Era il 2000 o giù di lì. Mi trovavo all’aeroporto “Marco Polo”, diretto all’estero. Non ricordo dove andavo, ma senz’altro la durata del viaggio era abbastanza lunga per annoiarsi. Ho quindi pensato di munirmi di una qualche forma di intrattenimento e, rovistando nell’ultimo negozio utile prima di imbarcarmi, un’edicola, mi sono imbattuto nel più recente numero di “Jam”, storica rivista musicale (oggi estinta). La copertina, su cui troneggiava Eddie Vedder, prometteva ampie ricapitolazioni del making of di “Binaural”, l’al tempo nuovissimo album dei Pearl Jam. Non ero, né sono, particolarmente devoto alla band di Seattle, ma, vista l’alternativa, e cioè nulla leggere durante il volo, ho agguantato la copia in questione e l’ho portata alla cassa, convinto che, quantomeno, avrei scoperto qualcosa di nuovo. Infatti.
Sprovveduto ed inesperto adolescente, non mi ero avveduto di uno speciale sulla scena neo-swing contenuto nella rivista suddetta. E forse non a caso; provate a mettervi nei panni di un quindicenne che vuole rockare e rollare al suono di possenti chitarre e batterie di tuono: perché mai costui dovrebbe essere a conoscenza anche solo dell’esistenza di una musica chiamata swing? Converrete che è improbabile; e infatti ne ero all’oscuro, o quasi. Nondimeno quello speciale (per il quale non ringrazierò mai abbastanza Jam; anche se, a onor del vero, non ne ho mai più comprata una copia…) mi ha aperto un mondo sonoro, nel quale mi sono inserito con la curiosità e l’entusiasmo del neofita, ricavandone ampie soddisfazioni. Ma procediamo con metodo.
Il movimento neo-swing nasce in California a inizio anni Novanta. “Dove altro poteva nascere?”, direte voi; e invece è curioso, perché dello swing originale, quello che conquistò l’America prima e il mondo poi negli anni Trenta e Quaranta, il Golden State fu tutt’altro che un epicentro, ruolo che spettò piuttosto a New York e Kansas City. La curiosità, poi, raddoppia se si considera il periodo storico di fioritura del movimento: nella California del lustro 1989-1994, infatti, si agitano ben altre forze creative, principalmente di area rock alternativo e crossover (Jane’s Addiction, Red Hot Chili Peppers, Rage Against The Machine, Stone Temple Pilots eccetera), e il grunge qui viene a capitalizzare sforzi elaborati più di mille miglia a settentrione. Sembra strano che ci sia spazio per un revival del più danzereccio stile jazz, e invece nella terra delle opportunità incastonata tra la Sierra Nevada, il deserto del Mojave, l’Oceano Pacifico e la foresta di Mendocino anche, e forse soprattutto, l’imponderabile accade; accade, infatti, che dei giovani cresciuti nel circuito punk, specialmente della California meridionale, decidano di abbassare distorsioni e grida in favore di ottoni e contrabbassi. Ma il germe del rock ‘n’ roll li ha ormai infettati, e il recupero del patrimonio swing non può quindi prescindere dalla gioiosa caoticità dei loro trascorsi musicali: ecco allora ibridi nuovi, che saltabeccano da un genere all’altro prendendo da ognuno secondo necessità. Troviamo, perciò, a convivere strettamente, ma armoniosamente, ritmi ondeggianti (swinganti, appunto) da fare invidia a Louie Bellson e infuocati assoli di chitarra che paiono opera di Cliff Gallup sotto anfetamine, lubriche trombe con sordina che promettono nottate indimenticabili e pianoforti messi a dura prova da un boogie rollato alla massima velocità. Con il debito complemento estetico: via jeans strappati, Converse All Star, camicie a quadri, creste, dreadlocks, prozac, eroina; dentro zoot suits, scarpe bicolori, Fedora a tesa larga, cravatte sgargianti, sigari Havana, cocktail Martini (che si indovinano mescolati, non agitati). Idea vagheggiata da pochi sulle prime, ma diffusasi rapidamente a macchia d’olio ed evolutasi presto in vero e proprio movimento, battezzato neo-swing. Un po’ frettolosamente, forse, perché le proposte si presentavano sufficientemente variegate fra loro: i Cherry Poppin’ Daddies univano swing e ska-core, senza dimenticare per strada il pop più immediato; gli Squirrel Nut Zippers si dilettavano sì di swing, ma sempre con un occhio al mondo alternativo e alla sua selva di stili; la Royal Crown Revue riproponeva una versione a basso numero di ottano del più classico jump blues di Louis Prima; la Brian Setzer Orchestra serviva un cocktail a base di rockabilly (del cui revival il bandleader è il conclamato maestro) swing e boogie. E tra i primattori c’era anche un certo settetto della Los Angeles metropolitana, che prendeva il nome da una definizione coniata dal bluesman Albert Collins per il leader Scotty Morris: Big Bad Voodoo Daddy.
Nati alla fine degli anni Ottanta dalla comunione di intenti di un cantante-chitarrista e un batterista con trascorsi punk, i Big Bad Voodoo Daddy hanno presto trovato la propria dimensione ideale come versione ridotta della classica big band dell’epoca d’oro dello swing, secondo quanto aveva già sperimentato Count Basie negli anni Sessanta con i suoi Kansas City 7: chitarra (e voce), contrabbasso, batteria, pianoforte, una tromba e due sassofoni (con l’occasionale aggiunta di un trombone). E i riscontri sono stati intensi in relativamente poco tempo, portando il gruppo dall’autogestita Big Bad Records, con cui avevano dato alle stampe l’album omonimo (1994) e la raccolta natalizia “Watchu’ Want For Christmas?” (1995), al cameo nel film “Swingers”, con partecipazione alla relativa colonna sonora (1996), fino alla firma per la major Interscope. È ormai arrivato il 1998 quando, forti dell’appoggio di una grande etichetta e consapevoli dell’apice della visibilità che il movimento a cui appartengono sta vivendo (la Brian Setzer Orchestra spopola in televisione con la cover di Jump, Jive An’ Wail di Louis Prima, posta di sottofondo ad uno spot della Gap), i Big Bad Voodoo Daddy se ne escono con il loro capolavoro, nonché uno dei migliori (si potrebbe persino azzardare “il migliore”) dischi swing dopo la quiescenza, lavorativa o cimiteriale che sia, dei padri fondatori del genere: “Americana Deluxe”, chiamato anche “Big Bad Voodoo Daddy”, stante l’assenza di indicazioni del titolo effettivo sulla copertina.
L’album si apre con brusio di chiacchiericcio e tintinnio di bicchieri: è un inequivocabile segnale che sarà una festa, che qui si viene per ballare e scatenarsi, per divertirsi e stare bene. E infatti le danze si aprono subito con uno strumentale a base di walking bass, fiati a briglie sciolte e un piano che più boogie non si può. Così, giusto per presentare la ghenga dopo lo “alright boys, come on!” di rito. Sono passati neanche dieci minuti e siamo già sudati (perché, diciamocelo, è letteralmente impossibile stare fermi quando The Boogie Bumper fa irruzione) ma non c’è tregua, perché il mood swing di Mr. Pinstripe Suit ci cattura senza alcuno sforzo, trasportandoci immediatamente nel mondo sfavillante in cui si muove il protagonista, popolato di cats dalla parlantina brillante (e brillantina parlante) inguainati in gessati impeccabili, le mani occupate da cocktail e sigarette d’importazione. E poi ancora la programmatica King Of Swing, che si snoda tra stacchi, cori, accelerazioni e rallentamenti tutti da scoprire; il doveroso inchino alla tradizione di Minnie The Moocher, resa con piglio ancor più notturno e fumoso dell’ormai classica versione che si ascolta su “The Blues Brothers” (a mio parere tuttora insuperata; per inciso, il pezzo di Cab Calloway è l’unica cover qui in scaletta, segno della volontà dei Big Bad Voodoo Daddy di valorizzare la tradizione senza, però, farsene opprimere); lo sfrenato baccanale di You And Me And The Bottle Makes 3 Tonight (Baby), uno dei più efficaci inviti alla danza mai formulati; le marezzature shuffle di Jump With My Baby, affumicate a dovere dal fraseggio jazzistico della chitarra; la languida cappa di fumo stile Cotton Club di Maddest Kind Of Love; la sinuosa procacità di Mambo Swing, sin troppo agevolmente collocabile nella categoria “un nome, un programma”. Fino ai saluti finali di So Long-Farewell-Goodbye, metaforici fuochi d’artificio a sancire la conclusione di un party indimenticabile. Riuscito anche per via di una produzione perfetta, definita ma mirabile nel far convivere le esigenze di minuziosa definizione del jazz con la necessaria intensità sonora richiesta dai dischi destinati al pubblico generalista del rock e del pop. Un trionfo sotto tutti i punti di vista.
Successo immediato, Americana Deluxe assicura al gruppo un posto nella prima linea del movimento neo-swing e lo porta a suonare nientemeno che al concerto di metà tempo del XXXIII Super Bowl, autentica istituzione americana e privilegio concesso solo ai più famosi artisti (ricordo, per inciso, che lo slot pubblicitario televisivo più costoso al mondo è proprio quello durante l’intervallo della finale della N.F.L.): è l’apice, per la band e il movimento insieme; col nuovo millennio, infatti, la formula comincia a mostrare la corda e le luci della ribalta si spostano altrove abbastanza speditamente. Dal canto loro, i Big Bad Voodoo Daddy sopravvivono egregiamente per un po’, ripetendo il connubio swing-football al Capital One Bowl 2006 (finale del campionato universitario) e diventando la house band di un programma della rete sportiva ESPN; dopo, solo concerti in giro per gli U.S.A., comparsate televisive e qualche raro disco, accolto con indifferenza. Lo swing è ormai tornato ad essere yesterday’s news.
A conti fatti, di quel gioioso lustro e mezzo, ricompreso tra il 1994 e il 2000, in cui una rilevante fetta del pubblico americano giocò a riportare le lancette indietro di sessant’anni restano pochi capisaldi discografici che hanno resistito al trascorrere del tempo. Tra questi Americana Deluxe (nome azzeccatissimo, se riguardato dal punto di vista del contenuto) va senz’altro contato. E va comunque ascoltato, a prescindere da catalogazioni critico-stilistiche, perché da esso si sprigionano un suono e un’estetica che sono la quintessenza della coolness, e i suoi neanche cinquantacinque minuti costituiscono un eccellente modo, esaltante ed elegante insieme,
di riempirsi le orecchie e l’animo di gioia di vivere, espellendo nel contempo le tossine, corporee e mentali, che ci fanno vivere male. Il meglio che si possa chiedere alla musica, nientemeno. E adesso scusate ma mi chiamano in pista. Anzi, unitevi anche voi!