) di scuola liverpool-californiana e la stratificazione progressive, il pop evoluto degli Steely Dan, un tocco di psichedelia e un pizzico di teatralità che si potrebbe ricondurre ai primissimi Queen, per un risultato eccellente in cui i nove brani (dei quali solo due superano i cinque minuti, e uno per soli tre secondi) sono composti ed eseguiti per farsi ascoltare, senza indulgere in contorsioni strumentali o soluzioni artificiosamente inusitate. Godibile, intelligente e ottimamente costruito, questo disco è permeato dal senso della misura e dalla comprensione degli elementi decisivi nel confezionare un’opera di qualità (non da ultimo i suoni, che restituiscono un’atmosfera schiettamente naturale agli strumenti). Rock progressivo in senso ampio, insomma; progressista, persino.

10. Dining Rooms – Art Is A Cat
Un affascinante mélange di dilatato trip hop, morbidi tocchi funk, languide voci femminili, soffusa tromba jazz, arpeggi acustici, atmosfere da colonna sonora anni ’60/’70, dettagli elettronici e altro ancora, per un risultato di grandissima suggestione, che sa essere in uno romantico e (a tratti) malinconico. Una volta di più il duo Ghittoni-Malfatti non delude, allargando ancora i già ampi orizzonti musicali frequentati e arricchendo il progetto Dining Rooms di un altro capitolo significativo e piacevole. Sarebbe bene ricordarsi, ogni tanto, che in Italia ci sono anche musicisti di questo livello.

Altri dischi

Harry Beckett – Joy Unlimited
Ad agosto, nel disinteresse generale, la Cadillac Records ha ristampato il disco più celebre del trombettista Harry Beckett, pubblicato originariamente nel 1973, mai ristampato e da allora praticamente sparito dal mercato. Incredibilmente, perché si tratta di una delle migliori incisioni mai realizzate nell’ambito del cosiddetto jazz elettrico: infatti, le linee suonate da Beckett si inseriscono in un contesto modale senza mai perdere di vista la melodia e dimenticare la solarità caraibica che ha accompagnato il trombettista per tutta la carriera (si ascolti il tema di Glowing), mentre il pianoforte elettrico tesse trame armonicamente sofisticate su cui la chitarra può guizzare su registri ora rock-blues ora latineggianti, con la sezione ritmica a sospingere un funk sinuoso e poliritmico di ascendenza afrocaraibica. E il risultato, al crocevia tra il jazz-rock, il funk e i primi Santana, è meraviglioso. Un disco imperdibile.

Little Richard – Southern Child
Negli anni ’70 Little Richard aveva tutte le carte in regola per beneficiare della risorgenza dei suoni rock n’ roll e dell’ondata di revival degli anni ’50 allora in corso. Invece, scelse di abbracciare due lati misconosciuti della sua formazione musicale, il country e il blues: nel 1972, un anno dopo “The Second Coming”, registrò undici pezzi in quegli stili, con un orecchio alla musica nera contemporanea, presentando quindi alla Reprise, con cui all’epoca aveva un contratto discografico, le incisioni per un nuovo disco, corredate di titolo, “Southern Child”, e artwork. Per motivi mai realmente chiariti, l’etichetta accantonò il master, che rimase così a prendere polvere sino al 2005, quando i brani rientrarono in una raccolta, e infine a quest’anno, in cui è stato infine pubblicato nella forma e nelle intenzioni di mister Penniman, che non ha fatto in tempo a vedere la sua creatura venire alla luce con trentotto anni di ritardo. Gran peccato, perché, tra funk sensuale (California (I’m Comin’), Burning Up With Love), country verace (Ain’t No Tellin’, Over Yonder) e imbastardito con il rock (If I Pick Her Too Hard), blues campagnolo (la title-track, I Git A Little Lonely) e umori southern soul (In The Name), questo disco è un affresco di sorprendente qualità, nonché una finestra sul talento poliedrico di un artista che è facile liquidare sbrigativamente come one-trick pony. Un degno epitaffio per uno dei più grandi musicisti pop del Novecento.

L’altro 2020

Teaze – One Night Stands
Avevano tutte le carte in regola per accedere al grande successo, i canadesi Teaze: bella presenza, perizia strumentale, talento compositivo, capacità di stare sul palco. E mai questa sensazione è stata più forte che nel 1978, quando, dopo due album che ne avevano stabilmente aumentato le quotazioni sui mercati internazionali, il quartetto aveva ottenuto un contratto con la potente Capitol anziché con la limitata Aquarius. “One Night Stands”, l’album che ne uscì, pubblicato l’anno seguente, soddisfaceva tutte le aspettative riposte nel gruppo, ma, schiacciato tra la coda dell’era della disco e l’alba della new wave, senza peraltro riuscire ad agganciare le sonorità del rock radiofonico del periodo, fu un fallimento commerciale, che sancì la fine delle speranze di gloria dei Teaze, che si sciolsero l’anno seguente, lasciandosi alle spalle quattro album, tra i quali spicca questa gemma di hard rock dei tardi anni Settanta, in cui convivono spinte verso sonorità più dure e furbe strizzate d’occhio alle esigenze radiofoniche del periodo: Touch The Wind sono gli Iron Maiden ante litteram, Loose Change indica la via a What’s Up? delle 4 Non Blondes, mentre Young And Reckless potrebbero essere gli Aerosmith che maneggiano la disco e Red Hot Ready sembra uscita da un album dei Rose Tattoo. Il tutto corredato da accenni di sintetizzatori, chitarre roboanti che spesso si intrecciano in linee melodiche armonizzate e ritmi a tratti fratturati. Connotato da grande varietà di stili pur senza perdere in coerenza e qualità del songwriting e rilegato da una produzione impeccabile, “One Night Stands” è un recupero meritorio, nonché un’altra dimostrazione che il Canada è il naturale trait d’union tra Stati Uniti e Inghilterra, in questo caso tra hard rock radiofonico e quella che sarebbe diventata la NWOBHM. Tra le varie stampe disponibili, è meglio evitare quella americana, la cui scaletta inserisce brani dai dischi precedenti (Boys Night Out dal debutto omonimo e Stay Here da “On The Loose”) rimpiazzando Loose Change, uno dei brani migliori; scelta, quest’ultima, curiosamente condivisa anche dalla recente ristampa in CD della Rock Candy.

Wall Of Silence – Shock To The System
I canadesi Works non ebbero fortuna con il loro unico album di AOR, “From Out Of Nowhere”, pubblicato nel 1989. Mutati tre componenti del gruppo su cinque, decisero di cambiare anche nome, in Wall Of Silence, scrivendo nuove canzoni e trovando un accordo discografico con la A&M. Ne uscì questo “Shock To The System”, unico parto della formazione, datato 1992 e quindi condannato in partenza, nonostante un AOR tosto e curatissimo, di qualità superiore, non da ultimo per la produzione e il contributo compositivo e strumentale di quel gran genio di Mike Slamer. Chitarre distorte ma non invadenti e sempre arrangiate con varietà e cognizione di causa, panneggi di tastiere ad aggiungere sfumature, suoni scintillanti e dinamica impeccabile ci sono e si sentono, ma ciò che fa la differenza sono la qualità di scrittura e le melodie sempre vincenti, in contesti duri (il sofisticato esercizio leppardiano di Addicted, probabile singolo mancato) o languidi (It’s Only Love, power ballad memorabile come poche altre e ancor più sorprendente perché autografa). Dieci brani che lambiscono i territori di Giant, Signal, Unruly Child e Harem Scarem pur mantenendo una propria identità, a costituire un’altra hidden gem in ambito AOR, come confermato dal fatto che l’album non è mai stato ristampato e oggi passa di mano a prezzi rilevanti.

Bullet/Alan Tew – The Hanged Man OST
“The Hanged Man” era una serie di genere poliziesco ambientata nello Yorkshire e trasmessa dalla televisione britannica nel 1975. Alan Tew è un compositore inglese di musica per il cinema e la televisione, sia mirata che in forma di library music, e fu lui a ricevere l’incarico di scrivere il commento musicale alla serie citata. Le partiture furono quindi girate a un gruppo di turnisti delle etichette specializzate KPM e Themes International, il bassista Les Hurdle, il batterista Barry Morgan, il chitarrista Alan Parker, il percussionista Frank Ricotti e il tastierista Alan Hawkshaw. Costoro incisero a Monaco le musiche scritte da Tew e, quando fu il momento di pubblicarle, si battezzarono, per la prima e unica volta, Bullet. Ne uscì uno sfavillante LP di funk polizi(ott)esco, dal groove irresistibile e dalle atmosfere avvincenti come e più delle immagini, capace di superare in qualità lo sceneggiato che era stato chiamato a corredare e vivendo di luce propria come una delle migliori uscite in assoluto nel genere, a suo agio indistintamente con vibrafoni e sintetizzatori, trombe e pianoforti elettrici, chitarre “grattugiate” e ottoni pungenti. In breve: un capolavoro. Del quale l’ascoltatore saggio vorrà preferire la ristampa in CD su Vocalion, che alle diciotto tracce originali aggiunge, oltre a un booklet ricco di dettagli e fotografie, ventidue brani incisi nelle medesime sessioni, già usciti sui due volumi della raccolta “Drama Cues” di Alan Tew, e sette temi in stile di Alan Parker, James Clarke e Alan Hawkshaw.

Unleash The Archers – Apex
In ambito hard ‘n’ heavy, il Canada è particolarmente famoso per due stili: un AOR cristallino e nitido e un heavy metal classico particolarmente epico e arrembante. Ad ulteriore (dopo Cauldron, Striker, Skull Fist e molti altri) conferma che quest’ultimo stile è uno degli export di punta del vessillo con la foglia d’acero si pongono gli Unleash The Archers, che sono in giro da più di dieci anni e hanno recentemente pubblicato il loro quinto album “Abyss”. Ma non è a questo che ci si deve rivolgere per trovare un’uscita sorprendente in un panorama stilistico dalle coordinate limitate e molto affollato, bensì al predecessore “Apex”, del 2017. Qui le varie anime del metal che guarda alle classiche sonorità heavy senza però volersi arroccare in filologiche quanto stantie riproposizioni si saldano al meglio, complici le capacità compositive del gruppo, l’enorme abilità strumentale dei musicisti (soprattutto i due chitarristi e il batterista) e la varietà nel dosaggio degli stilemi. In questo disco il tipico suono power metal convive con ritmiche fratturate di doppia cassa e inserti di matrice groove, le chitarre armonizzate di ascendenza maideniana non stonano a fianco di una voce occasionalmente in growl, riff stradaioli ripresi dalla NWOBHM si saldano ad epiche andature cadenzate e a falsetti sia maschili che femminili. Ottimamente prodotto (nonostante le recenti tendenze “polimeriche” della Napalm), “Apex” tiene magnificamente insieme tutto ciò che di buono ha prodotto l’heavy metal negli ultimi anni, suscitando tuttavia il timore che i suoi autori non siano in grado di superarlo in qualità, rendendo così il titolo un inequivoco nomen omen. E se anche fosse, poco male, perché resterebbe comunque “Apex” a confermare che si può ancora dire qualcosa in ambito heavy metal, e dirlo bene.

Damnatio memoriae

Metallica – S&M 2
Non ho idea di chi, maggiorenne, e non solo di età, possa averlo ascoltato.

La città è urbs, struttura fisica, è civitas, società, ed è polis, governo – Gerardo Iacoucci, Mario Vinciguerra – Urbanistica

Negli anni d’oro del cinema italiano, i Sessanta e i Settanta, era prassi degli studi e dei produttori commissionare ai compositori brani musicali da usare a commento delle pellicole. Questi brani, spesso anonimi, dovevano servire a scene ricorrenti nei prodotti cinematografici di genere (scena nel nightclub, scena romantica, inseguimento, duello, ecc.), e dunque venivano composti in serie, a formare vere e proprie librerie sonore, da cui i registi potevano attingere per le loro esigenze filmiche. Vista la natura seriale dell’operazione, spesso questi componimenti restavano anonimi, senza che i reali meriti di ciascuno potessero essere resi noti, e tuttavia queste condizioni consentirono ai compositori e ai musicisti una libertà creativa inimmaginabile in altri contesti di edizione musicale massiccia: basti pensare che i primi timidi abbozzi, all’inizio dei Settanta, dell’uso del sintetizzatore in Italia avvennero proprio in questo settore; per non dire dell’assorbimento delle più recenti tendenze d’oltreoceano (come il funk, che si stava impossessando delle colonne sonore dei film blaxploitation), recepite appieno e declinate secondo un gusto melodico in linea con la tradizione nazionale, o degli esperimenti con strutture armoniche ostiche, vicine a certe elaborazioni del jazz più avanguardistico e allora inaudite in campo cinematografico. Insomma, la library music, come venne battezzata da coloro che nei decenni successivi, in Italia e all’estero, si dedicarono alla sua riscoperta e divulgazione, aveva molto da offrire in termini di creatività, godibilità e potenziale immaginifico; caratteristiche che mantiene tuttora, e per la definitiva consacrazione le manca solo una versione musicale di Quentin Tarantino.

Tra le varie uscite, che ormai si susseguono ininterrotte ad opera di etichette specializzate, dedite al recupero dei master tape originali e alla loro rimasterizzazione e pubblicazione (spesso per la prima volta in assoluto, a decenni di distanza dall’incisione), va segnalata “Urbanistica”, opera del compositore romano Gerardo Iacoucci, con l’aiuto di Mario Vinciguerra (qui sotto lo pseudonimo M. Fusciati), uscito originariamente nel 1971 per la Octopus Records, etichetta specializzata nella library music, e riportato sul mercato con una ineccepibile ristampa su vinile (180g, busta antistatica e confezione in cartone spesso) dalla romana Four Flies Records. I brani di “Urbanistica” erano stati pensati come commento musicale di un documentario omonimo sullo sviluppo incontrollato delle città italiane, e infatti si trattava di “stacchetti”, ognuno denominato in base al luogo urbano oggetto di descrizione e di durata raramente superiore ai due minuti, e si può dire che per essi l’obiettivo del compositore di realizzare brani dall’alto potenziale immaginifico-descrittivo sia pienamente raggiunto: la mistura di funk sornione, aperture armoniche di jazz elettrico e soluzioni più classicamente cinematografiche a base di strumenti acustici disegna un paesaggio urbano ben leggibile nei suoi elementi principali, punteggiandolo nel contempo di dettagli visivi (per l’occhio della mente, beninteso) nitidi e caratterizzanti, realizzando la funzione forse più alta della musica, ossia il trasporto mentale. Ne esce un disco godibilissimo, in continuo movimento come la moderna metropoli e però reso disincantato dall’osservazione dei guasti prodotti dall’impetuoso sviluppo, economico e urbano, dei decenni postbellici sino ad allora. Perché i problemi che la città in espansione poneva già al tempo (inquinamento, sovraffollamento, scarsa qualità edilizia, mancanza di pianificazione territoriale, mancata previsione di spazi pubblici e, più in generale, di elementi identificativi e identitari) sono per molti aspetti gli stessi che odiernamente ci affliggono, a volte con significativi miglioramenti, altre con stasi o persino peggioramenti. Un brano come Speculazione Edilizia, che si direbbe uscito dalla penna di Henry Mancini, è emblematico sul punto sin dal titolo.

Insomma, un piccolo classico italiano dimenticato, che dell’Italia espone bene virtù, la creatività, e vizi, l’autolesionismo, e ci ricorda cos’è la città: luogo magnifico e terribile, fonte di identità e di alienazione, spazio di edifici e individui. Urbs, civitas e polis contemporaneamente, come ricorda la definizione di Edoardo Salzano che intitola l’articolo. Dedicato a lui, nel giorno del trasloco in un’altra area del PRG, la fascia di rispetto cimiteriale. Chissà se ha mai conosciuto quest’opera musicale, peraltro di un autore di sensibilità a lui vicina (Iacoucci, sopraffino pianista jazz, fu tra i fondatori, negli anni Settanta, della Scuola Popolare di Musica di Testaccio); ormai è troppo tardi per scoprirlo, però non per noi che, ascoltatori e cittadini, siamo ancora qui.

Tutta nostra la città. E la sua scienza.

‘cause I’m: “Hey Teen!”. Minimo annuario discopatico.

Esiste solo una cosa più da sfigati che comprare “Dookie” in CD nel 2018 e ben dopo aver compiuto i trent’anni: macchiarne il libretto con la zuppa di verdure. Surgelata.

È con questa consapevolezza che mi accingo a riferire pillole musicali dell’anno ormai trascorso, che ha visto meno lutti di quello andato (anche se Vinnie Paul…) ma anche meno dischi memorabili. D’altronde il ’18 è l’anno della vittoria, ed è fisiologico rilassarsi un po’. Dite di no, che non ci rilassiamo proprio per niente? Oh beh, peggio per voi: io ho “Dookie”. Sì, beh, quasi.

Auguri.

Dischi notabili

1. JUDAS PRIEST – FIREPOWER
Ne ho scritto a caldo qui e confermo tutto. Dal vivo a Firenze, poi, i pezzi nuovi non hanno per nulla sfigurato a fianco dei classici, e questo vorrà pur dire qualcosa. Col passare del tempo e degli ascolti il valore dell’album si è normalizzato, ma resta comunque la migliore uscita dei Priest dai tempi di “Painkiller”, confermando che proprio quando è data per spacciata la formazione inglese dà il meglio di sé. Il futuro è ignoto, ma un simile congedo discografico sarebbe un trionfo.

2. VISIGOTH – CONQUEROR’S OATH
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Del quintetto di Salt Lake City e del suo secondo LP non si dirà mai abbastanza bene: heavy metal epico in senso tradizionale, possente ma non troppo veloce, zeppo di cori pensati per infondere coraggio sul campo di battaglia e di fraseggi di chitarra armonizzati che allargano lo spazio come un coro in una cattedrale gotica, prodotto al meglio ma con in mente la tradizione (“si sente che anche il produttore era in cotta di maglia!“, l’immortale commento di un amico), non troppo lungo e sempre memorabile (anzi, quasi sempre, Salt City un boogie trascinante ma stilisticamente e tematicamente fuori luogo). Non a caso griffato Metal Blade. Se non il disco dell’anno, senz’altro nel Valhalla con i migliori.

3. LUCIFER – LUCIFER II
Qui

4. THE 16 EYES – LOOK
Qui

5. THE MORLOCKS – BRING ON THE MESMERIC CONDITION
Qui

6. THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA – SOMETIMES THE WORLD AIN’T ENOUGH
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Neanche dodici mesi dopo l’ultimo album (di questi tempi, converrete, fa notizia, se uno non si chiama Ty Segall), i cinque svedesi tornano con il quarto LP in sei anni, confermando l’ottimo stato di salute di cui godono. La struttura è la solita: apertura con un brano tirato di hard rock simil-Seventies; prosieguo con addolcimenti tastieristico-melodici; singolo effettivo o potenziale in terza-quinta posizione; dosaggi variabili degli ingredienti predetti fino al congedo, preferenzialmente affidato a una stesura articolata ed evocativa. Però funziona anche stavolta; rischiando qualcosa nell’aggiungere ulteriore patina medio-ottantiana a una formula collaudata ma riscuotendo appieno i profitti del rischio, e basti a conferma il solo lato A dei quattro: This Time straccia i Rainbow post-Dio al loro stesso gioco, Turn To Miami si regge sui chiaroscuri di indolenza sensuale e pericolo tropicale evocati già dal titolo, Paralyzed riscrive in melius gli anni Ottanta dei Doobie Brothers e la title-track è purissimo e scintillante AOR come non se n’è sentito quest’anno. Io continuo a preferire il precedente “Amber Galatic”, ma qui siamo al vertice del catalogo del gruppo e del genere; ammesso che sia uno solo. Il catalogo.

7. THE CREATION FACTORY – THE CREATION FACTORY
CREATIONFACTORY
Quest’anno le sonorità di area Sixties non hanno dato frutti migliori di questo quintetto californiano alla prima prova sulla lunga distanza, che, complice una ragione sociale inequivocabile, un’immagine filologicamente ineccepibile e una produzione manieristicamente perfetta, mette a segno una delle uscite di area più godibili del giro intorno al sole. Un Bignami, potremmo chiamarlo; perché c’è dentro molto di ciò che conta: i Beach Boys in You Be The Judge, i Rolling Stones in Girl You’re Out Of Time, i Kinks in I Don’t Know What To Do e Why Can’t You Make Up Your Mind, i Them in I Want To Be With You, i Creation in Without You, i Byrds in Spring Ain’t Gonna Let You Stay e i 13th Floor Elevator in Hallucination Generation. Il tutto filtrato attraverso la sensibilità della quarta generazione di revivalisti dei Sixties, che ha assimilato ciò che è accaduto medio tempore ma resta fermamente intenzionata a riportare in vita al meglio possibile l’aura quantomeno sonora del decennio principe del rock. Revival o meno, il risultato è eccellente per scrittura, esecuzione e resa. Non resta che ascoltare e sperare silenziosamente che il debutto non diventi anche la tomba dei Creation Factory.

8. GHOST – PREQUELLE
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Un perfetto esempio di somma paraculaggine musicale, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost. Lima le asperità del precedente e vincente “Meliora” con una carta di grana fina che chiama in causa gli anni Ottanta di Def Leppard e Savatage, ma anche ABBA e Pet Shop Boys, per imbastire un vero e proprio blockbuster, pensato per essere un “Trash” o un “Hey Stoopid!” del terzo millennio, e riuscendoci perfettamente. Il plauso è stato ampio ma non generale, e ognuna delle opinioni non è implausibile. Certo è che la prestazione dei musicisti e del cantante è ancora una volta superlativa. Certo è che la scrittura è stata raffinata ai massimi livelli. Certo è che l’immagine, ancora una volta reinventata dal diabolus ex machina Tobias Forge, funziona e affascina come prima più di prima. Certo è che un singolo incisivo come Dance Macabre il rock non lo sentiva da tempo. Certo è che i Ghost sono i principali candidati a fare da headliner ai festival estivi dei prossimi anni, quando i veterani via via si ritireranno. Certo è che “Prequelle” ce lo si gode. Last but not least per merito della produzione di Tom Dalgety, capace di tenere insieme arrangiamenti articolati ed esigenze commerciali odierne, e del missaggio di un veterano del calibro di Andy Wallace, che dosa sapientemente la densità dei singoli strati sonori, adagiandoli l’uno sull’altro fino a fonderli in un unicum pieno ed avvolgente. Un capolavoro di professionismo, ecco cos’è “Prequelle” dei Ghost.

9. TH’ LOSIN STREAKS – THIS BAND WILL SELF-DESTRUCT IN T-MINUS
th'losin streak - this band will self destruct in t minus
Dopo quattordici anni da un debutto, “Sounds Of Violence”, che aveva fatto sobbalzare non pochi adepti del più selvatico sound garagistico, i quattro di Sacramento sono infine tornati insieme nel 2010 e quest’anno, dopo un acclamato tour europeo, hanno messo insieme un secondo album, anch’esso edito per la solita Slovenly Records e anch’esso selvaggio e urgente come ci si poteva aspettare dalle Scie Perdenti. Ma “This Band…” non è un calco del suo predecessore, perché inietta nella formula di sgangherato rock ‘n’ roll del gruppo una vena distintamente danzereccia e un senso della melodia di matrice mod che, se a tratti smorzano il flusso di elettricità, nondimeno conferiscono all’album una sua identità in un panorama anch’esso ormai fattosi affollato. Lo si può definire freakbeat, merce non particolarmente frequente in terra americana, e se uno come Tim Warren si prodiga a definirlo il migliore inciso quest’anno ci si può accodare senza troppe remore. Ciò che conta, dopotutto, è che la scrittura si mantenga di livello per tutte le tredici tracce, e questo disco, forte dell’adrenalina fuzzosa di (This Man Will Self-Destruct In) T-Minus, dell’esuberanza mod di You Can’t Keep A Good Man Down, dei richiami ai Creation di Order Of The Day e di quelli ai Kinks di  Falling Rain, lo fa. Non perfetto ma potentissimo e sempre coinvolgente, il secondo album dei Th’ Losin Streaks svetta per la splendida copertina, senza dubbio la migliore dell’anno. Avercene, di band che si autodistruggeranno così bene.

10. THE MARCUS KING BAND – CAROLINA DREAMS
marcus king band - carolina confessionsTerzo LP e terzo centro per la formazione del chitarrista e cantante del South Carolina, che a ventidue anni dimostra un’abilità di scrittura e una padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi a dir poco sbalorditive. Ancora una volta tiene banco il Sud, principale serbatoio musicale americano e quindi inesauribile fonte di ispirazione per chi voglia mettersi dietro a un microfono con una chitarra in braccio. E the South does it again su “Carolina Confessions”, titolo che cita i sogni della Marshall Tucker Band (che però muoveva dal North Carolina) e scaletta parimenti da sogno con la partenza inarrivabile di Where I’m Headed, le acustiche degli Allman post-Fillmore che convivono sorridenti con i fiati di Otis Redding, e il prosieguo affidato al dramma di Goodbye Carolina, dove il country di Alan Jackson (Midnight In Montgomery) è trafitto al cuore da una slide carica di pathos come quella di Warren Haynes. E da qui in poi, tra il soul ancheggiante di Homesick, l’inchino ad Ike e Tina di How Long, il sofferto lirismo blues di Confessions e lo sterrato imboccato per fuggire da Memphis sulle note di Welcome ‘Round Here, niente è meno che meraviglioso. Un atto d’amore verso il southern rock che nulla ha di nostalgico o didascalico e molto, anzi tutto, di sincero e sentito. Probabilmente il disco dell’anno, e in ogni caso una plausibile ragione per ritenere migliore soffrire e trascorrere sotto un cielo blu a cinquanta stelle anziché sotto uno rosso a cinque.

Altre pillole di 2018
Immortal – All Shall Fall
: manca Abbath ma non conta nulla, perché è tornato Demonaz e i suoi riff thrasheggianti esaltano come non hanno potuto fare in questi years of silent sorrow. Non ci si crede che sia così consistente, eppure lo è; come il male, quello vero. Sento solo freddo, tanto freddo, fuori e dentro me.

Cranston – II: le parti strumentali di chitarra e tastiera sono in mano a Paul Sabu, uno che sa quello che fa. La voce, appartenente a tale Phil Vincent, sfoggia credibilmente un timbro ruvido e bluesy simile a quello che David Coverdale ha ormai perduto. Nel mezzo un valido esercizio di hard rock melodico, che bascula in zona hard blues ma non per questo disdegna l’AOR più virile. Uscita sottotono ma seconda a nessuno dei monicker più blasonati del genere.

Monstrosity – The Rise To Power
Una gradita sorpresa. Non che ci siano dubbi se ascoltare questo o “Millennium”, ma fa piacere saperli ancora vivi e ancora in forma, capaci di declinare il classico suono brutal death della Florida senza cadere negli opposti tranelli del revivalismo e dell’ultratecnicismo iperprodotto. Solo la morte resta uguale a se stessa, dopotutto. La morte, appunto.

Blackberry Smoke – Find A Light: I soliti grandiosi georgiani, leggermente più tirati a lucido di prima ma sempre a fuoco nella scrittura e nell’esecuzione. È legittimo preferire ciò che è venuto prima, ma i Blackberry Smoke restano il migliore gruppo southern rock al mondo (o magari il secondo, dopo la Marcus King Band).

L’altro 2018
The Feelies – Crazy Rhythms

Il primo vagito del college rock. Praticamente i Television risuonati dai R.E.M. con Maureen Tucker alla batteria, mentre i Weezer sbavano tra il pubblico. Forse il più sconosciuto classico del rock. Chissà perché, poi.

Greg Guidry – Over The Line
Chiamiamolo yacht rock ché va (ancora) di moda. Ma scritto bene, arrangiato meglio, eseguito a livelli stratosferici e prodotto come non si fa più. Il fatto che non sia reperibile in digitale se non da un paio d’anni scarsi dice chiaramente che non è un disco per tutti, ed è giusto e bene così.

Orchid – Capricorn
Per tanti è passato senza lasciare traccia, archiviato nell’affollata sezione di cloni dei Black Sabbath. A me ha lasciato un segno, e non so spiegare perché; forse perché condensa meglio di qualunque altro disco mi venga in mente il lato che preferisco di Iommi & co., quello della potenza poderosa e dell’impietosa ineluttabilità, e tanto mi basta a preferirlo negli ascolti a “Volume 4” e “Sabotage”, nientemeno. Sarà campanilismo zodiacale. Tenere un blog di musica mica è necessario, in effetti.

The Gruesomes – Gruesomania
Il migliore album garage di quelli non usciti negli anni Sessanta, e anche con quelli è battaglia serrata. Provateci voi ad ascoltarlo senza fare casino (rumore o altro).

Billy May –  Johnny Cool Soundtrack
Uscito nel 1963, “Johnny Cool” è un omaggio anni Sessanta alla stagione più feconda del noir, gli anni Cinquanta, e, nonostante il cast prestigioso e la regia solida, è poco più che il giusto intrattenimento per una serata qualunque. La colonna sonora, però, è opera di Billy May, uno dei più grandi arrangiatori dell’era swing e oltre, e ha quindi assunto una minuscola dimensione di culto per la sua capacità di affrescare vividamente le atmosfere stilose, minacciose ma invitanti, del noir con un precisissimo dosaggio dello spettro tonale e una padronanza somma della dinamica. Praticamente tutta strumentale (tranne la ballata finale, intonata da Sammy Davis Jr.) e affidata alla versatilità di una big band, questa colonna sonora è jazz per jazzofobi, noir per sorridenti, classe a buon mercato; non ne starei parlando, altrimenti. Ottimo il suono dell’edizione in CD su Ryko (l’unica etichetta che fa le jewel case verdi).

Damnatio memoriae
Incertum habeo
eccetera, quindi fate voi. Mi limito a rilevare che oggi, dopo tutti questi anni, ho finalmente capito perché quella volta al referendum ha vinto la repubblica: perché l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re. E comunque quest’epoca streamingzita fa schifo.

Agosto madre mia se ti conosco.

Quando la temperatura sembra raggiungere vertici prima ignoti e nemmeno la notte, ossia il momento in cui la canicola dà o dovrebbe dare un po’ di tregua, porta ristoro, occorre prendere provvedimenti. Ma cosa fare se il caldo intollerabile non solo persiste anche durante la notte, ma ha stabile alloggio dentro? Cosa fare se la calura opprimente null’altro produce se non sudori freddi, che dalla fronte incrociano gli occhi in perpendicolare e ne offuscano lo sguardo?

La notte è il tempo del foro interno, dei conati di inconfessabile, dei rimorsi mordaci. Del sentirsi persino senza madre, il sancta sanctorum dell’essere vivi, irrimediabilmente soli con se stessi. Delle ombre nere che trascolorano in blu. O meglio, in blues. E chi di blues e di notti calde dentro e fuori ne sa, o persino ne ha mai saputo, di più di Ray Charles?

“La calda notte dell’ispettore Tibbs” uscì nel 1967, e per la prima volta un canadese guardava al Sud e ai suoi costumi con lucidità mista a indulgenza. Ma non era costui un musicista; per quello ci vorranno altri cinque anni e non son pochi, specie in quel periodo. I musicisti indigeni, invece, avevano ben chiaro cosa succedesse nelle afose notti giù in Dixieland, e sempre meno tema di farlo sapere, anche solo in tralice, descrivendo notti di autoconsapevolezza, e perciò di blues, con i modi squisiti, artistici e umani, a cui già allora da tempo ci avevano abituato. Lasciamo quindi a loro, alla struggente voce di brother Ray, all’organo sornione di Billy Preston e agli arrangiamenti impeccabilmente dosati di Quincy Jones, di condurci oltre la siepe e poi del buio che ivi ristagna, raggelandoci e contemporaneamente scaldandoci il cuore in una notte già difficile. In cui adesso naufraghiamo, madidi dentro e fuori a discrezione, o forse il contrario, ma pur sempre vigili affinché non ci colga il sonno esiziale, quello che genera i mostri. Perché a quel punto saremmo davvero in the heat of the night, e se al Sud, altrove o all’inferno non farebbe più tanta differenza.

Vinile e celluloide: Top 20 colonne sonore hard ‘n’ heavy anni Ottanta

PREMESSA
Esattamente un anno fa, il 5 gennaio 2014, mandavo alla redazione di Classix Metal, rivista con la quale al tempo collaboravo, questo articolo e due scritti connessi. A tutt’oggi non è stato pubblicato, anche se non escludo che la sua uscita in edicola possa avvenire a breve (recentemente, infatti, sono stato contattato dal vicedirettore, che, oltre a domandarmi se fossi interessato a redigere un ultimo articolo, mi ha comunicato la probabile futura pubblicazione di questo mio pezzo). In ogni caso, mi sembra trascorso un tempo sufficiente a legittimare il mio utilizzo dell’articolo senza pregiudizio per nessuno; convincimento avvalorato dalla natura tuttora inedita dell’opera, sulla quale, peraltro, non vige nessun diritto di esclusiva in capo a persona diversa dall’autore. Provvedo quindi alla pubblicazione integrale di articolo e connessi “box”, con giusto l’espunzione dell’unico riferimento a Classix Metal, sperando di non fare cosa sgradita alla redazione, costituita di persone competenti, corrette e piacevoli, di cui serbo, e desidero continuare a serbare, un’ottima opinione. La quale, invece, non ho di questo articolo, “tagliato” per esigenze editoriali specifiche, che, al giorno d’oggi, vivrei come una costrizione, anziché come un’occasione di
labor limae. Sono, tuttavia, affezionato a questo pezzo, perché mi ricorda un periodo ormai terminato della vita; lo considero un canto del cigno. Dite voi, giudici ultimi, se il pennuto è intonato o meno.

VINILE E CELLULOIDE

Nel secolo americano, il ventesimo, gli anni ’80 sono stati forse il decennio che più ha visto gli U.S.A. in posizione dominante: gli anni dell’ultraliberismo e della finanza trionfante, dello scudo spaziale e dell’affare Iran-Contras, della lacca e dell’aerobica, di “Miami Vice” e di “Dallas”. E di Schwarzenegger e Stallone: nel diffondere la cultura a stelle e strisce, infatti, il cinema ha ricoperto un ruolo determinante. Ma se suoni e immagini sono singolarmente mezzi potentissimi per veicolare messaggi ed emozioni, ancor più potenti essi risultano quando vengono combinati, e infatti nessuna opera cinematografica può fare a meno della propria colonna sonora, che in certi casi risulta persino più memorabile della stessa pellicola. Le colonne sonore seguono tendenzialmente due forme stilistiche: fanno utilizzo di strumenti e sonorità classiche, affidandosi alla grandiosità e alla versatilità delle orchestre per commentare le immagini, o si servono della musica popolare a loro contemporanea (o dell’epoca in cui il film è ambientato) per meglio costruire l’ambientazione, e quest’ultima soluzione risulta particolarmente interessante per la sua costante mutevolezza, necessaria per adattarsi ai gusti e alle mode dei tempi. Negli anni ’80 questo secondo filone ha prodotto il definitivo ingresso del metal in ambito cinematografico. Il nostro genere musicale, del resto, non solo costituiva la next big thing del momento, ma risultava anche funzionale a diverse esigenze filmiche: le sue tematiche macabre e violente erano perfetto complemento del cinema horror, che conosceva in quel decennio particolare fortuna (anzi, il binomio diede origine a uno specifico filone di “heavy metal horror movies”, dove protagoniste erano proprio metal band, talvolta persino interpretate dagli stessi musicisti) e le sue sonorità epiche e maestose si prestavano magnificamente a commentare trame tipicamente americane di “rise, fall and rise again”. Nel corso degli anni ’80, quindi, l’ hard ‘n’ heavy, in tutte le sue varianti (ma soprattutto in quelle più accessibili, come AOR e glam), apparve in numerose soundtrack, a corredo di opere cinematografiche dei più disparati genere, fortuna commerciale e meriti artistici. Cercando di rifuggire dall’ovvio, come ci è congeniale, abbiamo fatto lavorare le meningi e abbiamo rispolverato venti colonne sonore (tutte pubblicate ufficialmente) di film del periodo. Ne è uscito qualche bel ricordo (per chi c’era) e qualche chicca curiosa, persa tra le pieghe del tempo: a voi dire se ne è valsa la pena. E ora, volume, motore, azione!

FUSI DI TESTA (WAYNE’S WORLD, 1992)

Wayne's World

Spin-off cinematografico di un popolare sketch della trasmissione Saturday Night Live, questa storia di due metallari nerd e del loro programma tv divenne un vero e proprio caso culturale, introducendo, oltre alla consueta carrellata di gadget, persino tormentoni linguistici. La colonna sonora fa storia a sé, perché riesce nel mirabile intento di condensare decenni di rock in 14 pezzi, finendo in vetta a Billboard e riportandoci, dopo circa 15 anni, anche “Bohemian Rhapsody”. Una compilation è spesso questione di equilibri interni, e questa scelta di pezzi – Black Sabbath ma anche Red Hot Chili Peppers, Soundgarden ma anche Rhino Bucket – si dimostra perfettamente bilanciata in ogni sua parte. Lavoro eccellente, la cui unica pecca è la mancata inclusione di Ugly Kid Joe e Temple Of The Dog, pure uditi nel film.

 

SOTTO SHOCK (SHOCKER, 1989)

Shocker

Per il re dell’horror Wes Craven fallimento al botteghino (c’entrerà la recitazione di Kane Roberts?) ma successo musicale, con la nascita, per l’occasione, del supergruppo The Dudes Of Wrath: Paul Stanley e Desmond Child alla voce, Vivian Campbell e Guy Mann-Dude alle chitarre, Rudy Sarzo al basso e Tommy Lee alla batteria. Risultato? Due pezzi di puro hard rock del tempo, con l’omonimo “Shocker” che si segnala per la potenza e il ritornello memorabile. Ma anche il resto vale il prezzo del biglietto: i Megadeth in formazione a tre (caso unico nella loro storia) riscuotono grande successo con la cover di “No More Mr. Nice Guy”, i Dangerous Toys convincono con “Demon Bell” e Iggy Pop si misura con la tozza ma avvolgente “Love Transfusion”, scritta da Alice Cooper e Desmond Child. E la scossa la prendiamo anche noi: a ogni ascolto.

 

NON APRITE QUELLA PORTA 3 (LEATHERFACE: THE TEXAS CHAINSAW MASSACRE III, 1990)

texas chainsaw massacre III

Terzo capitolo della saga della famiglia Sawyer, noti “motosegaioli” del Texas orientale, e primo non diretto dall’originario ideatore Tobe Hooper: sadismo, anche nei dialoghi, a ogni piè sospinto e atmosfere notturne e minacciose. Quale altro commento musicale, dunque, se non il thrash? Questa colonna sonora punta più di ogni altra sui suoni estremi dell’America del tempo, inanellando qualche chicca (eccellente “When Worlds Collide” degli speedster Wrath, come pure l’opener “Leatherface” dei Lääz Rockit) e risultando nel complesso di livello insospettabilmente alto: curioso il rock ‘n’ roll della one-off band Utter Lunacy, formata da membri di Bulletboys, Poison, Jethro Tull, Hurricane e Dio. Album tanto valido quanto raro, non fu beneficiato dal successo del film (dal quale la Northstar trasse una saga a fumetti in 4 volumi). Peccato.

BLACK ROSES (1988)

Black Roses

Ancora luoghi comuni cinematografici sul metal: una band di satanisti, i Black Roses, cerca di corrompere le menti giovanili con la sua musica infernale, lasciandosi dietro una scia di sangue. E la band viene creata davvero, appositamente per incidere la colonna sonora, contattando il meglio del panorama hard ‘n’ heavy: Mark Free alla voce, Mick Sweda e Alex Masi alle chitarre, Chuck Wright al basso e Carmine Appice (che ha anche una piccola parte nel film) alla batteria. Il risultato sono quattro ottimi brani di heavy americano, scritti e suonati con la massima perizia. Completano il tutto altri sei pezzi di Lizzy Borden, David Michael Phillips, Bang Tango, King Kobra, Tempest e Hallow’s Eve. Opera di livello soprendentemente elevato e migliore della pellicola a cui si accompagna, non casualmente questa soundtrack è uscita su Metal Blade.

THE DECLINE OF WESTERN CIVILIZATION PART II: THE METAL YEARS (1988)

the decline of western civilization part ii the metal years

Bloccata sul Sunset Strip da un ingorgo, Penelope Spheeris si accorge della folla di appariscenti capelloni e capisce che è tempo di dare un seguito al suo documentario sul punk losangeleno, narrando la sensazione del momento: ne esce “La Commedia Umana” versione metal, tragedia (gli Odin dentro una jacuzzi che, birre e donne alla mano, cianciano di quanto poco gli manca per diventare rockstar) con qualche perla (Paul Stanley sdraiato tra due playmate che sentenzia: “ciò che il denaro ti consente è di dimenticarti del denaro”). La colonna sonora sfodera il meglio della scena: la versione live di “Bathroom Wall” dei Faster Pussycat batte l’originale, e l’altrimenti inedita “You Can Run But You Can’t Hide” degli Armored Saint è uno dei loro apici. Se poi aggiungiamo Motörhead, Megadeth, Queensrÿche e Metal Church, il quadro è completo: la migliore soundtrack metal anni 80.

IL MIO AMICO SCONGELATO (ENCINO MAN, 1992)

encino man

Sorta di “Ace Ventura” ante litteram, questo film godette poco riscontro di pubblico. Eppure i produttori le avevano tentate tutte, e per rendersene conto basta leggere la tracklist della colonna sonora, sagace riassunto delle tendenze del periodo: apre Vince Neil con “You’re Invited But Your Friend Can’t Come”, preludio alle vette del di poco successivo LP “Exposed”, proseguono i Cheap Trick con una spinta cover di “Wild Thing” e i Queen con un remix hard di “Stone Cold Crazy”, quindi spazio alla contemporaneità crossover con Scatterbrain e Infectious Grooves, senza dimenticare per strada Steve Vai e l’Edgar Winter Group e un paio di furbe puntate nell’easy listening e nell’hip hop. Operazione di marketing anche godibile ma riuscita a metà, il cui principale risultato è di far risaltare il distacco qualitativo tra nomi storici e giovani virgulti.

MORTE A 33 GIRI (TRICK OR TREAT, 1986)

Trick Or Treat

Questo film è divenuto ormai leggendario, a causa di due camei attoriali: Gene Simmons nei panni del dj (memorabile nella versione originale il tormentone “wake up sleepy heads, it’s party time!”) e Ozzy ad impersonare un telepredicatore che si scaglia contro la degenerazione del rock ‘n’ roll. E che dire della scena con la madre del protagonista che guarda sconcertata la copertina di “Unveiling The Wicked” degli Exciter chiedendosi che razza di persona ha allevato? La soundtrack è affidata ai Fastway, che per l’occasione immergono il loro hard rock dai suoni tradizionali in una patina di riverbero da cui lampeggia l’insegna “Eighties”. Almeno quattro pezzi si imprimono immediati nella memoria: l’anthem “Trick Or Treat”, la viscida “Stand Up”, il ritornello di “After Midnight” e la potenza di “Tear Down The Walls”. Il vero classico del connubio metal-horror.

AIRHEADS – UNA BAND DA LANCIARE (AIRHEADS, 1994)

airheads

Grottesca storia di un trio che sequestra un dj radiofonico nella sua stazione per far udire il proprio demo, “Airheads” vanta una eccellente colonna sonora, assemblata con criterio e capace di soddisfare inveterati metalhead senza sacrificare la sua contemporaneità, quei primi anni ’90 in cui il rock “alternativo” dominava le classifiche: non solo gli Anthrax alle prese con “London” degli Smiths e il duetto Motörhead-Ice T funzionano, ma anche le altre scelte si rivelano azzeccate, come i 4Non Blondes che rifanno i Van Halen e il quasi scan rock dei D Generation. La chiusura, affidata a “We Want The Airwaves” dei Ramones, certifica la scanzonata comicità del film. Curiosità: per impersonare il bassista, Steve Buscemi si è ispirato a Rex dei Pantera, dal quale ha mutuato anche il nome.

ROCKY IV (1985)

rocky iv

Nel 1984 Reagan viene rieletto Presidente con la più alta percentuale di voti di sempre: è quindi naturale che le coordinate ideologiche del suo mandato influenzino le arti. Archetipo di tale influenza è questo film, la cui colonna sonora è un trattato di AOR, una finestra sul periodo in cui tastiere e melodia dominavano l’etere: semplicemente immortali i contributi dei Survivor, spettacolari “No Easy Way Out” di Robert Tepper e “Hearts On Fire” di John Cafferty & The Beaver Brown Band (entrambi seguiranno Stallone anche su “Cobra”) e “Living In America” nientemeno che l’ultimo vero acuto di carriera per James Brown. Fu, prevedibilmente, un successo da milioni di copie. Nel film vi sono anche brani strumentali, composti da Vince DiCola (noto per il suo lavoro sul lungometraggio animato “Transformers”) e pubblicati ufficialmente solo nel 2010.

AQUILA D’ACCIAIO (IRON EAGLE, 1986)

iron eagle

Anno chiave per la U.S. Navy, il 1986: non solo il bombardamento di Gheddafi, ma anche il boom di arruolamenti per il successo di “Top Gun”. Un piccolo “thanks”, però, la Marina potrebbe riservarlo anche a questo film, inserito nel filone della guerra aerea e ispirato proprio alla campagna libica, la cui colonna sonora contempla alcuni grossi nomi dell’hard rock: King Kobra, Dio, Eric Martin, Helix. In questo contesto l’inclusione di George Clinton (e non dei Twisted Sister, pure ascoltati nel film) e degli Urgent risulta una curiosa stravaganza, per non dire un’espressione del cerchiobottismo dei discografici. Far girare questo disco equivale a calarsi nell’epoca, con tutti i suoi cliché (l’all American boy trionfante, il riscatto del veterano del Vietnam, i cattivi comunisti sconfitti, i synth magniloquenti, i rullanti annegati nel riverbero) insieme rassicuranti e inquietanti.

DÈMONI 2…L’INCUBO RITORNA (1986)

Demoni 2 (Original Soundtrack)

Pur potendo contare sul gotha dell’horror italiano (regia di Lamberto Bava e produzione di Dario Argento, che collabora anche alla sceneggiatura) “Demoni” non riscosse successo. Ci provò, un anno dopo, questo sequel, di dubbia qualità ma comunque curioso (nel cast Nancy Brilli, la decenne debuttante Asia Argento e persino un cameo di Michele Mirabella!). La soundtrack è nelle mani dell’inglese Simon Boswell, già con Dario Argento ai tempi di “Phenomena”: ne escono due avvolgenti e inquietanti strumentali, che calano le coeve tendenze delle sonorità cinematografiche (synth e drum machine) in un contesto prettamente hard rock. Notevoli anche le canzoni, che spaziano dal dark (Dead Can Dance e Gene Loves Jezebel) al puro hard rock (“Dynamite” degli Scorpions e “Rain” dei Cult), con i Fields Of The Nephilim a fare da trait d’union.

MANGIA IL RICCO (EAT THE RICH, 1987)

eat the rich

Grottesca spy-story con punte di cannibalismo, questa pellicola inglese irrorata di humor nero ottenne pochi riscontri, nonostante l’atmosfera trucidamente demenziale e la partecipazione di Lemmy e Paul McCartney. La colonna sonora, va da sé, è un affare da “motoristi”: sei pezzi sono affidati al trio britannico (oltre a una versione live dell’inedita “On The Road”, da “Orgasmatron” vengono l’omonima, “Built For Speed”, “Doctor Rock” e “Nothing Up My Sleeve” e dall’allora nuovo “Rock ‘n’ Roll” “Eat The Rich”, per la quale venne girato un video con spezzoni del film) e persino il chitarrista Würzel contribuisce da solista con “Bess”, lento strumentale bluesato alla Gary Moore. Il resto sono un pessimo synth pop, due strumentali e qualche contorno dell’attore e musicista Simon Brint. Curiosità per inveterate teste di motore e nulla più.

THIS IS SPINAL TAP (1984)

this is spinal tap

L’opera di Rob Reiner è uno spartiacque nella percezione del metal presso il grande pubblico, e le sue battute sono ormai diventate parte integrante della cultura anglofona. Narrando la storia della fittizia band inglese Spinal Tap, Reiner dipinge un impietoso ritratto del carrozzone rock, e l’effetto maggiormente comico è che la realtà è riuscita a superare l’immaginazione (una trovata su tutte: il black album). Curiosamente infimo è il livello del contributo musicale: spinti dal successo del film, gli attori-musicisti formarono davvero gli Spinal Tap e pubblicarono due LP accolti da totale indifferenza, sparendo subito. A parte i revanscismi di un pubblico metal punto nel vivo dal film, l’ascolto di quest’opera prima spiega il motivo del flop: scialbo rock vagamente hard e inutilmente pomposo, dal fiato corto e persino irritante. Il cinema può dare alla testa più dell’headbanging.

BILL AND TED’S BOGUS JOURNEY (1991)

bill and ted's bogus journey

Si tratta del sequel del fortunato “Bill and Ted’s Excellent Adventure” (1989), anch’esso permeato di sonorità hard ‘n’ heavy. Il ritorno è però preferibile sul piano musicale, perché la colonna sonora risulta maggiormente focalizzata e di piacevole ascolto. Mancavano sei mesi al boom del grunge e la tracklist lo dimostra: inediti di Slaughter, Winger e Richie Kotzen affiancano Megadeth (“Go To Hell” fotografa il passaggio tra il periodo più tecnico e la svolta radiofonica), Faith No More (“The Perfect Thing”, eccellente outtake delle session di “The Real Thing”), King’s X e Primus, con i Kiss di “God Gave Rock ‘n’ Roll To You II” a fare da numi tutelari. Le parti strumentali sono affidate a Steve Vai, e solo un paio sono incluse nel disco. Che è da avere, anche solo perché molti brani sono altrimenti inediti.

UN AGENTE SEGRETO AL LICEO (IF LOOKS COULD KILL, 1991)

If Looks Could Kill

Una scanzonata parodia dei film di spionaggio alla James Bond, la cui trama vede un dissoluto diciottenne sventare un complotto internazionale. La soundtrack è coerentemente calibrata sulle coordinate edonistiche e ridanciane della sceneggiatura, e l’hi-tech AOR della title-track (affidata alla meteora Glenn Medeiros), il convincente power pop degli inglesi Outfield e quel distillato di AOR che è “Maybe This Time” degli Stabilizers sgomitano fianco a fianco con Bang Tango, Robin McAuley (la melensa “Teach Me How To Dream”) e Trixter (“One Mo’ Time” anticipa i Bon Jovi di “Keep The Faith”). Menzione per “Loud Guitars, Fast Cars, Wild Wild Livin’” del supergruppo Contraband (Richard Black, Michael Schenker, Tracii Guns, Shane Pedersen, Bobby Blotzer), che è anche l’apice del suo unico e deludente LP. Disco riuscito a metà, come il film.

I MIGLIORI (BEST OF THE BEST, 1989)

Best Of The Best

Altra ossessione dell’epoca sono le arti marziali, e il cinema, calando tale passione “esotica” nel contesto culturale reaganiano, improntato alla supremazia americana ad ogni costo, crea un filone apposito, uno di quelli che più si serve di musica hard ma orecchiabile, specialmente AOR. Questa pellicola di seconda fascia schiera il batterista dei Traffic Jim Capaldi (ottima “Something So Strong”), i Golden Earring (ovviamente presenti anche con una versione live di “Radar Love”), la futura star del country canadese Charlie Major e un paio di nomi minori, tra cui risalta la anthemica title-track, di Stubblefield & Hall, perfetta per una sessione in palestra e brano migliore di un pur già valido lotto. Istantanea da un’epoca in cui calci e pugni nel dojo si potevano raccontare anche con le canzoni.

SONS OF STEEL (1988)

sons of steel

La trama di questo film di fantascienza australiano a base di viaggi nel tempo (pensate che originalità! E fu anche presentato a Cannes…) prevede un ritorno al passato per evitare il bombardamento di Sydney. Ne è autore Black Alice, avventuriero a metà tra Stallone e Rob Halford. Lo accompagnano musicalmente proprio i Black Alice, band di Perth (della quale l’attore protagonista del film, Rob Hartley, è il cantante) che firma l’intera soundtrack, costituente il suo secondo LP. I primi cinque pezzi sono heavy martellante ed enfatico e fungono da ideale commento alle atmosfere distopiche e violente della pellicola, ma la seconda parte del disco si perde un po’ tra sdolcinatezze sonore che non sono nelle corde della band e strumentali noiosi, affossando il disco. Che infatti fu il canto del cigno del quartetto australiano, scioltosi l’anno seguente.

 

ROCKTOBER BLOOD (1984)

Rocktober Blood

Uno dei primi esempi di “metalsploitation”, questo slasher narra le vicende di una band assetata di sangue durante le sessioni per il primo disco. A fare da corredo alle immagini un album diviso a metà: il lato A è dei losangelini Sorcery (il cui cantante, Nigel Benjamin, ex Mott The Hoople e London, recita nel film come manager della band), quartetto tuttora attivo (si è costruito una reputazione per uno stage show in costumi di ispirazione fantasy) e dedito a un hard rock piuttosto canonico, mentre il lato B è affidato al rock grintoso ma melodico dei Facedown, sovrastato dalla ruvida ugola della cantante Susie Major. Nessun pezzo svetta per qualità, ma il disco ha il suo valore di costume (estetica, sonora e visuale, pienamente figlia del suo tempo) e venale (è relativamente raro e non ne risultano ristampe).

ROCK ‘N’ ROLL NIGHTMARE (1988)

rock n roll nightmare

Jon Mikl Thor, canadese, è un fenomeno del metal anni 80, e si è ormai impresso nella leggenda per le sue pose alla Conan e le trovate sceniche (indimenticabile la sbarra di metallo piegata con i denti!). L’evidente egocentrismo dell’uomo si è peraltro sublimato anche in ambito attoriale, del quale è massima (ed è tutto dire…) espressione questa pellicola, dal titolo eloquente circa la trama (stavolta la band sono i Tritonz). Pure la colonna sonora è integralmente opera di Thor, che, accompagnato proprio dai fittizi Tritonz, dà vita (oddio, vita…) al tipico hard martellante e cromato al quale i suoi precedenti album ci avevano abituato. Non agli stessi livelli del suo “capolavoro” “Only The Strong” ma pur sempre un divertente esempio di come coniugare sonorità heavy metal e atmosfere cinematografiche orrorifiche.

HARD ROCK ZOMBIES (1985)

hard rock zombies

Classico caso in cui il titolo racchiude la trama (che pure contempla figli nascosti di Hitler, nani e una cittadina di nome Grand Guignol), questo trucido esemplare di spazzatura su celluloide può tuttavia fregiarsi di una soundtrack composta e prodotta da uno dei nomi di culto di area AOR: Paul Sabu. Sei pezzi con le radici saldamente impiantate nelle sonorità tipiche del nostro, a cavallo tra chitarre graffianti e tastiere ariose, anche se maggiormente inclinate verso queste ultime: più Kidd Glove che Only Child, insomma. La storia ha decretato che la gloria di Sabu alberga in altri solchi, ma qualche spunto di qualità, come l’anthem “Street Angel”, non manca. Un altro mattoncino nel truculento edificio dell’horror di serie cadetta degli Eighties, con E.J. Curcio, voce e basso dei Silent Rage, nei panni del protagonista Jesse.

DAL PROFONDO DELLE NOTE: NIGHTMARE
Freddy_Krueger

Freddy Krueger è un’icona del cinema e tormenta i sonni del pubblico fin dal 1984, anno del primo film della serie di “Nightmare”, che vede ad oggi sette sequel e il remake del 2010. La fortuna commerciale di “Nightmare” coincide con quella dell’heavy metal, e non sorprende quindi che le loro strade si siano ripetutamente incrociate. Ma se i primi due episodi seguono una coeva tradizione horror di musiche scarne per solo synth (resta comunque memorabile l’inquietante tema composto da Charles Bernstein), è dal terzo episodio che le cose cominciano a farsi “pesanti”: asse portante del film è “Dream Warriors” dei Dokken (anche se la scelta originaria era caduta su “Into The Fire”, che infatti fu inclusa nella versione per cinema, venendo poi eliminata dall’edizione home video), che riscosse un enorme successo e venne pubblicata su singolo, con tanto di video girato con Robert Englund, inducendo i produttori a proseguire con il connubio metal-horror nei capitoli successivi della saga. E così il quarto film (1988) è un’apoteosi metallica fatta dello street degli ottimi Sea Hags, del southern AOR di Jimmy Davis & Junction, dei Love/Hate e dei Vinnie Vincent Invasion con “Love Kills” (per cui fu girato anche un video con Freddy), mentre su “Nightmare 5 – Il mito” (1989) si odono “Bring Your Daughter…To The Slaughter” di Bruce Dickinson (vi suona anche Janick Gers), i Romeo’s Daughter, gli W.A.S.P. e l’hard melodico e cromato degli Slave Raider e del mastodontico Mammoth. Ma i tempi stanno cambiando, e il nuovo capitolo, datato 1991, riduce il voltaggio: di strettamente hard ‘n’ heavy, infatti, ci sono solo due validi brani dei Johnny Law (americani autori di un unico, omonimo LP hard blues) e “Nothing Left To Say” dei Fates Warning, e ciò nonostante un’apparizione di Alice Cooper (già partecipe della soundtrack della saga “rivale” “Venerdì 13”) come padre di Freddy. Da qui in poi il metallo si dirada, per riapparire nel nuovo millennio con l’orgia nu metal di “Freddy vs. Jason” (2003).

THE SYNTHTRACK OF THE EIGHTIES: HAROLD FALTERMEYER

harold-faltermeyer

Ogni lettore ha familiarità con “Axel F”, tema strumentale portante della trilogia di “Beverly Hills Cop”, come pure con il “Top Gun Anthem”, che vede Tom Cruise vittorioso sui MiG russi ricordare il compagno caduto sulle note della chitarra di Steve Stevens. Entrambi tali monumenti della musica per il cinema si devono alla prolifica penna di Harold Faltermeyer, tastierista e compositore tedesco nonché uno dei maggiori responsabili dell’introduzione del sintetizzatore nelle soundtrack degli anni 80. Dotato di orecchio assoluto, ingegnere del suono per la Deutsche Grammophon, nel 1978, a Monaco, Faltermeyer si imbatte in Giorgio Moroder, altoatesino emigrato in Germania ma con in testa l’America: vi approderanno insieme, firmando alcune prestigiose colonne sonore (“Midnight Express”, “American Gigolo”) a base di suoni sintetici e armonie pop, fino al definitivo coronamento con “Top Gun”, la soundtrack più venduta di sempre: di Faltermeyer sono “Mighty Wings”, data ai Cheap Trick, il tema e tutte le musiche strumentali udite nel film (le prime mai registrate con modalità DDD e delle quali la sola “Memories” è stata pubblicata ufficialmente: nel 1999, con la versione estesa del CD). Metà anni 80 è il periodo più prolifico per Harold, i cui suoni sono ormai stilema consolidato del cinema d’azione: dopo la trilogia di “Beverly Hills Cop”, nell’87 commenta “The Running Man” di Schwarzenegger, nell’89 scrive la musica per “Tango & Cash” e l’anno seguente produce la soundtrack del film tedesco “Fire And Ice”, componendo tre ottimi pezzi AOR (la title-track, “Thunder & Lightning” e “Never Give Up”) per la cantante Marietta. Molto rilevante anche l’attività di produttore e songwriter, per gente del calibro di Donna Summer e Billy Idol. Con la nuova decade Faltermeyer rientra in Germania e diminuisce le uscite, dedicandosi ad altri progetti musicali (musical, videogiochi), ma è tornato a comporre per il cinema nel 2010 (“Poliziotti fuori – Due sbirri a piede libero”, con Bruce Willis). Ideale compendio della sua opera è l’antologia doppia “Portrait Of Harold Faltermeyer: His Greatest Hits”.

It’s the singer, not the song: Jimi Jamison (1951-2014)

jimi jamison

Oggi esce “Step Back”, l’ultimo album di Johnny Winter. Letteralmente “l’ultimo”. Sarà come quelli che l’hanno preceduto, rock blues ottimamente suonato e denso di feeling, con un repertorio costituito perlopiù di cover (ma sarebbe meglio dire standard) e la debita parata di ospiti illustri. Un ascolto lo merita di certo. Ma non è questo il punto.

Il punto è che due giorni fa, il 31 agosto, ha lasciato per sempre il microfono un altro grandissimo. Titolare di una delle dieci migliori voci del rock degli ultimi trent’anni, riconoscibile già dalla prima nota: una delicata filigrana serica intessuta in un morbido ed avvolgente broccato, un melodioso registro tenorile dall’intonazione perfetta. Proprio così, Jimi Jamison e la sua ugola ci hanno lasciati.

Dai primi passi nella prolifica Nashville dei tardi Sessanta alla mistura di rhythm & blues, hard e southern rock dei Target (due ottimi quanto rari LP, l’omonimo e “Captured”, rispettivamente datati 1976 e 1977), dal possente ma melodico hard rock dei Cobra (“First Strike”, classe 1983, è un’imperdibile e scintillante lost gem) ai primi posti in classifica con i Survivor (impressionante la qualità media degli album, in particolare del trittico “Vital Signs”-“When Seconds Count”-“Too Hot To Sleep”, semplicemente ineguagliabile il successo delle partecipazioni a colonne sonore, specialmente nella serie di “Rocky”) e fino ai buoni riscontri della carriera in proprio (alzi la mano chi non ricorda I’m Always Here, immarcescibile sigla del telefilm “Baywatch”), Jimi Jamison ha cantato sempre e solo in maniera emozionante. E tanto basta per celebrarne le opere.

Ironia cruda della sorte il fatto che proprio il cuore abbia fermato l’autore di Burning Heart. Ma fa parte del gioco, l’ironia della sorte, tanto più che solo chi resta la coglie. E nemmeno tutti, perché a volte ci vuole occhio di lince; di tigre, quantomeno. Ciao Jimi, grazie di tutto.

 

P.S.: Sotto una lista minima di titoli per godersi la fantastica vocalità di Jamison. Lista intrinsecamente incompleta e opinabile, ma contenente senz’altro lo stretto indispensabile per…beh, sopravvivere al lutto.

  1. Jimi Jamison – I’m Always Here
  2. Target – Are You Ready
  3. Target – Can’t Fake It
  4. Cobra – Blood On Your Money
  5. Survivor – I Can’t Hold Back
  6. Survivor – The Search Is Over
  7. Survivor – Is This Love
  8. Survivor – Man Against The World
  9. Survivor – Burning Heart
  10. Jimi Jamison – The Great Unknown

 

 

Semper (in hi-)fi: VV.AA. – Top Gun OST

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Avete nostalgia di quei giorni spensierati di metà anni Ottanta? Se si, mettete su questo disco e più velocemente di un F-14 che sfreccia vi ritroverete improvvisamente in un tempo in cui non c’è ansia da Millennium Bug, in cui Ronald Reagan prende decisioni nella Stanza Ovale e Nirvana è solo un posto perfetto anche se immaginario”. Così cominciano le note introduttive della riedizione della colonna sonora più venduta di tutti i tempi, complemento sonoro contemporaneo e senza tempo insieme di una delle più smaccatamente propagandistiche pellicole hollywoodiane. Baciata da un successo oceanico, al punto che la U.S. Navy arrivò ad appostare i propri arruolatori al di fuori dei cinema di mezza America. Il mezzo è il messaggio, direbbe Marshall McLuhan.

Si discorreva della colonna sonora. Non capita spesso che un’opera cinematografica dai molti riscontri al momento della sua uscita e al tempo stesso pietra miliare dello spirito di un’epoca per gli spettatori successivi sia corredata da musiche dotate di vita propria. Ecco uno di quei casi: dieci brani studiati appositamente per la massima resa sullo schermo e dagli altoparlanti, su Billboard come al botteghino. Un’opera accuratamente pianificata e riuscita in ogni suo aspetto, che cela sotto un’ammirevole cesellatura dei singoli dettagli (la scrittura, la produzione, il bilanciamento interno della tracklist, persino la copertina) un’anima rapacemente mercantilistica. Un raro esempio di soundtrack kolossal, fiera degli eccessi come solo un prodotto degli Eighties può essere e proprio per questo affascinante, in particolare in tempi di contrazione come quelli che viviamo. Proviamo a illustrarne i motivi.

Per ironia della sorte (o forse no), una delle più efficaci apologie in musica della potenza militare americana prende le mosse in terra tedesca, e precisamente a Monaco, nel 1978. Qui l’altoatesino Giorgio Moroder, ultratrentenne dall’animo girovago e con esperienze musicali in area germanica fin dal 1966, patito di sintetizzatori e delle nuove tecnologie dello studio di registrazione, è uno dei nomi di punta della stagione disco. Le sue trame sintetiche ma smaccatamente erotiche creano e alimentano star come Donna Summer, e le dense atmosfere narrative che le sue composizioni sono in grado di creare cominciano ad essere notate da Hollywood, che lo reclama alla sua dorata corte; scopo colonne sonore. Moroder, ambizioso e self-confident, non può sottrarsi alla sfida. Ma, prima di fare le valigie, gli accade un fortunato imprevisto: incontra un pacato bavarese, ingegnere del suono in forza alla reverenda etichetta Deutsche Grammophon e pianista diplomato alla prestigiosissima Hochschule für Musik und Theater, dedito alla composizione e all’arrangiamento. Tale Harold Faltermeyer. I due scoprono di avere in comune una rigida etica del lavoro e una passione per i suoni sintetici, allora nuovi e ancora da esplorare, e decidono di varcare l’Atlantico insieme, proponendosi come tandem di compositore (Moroder) e arrangiatore (Faltermeyer): il risultato saranno soundtrack di successo come “Midnight Express” (1978), “Battlestar Galactica” (1980) e “Scarface” (1983). E altre ancora, tutte sotto l’ala protettiva di un’altra lungimirante coppia, Don Simpson e Jerry Bruckheimer. Due produttori cinematografici con l’occhio allenato a cosa funziona sul grande schermo e con la consapevolezza che immagini memorabili richiedono musiche, e soprattutto canzoni, parimenti inobliabili. Ovviamente di stanza nel Golden State, ed è lì che la vicenda entra nel vivo.

Los Angeles, 1986. Simpson e Bruckheimer hanno finanziato l’idea di un film che racconti l’America del tempo sullo sfondo della Top Gun, l’elitaria scuola di addestramento per i piloti della Marina con sede a Miramar, nei pressi di San Diego. Protagonista prescelto è un giovane astro nascente di Hollywood, con un paio di buoni riscontri al botteghino ma ancora in cerca della conferma definitiva, a cui vengono affiancati una bellezza tipicamente californiana, un’effervescente spalla baffuta e un antagonista dall’espressione di ghiaccio come il nome appioppatogli nella sceneggiatura. A dirigere, un ambizioso e giovane regista pubblicitario, ferrato nello stile spettacolare che le evoluzioni dei caccia F-14 comandano sul grande schermo e fratello di uno dei più affermati directors hollywoodiani, autore di pietre miliari del calibro di “Blade Runner”. Sembra una mano vincente, ma gli scafati produttori sanno che per la scala reale non bastano trama, cast, regista e titolo: ci vuole anche il quinto elemento, quello più evocativo e maggiormente capace di fissare le scene nella memoria degli spettatori. La musica. Si ricordano, quindi, di quella coppia di germanofoni allora padroni del binomio cinema-musica, come i riscontri stanno a dimostrare: Moroder che non sa più dove sistemare gli Oscar, Faltermeyer nelle orecchie di mezzo mondo con “Axel F”, tema portante di “Beverly Hills Cop”. Per ottenere il meglio bisogna servirsi dei migliori, giusto? Detto, fatto: due telefonate ed entrambi sono della partita. Moroder nel ruolo di produttore artistico e compositore delle canzoni originali, Faltermeyer incaricato di comporre e suonare i passaggi strumentali; soprattutto il tema portante, il famigerato “Theme From”, una melodia cruciale per la sorte della pellicola.

Quando i lavori per una soundtrack vengono intrapresi, il tempo è poco e le cose da fare molte: contattare gli artisti e sondare la loro disponibilità a partecipare (operazione ancor più complessa quando si ha a che fare con nomi di grande fama, impegnati in lunghi tour o in incisioni in studio; ma è lo scotto da pagare per la maggiore visibilità che una loro partecipazione garantisce); ottenere l’autorizzazione dalla loro casa discografica; procurare i brani (il che significa, alternativamente, incaricare dei songwriters professionisti o attendere che gli artisti partecipanti consegnino i propri); prenotare lo studio di registrazione e ingaggiare turnisti, fonici e produttori; accordarsi con una casa discografica per la pubblicazione del disco in concomitanza con l’uscita del film, sincronizzando i rispettivi sforzi pubblicitari. Nel caso concreto, forse prevedibilmente per la colonna sonora di una tipica trama di “rise, fall and rise again“, la trafila incomincia male, e cioè con defezioni eccellenti: i Toto ricusano l’offerta di partecipare accampando propri impegni di studio, mentre Bryan Adams, reduce dal multiplatino di “Reckless”, dichiara di non voler vedere la sua musica associata alla glorificazione della guerra. Ma siamo in California, dove la gente sgomita sugli affollati pioli della scala che porta ai vertici dello show biz, e per di più nei Big Eighties, terreno di caccia opimo solo agli opportunisti più tenaci e spregiudicati, e infatti una dozzina di loro non si farà sfuggire l’occasione: abili mestieranti del settore (Kenny Loggins, già voce per gli spartiti di Moroder nella spaccaclassifiche Footloose, dall’omonimo film del 1984, e non per niente qui unico affidatario di due canzoni) e vecchie glorie in cerca di una nuova spinta verso l’alto (i Cheap Trick, all’epoca giunti ad un momento di stanca creativa), seconde linee di lungo corso (Teena Marie, valida interprete del blue-eyed soul in forza addirittura alla Motown) e perfetti carneadi (Marietta, Larry Greene), giovani allora sulla cresta dell’onda (Berlin, Miami Sound Machine) e consumati sidemen dal professionismo inattaccabile (Steve Stevens, già chitarra di Billy Idol). Un calderone apparentemente troppo eterogeneo, a cui, però, darà veste uniforme il livello superlativo dei brani, raffinati nelle melodie, ricercati negli arrangiamenti e rilegati da una produzione deluxe.

Una colonna sonora, specialmente se composta di brani originali, ha un problema bifronte: da un lato, restare ancorata, almeno parzialmente, alla trama del film che correda; dall’altro, presentare uno spessore musicale sufficiente a consentire, ed anzi suggerire, un’autonoma fruizione rispetto alla pellicola. “Top Gun” è una di quelle che meglio riesce a coniugare tali esigenze, narrando la storia di Pete “Maverick” Mitchell senza per questo non prestarsi, volta per volta, a commentare esperienze personali del singolo ascoltatore, come, chessò, una corsa in motocicletta o la preparazione di un esame universitario, l’elaborazione di un lutto o una visita a due o più al bodoir, la consapevolezza di essere oggetto di sguardi interessati in un locale affollato o la carica adrenalinica prima di una competizione sportiva. Magari nascoste sotto una patina glamorous di suoni sintetici, ma le emozioni ci sono, molte e diverse; basta saperle trovare. Proviamoci.

Si apre e già siamo in zona pericolo, con Kenny Loggins impegnato a dileguarsi tra stacchi ritmici e ripartenze di chitarra, tra un assolo di impeccabile sinteticità (opera dell’eccellente turnista Dann Huff) che spacca a metà il brano e un sassofono lacerante che lo congeda. Ma si resta in quota sulle possenti ali dei Cheap Trick, che con insospettabilmente duro cipiglio riassumono la lezione del film e della decade: non ci sono punti per il secondo classificato; clima competitivo che nuovamente Kenny Loggins prova a sdrammatizzare, riportandolo nell’innocente alveo di una partitella tra amici, dove, sembra suggerire una linea vocale che parte anonima e si fa incredibilmente appiccicosa, conta poco chi vince o chi perde. Tanto poi si va tutti a far festa nel locale dove suona Teena Marie, stavolta impegnata in un rhythm ‘n’ blues moderno, spruzzato di archi dal suono digitale ma pennellato da una chitarra dal funkeggiare pallido e disinvolto, mentre sovrasta il tutto una voce smaniosa di essere abbordata, perché la notte è giovane. Finisce che qualcuno la accontenta e si passa la notte a Berlin(o), dove un giro di basso con pochi eguali e il clima languido ti tolgono il respiro come desideri. Poi via subito a gustarsi la macchina del suono di Miami, con le sue caldi notti estive e il suo sabor latino che la locale guida, madama Gloria Estefan, non manca di indicarci. E anche qui il cuore ha un sussulto, per una bellezza locale, che tanto locale non sembra però. Si attacca bottone, si scopre che è canadese e si promette di raggiungerla là, per cogliere nei suoi occhi un paradiso languido e cromato, che un Loverboy indigeno ci ha indicato con profusione di sentimento. Ma non si può indugiare, è già tempo di ripartire per attraversare il fuoco con cuore impavido e amore per la velocità, Larry Greene alla guida di un bolide con chitarre Mach 1 e un ritornello che sembra non riesca mai a svoltare in tempo, e invece, all’ultimo, zac!, è di nuovo in pista. Fermi tutti, però: dove stiamo andando, esattamente? Finita la corsa, ancora ebbri di velocità, l’interrogativo, a cui dà veste emozionale l’espressiva voce, che diresti nera e invece è bionda, di una Marietta pensosa ma irrequieta, ci assale e ci tormenta: quale destinazione? Sembra tutto perduto, e invece in ultima, con l’epico tema chitarristico adagiato da Steve Stevens sul letto di tastiere predisposto da Faltermeyer, torniamo già a volare planando sopra l’oceano, in cui un sole radioso si inabissa, a suggello di una giornata trionfale per noi ascoltatori, che abbiamo fatto la nostra parte per far trionfare il bene sul male. E via di nuovo col tasto “Play”.

I dieci brani di cui l’LP si compone hanno prodotto nove dischi di platino (senza contare quelli fruttati dai cinque singoli estratti): praticamente una miniera, il cui filone viene sfruttato da ventotto anni e continua a sembrare inesauribile, grazie anche a due riedizioni, rispettivamente del 1999 e del 2006, che hanno variabilmente rimpolpato la pure equilibrata tracklist. Da preferire la prima ristampa, che aggiunge alcuni brani presenti nel film e del cui valore non si può dubitare, visto che (a parte la toccante strumentale Memories, scritta e suonata da Faltermeyer, e l’inutile remix di Playin’ With The Boys posto in chiusura) sono tutti classici, a mantenere saldo il contatto con l’epoca aurea della musica americana: (Sittin’ On) The Dock Of the Bay di Otis Redding, Great Balls Of Fire di Jerry Lee Lewis e You’ve Lost That Loving Feeling dei Righteous Brothers. Peggio, invece, l’edizione 2006, che ai pezzi citati aggiunge altri cinque big hit dell’epoca totalmente svincolati dal film e dalla sua trama, falsando così la ragion d’essere della soundtrack.

Istantanea da un’epoca di vertiginose accelerazioni, economiche come tecnologiche ed ideologiche, “Top Gun” è entrato da tempo nell’immaginario collettivo almeno quanto la sua colonna sonora, monumento all’eccesso sonoro e sintesi tra le più mirabili – forse persino la più mirabile – di cosa fu il mainstream degli anni Ottanta: grandeur e volontà di stupire, marketing al massimo delle sue possibilità e disimpegno intriso di conservatorismo, professionismo frenetico e ambizioni mercantili. Non è un’opera d’arte, “Top Gun”, ma un prodotto concepito e realizzato esclusivamente per essere consumato; plastica scintillante, dirà qualcuno: vero, ma quello stesso qualcuno, ve lo garantisco, non saprà indicare dell’altra plastica che abbia lo stesso scintillio accattivante che subito conquista; eppure ne siamo circondati da decenni, dalla plastica, musicale e non. Non mi sento di dar loro torto, in questo caso, perché non è tutto oro quel che luccica: a volte è anche platino.

P.S.: dicevo che Harold Faltermeyer venne incaricato di comporre i brani strumentali usati nel film. Effettivamente il montaggio finale annovera una serie di passaggi musicali molto appropriati, figli del loro tempo nell’essere espressione del binomio sintetizzatore-drum machine, ma efficacissimi nell’amplificare il significato narrativo ed emozionale delle scene al cui servizio sono preposti. Curiosamente, tutte queste composizioni (circa una trentina) non sono mai state raccolte e pubblicate ufficialmente (a parte la citata “Memories” sulle due ristampe in CD della colonna sonora ufficiale), ma su Internet è comunque possibile trovarle in varie forme “ufficiose”. Non così, invece, per “Radar Radio”: composta da Moroder, cantata da Joe Pizzulo e presente nel film durante una scena di combattimento aereo in fase di addestramento alla Top Gun, questa canzone è reperibile nel 45 giri di Take My Breath Away, di cui costituisce il lato B. Buona caccia.

Il Divo e il campione: Teho Tehardo & Blixa Bargeld – Still Standing

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Avant-garde is French for bullshit” John Lennon

Anche i geni sbagliano: anche l’avanguardia non è sempre “stronzate”. Non sempre la ricerca deve essere ostica alle orecchie; anzi, lo spessore compositivo sta proprio nel coniugare risultati insieme innovativi e apprezzabili al di fuori della ristretta cerchia di cultori della sperimentazione fine a se stessa. Ma riesce solo ad alcuni talenti eccezionali (Laurie Anderson, LaMonte Young, Philip Glass e John Cale sono quelli che mi vengono subito in mente, ma non sono certo gli unici), gli altri finiscono inevitabilmente da un lato o dall’altro della barricata: avanguardia o successo, élite colte o grande pubblico.

Potrebbe rompere questa rigida dicotomia il nuovo disco di Teho Teardo e Blixa Bargeld, già acclamato come la migliore uscita italiana del 2013 al Meeting delle Etichette Indipendenti. A ragione. Merito, a mio avviso, dello spessore delle personalità coinvolte, di estrazione simile ma a loro modo complementari.

Il primo, pordenonese classe 1966, è da sempre dedito alla ricerca musicale, vanta svariate collaborazioni con personaggi diversi come Scott McCloud dei Girls Against Boys e Mick Harris dei Napalm Death ed è un pluripremiato autore di colonne sonore (particolarmente notabile quella per “Il Divo” di Paolo Sorrentino).

Il secondo, berlinese classe 1959, incarna il concetto stesso di avanguardia: fondatore degli inveterati sperimentatori, e per decenni primattori del fermento culturale che caratterizza la capitale tedesca, Einstürzende Neubauten, chitarrista nei Bad Seeds di Nick Cave, solista di rara poliedricità (nel suo catalogo una raccolta di letture delle poesie erotiche di Bertold Brecht siede a fianco di una riscrittura musicale del romanzo “Le particelle elementari” di Michel Houellebecq), regista, autore. Un’autorità, in due parole.

Insieme partoriscono un album stupefacente in più di un significato: quegli archi carezzevoli e scostanti, quegli arrangiamenti deliziosi e struggenti, quelle atmosfere ovattate e irrequiete sono alla portata di tutti, capolavori di sintesi tra pop, minimalismo e ricerca, ma possiedono un potere ipnotico, che esercita una presa totale sull’ascoltatore, assuefacendolo irrimediabilmente come il più efficace narcotico. Ambientazioni interiori di sapore cinematografico ma nessuna concessione allo stereotipo, nessuno scivolone nell’ovvio. Su tutto (ma forse sarebbe meglio dire “sotto tutto”) il recitativo profondo, baritonale di Blixa, di intensità emotive a stento sostenibili, distillato di un’anima che sa di essere condannata e irredimibile, che ha visto troppe cose e sa già come andrà a finire, tanto per cambiare. Italiano, inglese e tedesco mescolati insieme, senza soluzione di continuità; parole sulla musica e musica dalla parola. Anche per questo, richiedendo all’ascoltatore di padroneggiare tre idiomi, i testi non sono il primo aspetto che balza all’orecchio, ma ogni volta che l’attenzione si focalizza sul contenuto di quelle parole è un elettroshock, un richiamo ai nostri doveri di cogitantes (ergo entes). Un titolo su tutti: “Come Up And See Me” e il suo impietoso resoconto del palinsesto televisivo e dei suoi effetti.

Raro esempio di copula tra piacevolezza pop e ricerca sperimentale, “Still Standing” potrebbe davvero essere IL disco dell’anno, persino dal punto di vista di chi, come me, è aduso a ben altri ascolti e dell’avanguardia musicale sa punto o poco. Commentando un video del duo, un utente di YouTube ha osservato che “è come se mischiassi Deus e Captain Beefheart con una forte dose di Velvet Underground“: non saprei fornire definizioni migliori. Taccio, dunque, e ascolto.