
Se state leggendo, ve lo ricordate di sicuro. Era novembre 2008, e in una Chicago spazzata dal gelo la storia si scriveva: per la prima volta la melanina non era più un fattore determinante (alcuni direbbero discretivo, o peggio) per accedere al soglio di Giorgio Washington. Il mondo sembrava un posto migliore. Ma qualcuno non era d’accordo.
Qualche tempo dopo, quando le prime proposte politiche iniziarono a manifestarsi, il dissenso di alcuni si fece radicale. Fra i dissenzienti anche diversi musicisti, arroccati in difesa di posizioni e visioni del mondo marcatamente conservatrici. E tra le voci che più distintamente si levarono contro il Presidente e i suoi obiettivi vi furono loro. I sudisti per antonomasia. i Lynyrd Skynyrd.
Ora, per chiunque conosca un briciolo di storia americana, “sudisti per antonomasia” dovrebbe transitivamente comportare “conservatori per antonomasia”. Nulla di cui stupirsi, dunque, nel trovare la band autrice di “Sweet Home Alabama” in difesa dello status quo. Ma non è così semplice, e proprio qua chi ha seguito i passi dei sette di Jacksonville trova da ridire.
Quando emergono, a inizio anni Settanta, gli Stati Uniti vivono una delle loro fasi più travagliate del dopoguerra: la sconfitta in Vietnam; il Watergate; lo shock petrolifero; la stagflazione; il fallimento dell’utopia hippie. In questo clima nervoso, un fremito conservatore percorre l’America profonda, quella che si cela dietro i grandi numeri da prima superpotenza mondiale e si contende il pane quotidiano con le unghie e con i denti. L’America dei deserti e degli Appalacchi, l’America degli hillbillies e degli hobos, i campi del Midwest e le catene di montaggio della Rust Belt, l’Ohio e l’Oklahoma. L’America di Nebraska, insomma.
E gli Skynyrd, figli del Sud più profondo e retrivo, seppero interpretare al meglio le contraddizioni, ma anche il fascino, della loro terra, intrappolata tra fedeltà alle radici e istanze di rinnovamento. Nei testi di Ronnie Van Zant (uomo il cui apporto nella definizione dell’identità sudista è parificabile a quello di William Faulkner) c’era sì l’inno antiarmi “Saturday Night Special”, ma anche l’orgogliosa rivendicazione di “Sweet Home Alabama”, il souvenir dolceamaro di “The Ballad Of Curtis Loew” come la doglianza qualunquista di “Things Goin’ On”. E anche nella musica c’erano il country del Tennessee e il blues del Mississippi, l’honky tonk della Carolina e i fiati di Muscle Shoals. C’era Dixieland, quella terra tragica e meravigliosa compresa tra la Mason-Dixon line e Key West, tra Capo Hatteras e il Rio Grande.
Ma, come scrive Mauro Zambellini in “Southern Rock”, non esiste storia del Sud senza il suo carico di ineluttabilità: il 20 ottobre 1977 l’aereo che portava il gruppo si schiantò in una palude vicino a McComb, Mississippi, e con esso una carriera in costante decollo. Una Gettysburg della musica.
Il recupero dopo il trauma ha richiesto una decina d’anni, ma, a partire dal concerto-tributo del 1987, il ritorno è stato stabile: formazione rimaneggiata (con il terzo fratello Van Zant, Johnny, a prendere il posto dietro il microfono) fino a divenire una vera e propria parata di stelle del rock sudista (Rickey Medlocke dei Blackfoot e Hughie Tomasson degli Outlaws) e piena ripresa dell’attività concertistica e discografica, con otto album di materiale inedito tra il 1991 e il 2012. E nemmeno la costante compagnia di lutti (lo storico chitarrista Allen Collins paralizzato in un incidente d’auto e poi morto di polmonite nel 1991; il bassista e fondatore Leon Wilkeson vinto da fegato e polmoni malandati nel 2001; il chitarrista Hughie Tomasson dipartito nel sonno nel 2007; il tastierista Billy Powell stroncato nel 2009, come pure il nuovo bassista Ean Evans) ha saputo scalfire il mito dei Lynyrd Skynyrd nati ribelli e sempre coerenti al loro motto “vivi in fretta, lavora duro, muori giovane”.
Una vera leggenda americana, dunque, perché proprio in terra statunitense la proposta del gruppo tocca corde intime nel pubblico. Che è anagraficamente trasversale ma sociologicamente ben delimitato: bianchi della working class, di bassa istruzione e reddito modesto, localizzati principalmente in quel Sud che è anche la Bible Belt e quindi spesso devoti alle rigide dottrine propalate dalle innumerevoli ramificazioni ecclesiali del protestantesimo. Difficile non identificarli con lo zoccolo duro dell’elettorato repubblicano. Osservate il pubblico di un concerto degli Skynyrd e quello di un comizio di Sarah Palin, raffrontateli e traete le vostre conclusioni.
Ciò non deve stupire: il southern rock è il genere musicale identitario per antonomasia, quello che si radunava sotto la bandiera stars and bars per ricordare un “bel tempo che fu” mitico quanto mai esistito, e dunque ad uno spostamento a destra – rispetto agli anni Settanta – del suo pubblico non poteva che corrispondere un arroccamento dei musicisti. I quali, del resto, condividevano con l’uditorato estrazione sociale, orizzonti socio-culturali e preoccupazioni: disoccupazione e crisi economica; una più o meno fantomatica minaccia comunista; preservazione, variabilmente sentita, dei valori tradizionali; immigrazione. Ma se per i due mandati di Dubya gli Skynyrd e il loro seguito avevano potuto dormire sonni tranquilli, è con la prima elezione dell’attuale commander-in-chief che i nove di Jacksonville, ormai con base a Nashville, entrano in fibrillazione. Se su “Vicious Cycle” (2003) qualche dubbio sulla direzione intrapresa ancora c’era (“Non c’è giusto, sbagliato e niente nel mezzo/Non è la Costituzione che hanno scritto per me/Ci siamo bloccati la testa in qualcosa oltreoceano/Impiantati fino al culo nell’ipocrisia“, cantano in “The Way”), il parto successivo fa quadrato nel difendere la Weltanschauung degli sconfitti alle urne.
Lo si capisce subito, fin dal titolo più che eloquente e dalla copertina sobria e quasi a lutto. “God & Guns” è il bastione dell’America conservatrice; l’America tutta, stavolta, non più la sola Confederazione: la Old Glory ha sostituito la Stars ‘n’ Bars, perché ormai “ci siamo dentro tutti, e noi che non ci adeguiamo siamo tutti rebels“, eredi ideali dei sudisti in giubba grigia di un secolo e mezzo fa. La psicogeografia all’apice delle sue possibilità.
Musicalmente siamo dalle parti di un detonante hard rock sporcato qui e là da aromi sudisti, con i toni riflessivi di un paio di ballate e l’occasionale incursione in territori country; un rito a cui i redivivi Lynyrd Skynyrd ci hanno progressivamente abituati, peraltro con risultati non disprezzabili e in alcuni casi addirittura all’altezza del passato. Ma, come forse a questo punto si è intuito, è l’aspetto lirico la parte saliente. Sotto questo profilo, si potrebbe individuare l’ossatura del disco in quattro brani-simbolo, non a caso disposti in sequenza ma fra loro separati da altre canzoni di ambientazione più canonicamente rock ‘n’ roll, per disinnescarne e al tempo stesso riaffermarne il messaggio politico e la dichiarazione di intenti verso un’America divenuta ad un tratto irriconoscibile.
“Simple Life” è un manifesto delle piccole cose che però contano e danno senso alla vita, il grido – metaforico, udite le atmosfere sonore allegre e sostenute – che “si stava meglio quando si stava peggio”, e a noi il nostro peggio non ci andava poi tanto male. Discorso ripreso, due brani dopo, da “Southern Ways”: al diavolo la California e le sue lusinghe di strade lastricate d’oro; riportami laggiù al Sud, dove scorre il Saint Johns, dove i pini crescono alti e la brezza mi accarezza il volto.
Ma lo stacco netto arriva dopo, e infatti ci vogliono tre brani di preparazione prima di “That Ain’t My America”: chitarre da orizzonti ampi, crescendo che sfocia in un ritornello da cantare ondeggiando le braccia in aria e testo che deflagra fin dal titolo, perché quando Johnny intona “That ain’t my America/ that ain’t this country’s roots” si capisce benissimo cosa intende con quel that. Come pure, poco oltre, chi è quel you a cui vuole impedire di stroncare il vecchio Zio Sam: la prima potenza mondiale non può permettersi “ragazzi che non possono pregare a scuola e pieni di benzina da cento dollari”; sappiatevi regolare, lassù a Washington.
L’apoteosi è la traccia che porta il nome del disco, decima nell’ordine ma idealmente in vetta. Una stoccata al Grand Ol’ Party, che si è perso in ciarle e ha permesso questo scempio: gente che parla di portarci via Dio e le armi, nientemeno che l’autentica sul nostro contratto sociale; gente che non è mai stata qui da noi, sul bordo della foresta, “where God is great and guns are good“, e che pensa l’esatto contrario e quindi è evidente che non ne sa nulla; gente che non può capire la nostra insicurezza, perché prima dormivamo con le porte aperte e adesso non possiamo che ringraziare Iddio per la Colt. La rabbia cresce, e con lei i toni: dagli echi roots dei primi minuti si passa a un riffone dall’incedere minaccioso come un calibro 38 Special.
“God & Guns” è il disco che più e meglio racconta l’America conservatrice all’indomani della sbornia bushista, alla presa d’atto che il mondo è cambiato – perché questo fa, il mondo: cambia – e che bisogna cambiare con lui. Proprio per questo motivo la sua importanza trascende l’aspetto strettamente musicale (pure significativo, visto che l’album è stato da più parti acclamato come la migliore opera dei nuovi Lynyrd Skynyrd) per assumere quella di un cahier de doléances, un pamphlet a cento watt per manifestare un radicale dissenso verso la nuova piega degli eventi. Un “anche se tutti, noi no“, se proprio vogliamo trovargli un paragone di area in lingua italiana.
Noi, però, siamo qui per la musica, e quindi ci accontentiamo di goderci un signor album fatto di rock solido, antico e saldo nelle radici. Come l’ulivo, il simbolo della pace.