John Hiatt è un sopravvissuto. A se stesso, più che altro: la grande fama non l’ha mai toccato fino in fondo e il culto che lo circonda è diffuso ma non così tanto da aver decretato l’ingresso dell’uomo nel ristretto novero dei grandissimi della canzone americana, nonostante un’abilità compositiva decisamente elevata (dalla quale altri, anche illustri, hanno tratto vantaggio: Ridin’ With The King nelle mani di Eric Clapton e B.B. King, per esempio; ma anche Angel Eyes prestata a Jeff Healey). E così il suo nome, invece di ritrovarsi nel posto che gli spetterebbe, ossia a fianco di gente come Bruce Springsteen, Tom Waits, James Taylor, è rimasto in una sorta di limbo: riverito e conosciuto, specialmente dai colleghi musicisti, ma mai veramente entrato nelle corde del grande pubblico generalista, che forse – ipotizzo – non ha perdonato a colui che lo porta le costanti franchezza e asciuttezza stilistica, l’assenza di retorica e la distanza da qualsiasi intellettualismo. Non c’è gratificazione ideologica o politica nella sua musica, né catarsi spirituale o aneliti trascendenti, ma solo la brutale e nuda verità che, a questo mondo, esiste solo la vita, ricca, assurda e imprevedibile, che si snoda errabonda e irreversibile come un fiume e che, come il fiume, quando tracima dagli argini non sta tanto a sottilizzare su cosa investe con la sua onda. Perdente a metà e magnifico tutto, né eminenza grigia né icona maudit, non rocker ma nemmeno hillbilly o bluesman, John Hiatt è un vagabondo senza bandiere sotto cui cullarsi in pie illusioni e capace di accettare la sconfitta e i dolori che la sua condizione comporta, perdipiù dichiarandolo apertamente; come non amarlo?
Partito in sordina a metà Settanta da Nashville e passato, a inizio anni Ottanta, per improbabili soluzioni new wave, Hiatt ha progressivamente raffinato la sua proposta mediante sempre più robuste iniezioni di suoni tradizionali americani, eseguite da infermieri d’eccezione come Ry Cooder, Nick Lowe, Jim Keltner e Sonny Landreth (esemplare e inarrivabile la doppietta “Bring The Family” – “Slow Turning” nel biennio ’87-’88), assestandosi su uno stile magari canonico nel richiamo ai più praticati stilemi di americana, ma sempre peculiare e altamente emotivo, courtesy of una voce profonda e lacerata, specchio di un’anima che ne ha viste più di quante dovrebbe essere lecito (il suicidio del fratello quando Hiatt aveva nove anni e la morte del padre due anni dopo, divorzi, lutti vedovili, alcolismo e altro ancora), e di storie di vita vissuta e di amore (in)vano, narrate sempre con lo sguardo disincantato di chi della bottiglia assegnatagli dalla sorte ha bevuto anche la feccia, deglutendola senza pensarci troppo sopra.
Non esiste, si potrebbe azzardare, un brutto album di John Hiatt, ma è vero che alcuni dischi sono migliori di altri. Questo “Terms Of My Surrender”, per esempio. L’ultima fatica, datata luglio 2014. E se fosse davvero l’ultima (ma non voglia Iddio!) per il sessantaduenne dell’Indiana, ci sarebbe poco di che stupirsi, perché queste undici canzoni hanno tutte le caratteristiche del testamento artistico, del riassunto di un’eccezionale vicenda musicale che, però, in ogni momento può giungere a conclusione, perché in ogni momento la vita può presentare il conto e tanto vale aver detto per tempo tutto quel che si doveva. C’è il blues, punto di partenza e di arrivo per tutti, stile ma anche condizione dell’anima, declinato con accenti personali e poco ortodossi, come nella prostrata ma a suo modo fatalista dichiarazione di resa della title-track, nella cartolina dal Delta del Mississippi di Here To Stay, nell’esistenzialismo da juke joint di una Face Of God punzecchiata da armonica e mandolino e rintuzzata da scheletri di coralità, nella stregonesca evocazione di Howlin’ Wolf che risponde al nome di Nothin’ I Love. Ma c’è anche il resto: il country-gospel per banjo, coro e ritmica di When The Levee Breaks che dona a Wind Don’t Have To Hurry un’aura mistica; il country-rock di Come Back Home; il country e basta, ma nella sua declinazione più lontana possibile da ciò che oggi esce sotto quest’etichetta, di Old People, praticamente un manifesto della terza età (alla quale l’autore si avvicina rapidamente, d’altronde); il folk dalle salde radici di Nobody Knew His Name; e una Baby’s Gonna Kick che fa convivere la polvere texana dei primi ZZ Top e la vitalità chicagoana di Charlie Musselwhite, mentre Long Time Comin’ ricorda a tutti che in mezzo tra Asbury Park, New Jersey e il Nebraska c’è proprio l’Indiana.
Prodotto splendidamente da Doug Lancio all’insegna della massima autenticità sonora (all’inizio di Face Of God si sente persino Hiatt domandare se la registrazione è iniziata), “Terms Of My Surrender” è un gioiello d’altri tempi, un testamento scritto con la calligrafia consumata di chi sa perfettamente che ricordo vuole lasciare di sé. Rigorosamente olografo, perché per certe cose anche le macchine da scrivere sono inaffidabili, figuriamoci i computer. E con tanto di disposizioni a favore dell’anima: la nostra di ascoltatori.
Magari mi sbaglio grossolanamente, e John Hiatt continuerà a rimpolpare la sua discografia di altri ottimi dischi con la cadenza grosso modo biennale sulla quale si è da un po’ di tempo assestato. Probabilmente è così. Ma se anche con “Terms Of My Surrender” cessassero le sue pubblicazioni, nessuna decorosa recriminazione potrebbero avanzare gli eredi di questa porzione di mondo a sette note. Che poi saremmo noi, gli ascoltatori. Nessun disonore potrà mai derivare dall’arrendersi a queste condizioni.
Sì, gran bel disco (e gran bella recensione, e gran bel blog: complimenti).
Hiatt è una garanzia, in un certo senso.
Grazie dei complimenti!