Con cadenza tuttora quotidiana la stampa generalista continua a trattare di David Bowie, a dimostrazione che la sua figura e il suo lascito, e la fama che entrambi hanno assunto, trascendono i confini pure non particolarmente angusti del rock per assumere una rilevanza per così dire universale, in grado di toccare ed influenzare anche coloro che non nutrono un particolare interesse nella musica popolare. A volte, però, gli omaggi e le commemorazioni giungono da commentatori, o da sedi di commento, talmente distanti dalla materia da far sospettare della sincerità dell’intervento, adombrandolo, piuttosto, del sospetto di opportunismo coccodrillesco. Ebbene, non mi unirò al coro preficeo e rivelerò da subito che di David Bowie non mi è mai importato nulla: troppo “strana” ed istrionica la sua proposta per intersecare i miei gusti. E infatti non posseggo, né ho mai posseduto, alcuno dei suoi dischi. Ciò, tuttavia, non mi impedisce di riconoscere la grandezza artistica dell’uomo e, dunque, di lamentarne – sia pure solo per motivi “umanistici” – la perdita. Però intendo farlo in modo diverso da quanto mi è capitato di vedere in giro.
Molte etichette artistiche sono state appiccicate a David Bowie nel corso della sua quasi cinquantennale carriera, ma l’unica che veramente gli è rimasta addosso sin dal primo utilizzo è quella di “glam”. Nulla, infatti, delle opere di Bowie è estraneo a quel senso di vistosa drammaticità capace di catturare ed amplificare la fantasia del grande pubblico: non i costumi, non i personaggi (l’alieno Ziggy Stardust, il Duca Bianco), non le cangianti proposte musicali. Ora, “glam” è senz’altro un approccio alla vita e all’arte, ma, nello specifico, è anche un filone musicale ben definito, una corrente evolutiva del rock che nasce nell’Inghilterra di inizio anni Settanta e giunge a riconoscimento internazionale (soprattutto in Europa; negli Stati Uniti il glam, ancorché accettato dal mainstream, verrà sempre visto come una perversione tipicamente British e spiegherà limitata influenza) nel periodo compreso tra il 1972 e il 1975, presto declinando in favore di altre e più dirompenti novità, in primis il punk. Del glam (rock) Bowie fu uno dei più rilevanti esponenti, assumendo le vesti dell’alieno Ziggy Stardust che, caduto sulla Terra, guida gli Spiders from Mars in un’intensa avventura musicale, fino alla morte ed alla rinascita sotto altre spoglie. Ma il genere non si esaurì nel sofisticato pastiche del nostro uomo (fatto di un rock giocato su più livelli, musicale ma anche teatrale, sospeso tra cantato e recitativo, tra impennate elettriche e acustica languidità, tra sobrietà intimistica e pomposità orchestrale), intersecando anche il revival del primigenio rock ‘n’ roll anni Cinquanta, che proprio in quel periodo si agitava con intensità (al di là della Manica e non solo: pensate ad “Happy Days” e “American Graffiti”), e la sua filiazione meno filologica e più adrenalinica, quel pub rock (fenomeno quintessenzialmente inglese) che fu fuoco di paglia e tuttavia in grado di accendere la miccia punk. Così, del glam emerse anche una versione più essenziale ed eccitante, tipicamente festaiola ed infatti spesso sguaiata, fatta di pochi power chord e di ritmi trascinanti e danzerecci, con frequente uso di cori e battiti di mani per incentivare la partecipazione del pubblico. E, paradossalmente (o forse no, vista la non indifferente dose di cattivo gusto che lo permeava), fu proprio questo filone più “quadrato” e simil-hard (nella proposta musicale, ma a volte anche nei contenuti) ad esercitare maggiore influenza, colpendo l’immaginario di taluni adolescenti, sia inglesi sia americani, che nel decennio successivo punteranno con decisione sul binomio glam look–hard sound, traendone ingenti soddisfazioni commerciali ed inventando quello che tuttora si definisce “glam metal”.
Ovviamente, l’approccio vistoso e over the top alla musica e all’immagine (indimenticabili le zeppe maschili e lo scialo di lustrini) non poteva non investire anche la vita stessa dei musicisti, spesso conducendoli a cadute tanto più rovinose quanto più alta era la notorietà raggiunta (la condanna per pedofilia di Gary Glitter, ad esempio). Ma, al netto dei trascorsi personali, la parabola del glam è ormai stata acquisita dalla storiografia rock come un passaggio di transizione, con specifiche e quasi invalicabili coordinate spazio-temporali (come detto, l’Inghilterra della prima metà dei Settanta) e un’eredità sostanzialmente nulla o, al più, apocrifa. In effetti, del glam “sofisticato” di Bowie oggi non rimane rilevante traccia nel rock: esso è, per così dire, “un’aura” che pervade, spesso in forma immanente, il mondo del pop in senso lato, ma senza pedisseque rivisitazioni spacciate per farina del proprio sacco, le quali, del resto, l’unicità della proposta e la caratura istrionica dei proponenti (Bowie, ma anche Marc Bolan e Freddie Mercury) non consentono. L’onda lunga del glam “brutale” è, invece, ben presente nelle sonorità contemporanee, come testimoniano una rimpatriata goliardica ma riuscita come i Down ‘N’ Outz, il successo dei nostri connazionali Giuda e un certo movimento internazionale a livello underground (da segnalare i comaschi Faz Waltz, autori di quattro ottimi dischi); segno che, nell’approccio revivalistico della nostra epoca, persino un filone sonoro apparentemente esaurito in via definitiva può essere fonte di ispirazione e di ripresa o, nel migliore dei casi, di aggiornamento.
E dunque, per omaggiare Bowie (indirettamente; e in questo, mi pare, risiede la diversità di approccio rispetto agli attuali agiografi), tento di riassumere le coordinate stilistiche del genere musicale che lo assurse definitivamente a superstar indicando quindici album di glam rock, tutti incastonati nel periodo aureo 1972-1975. Sono consapevole che questo stile musicale ha dato il meglio di sé a 45 giri, e, dunque, in molti dei casi citati un’antologia ben compilata sarebbe preferibile ad uno specifico LP, ma la scelta di album veri e propri risulta maggiormente funzionale alla ricostruzione dello spirito del tempo. E quindi va così: quindici album di glam anni Settanta. Fatene buon uso; magari carnascialesco, come or ora si conviene.
DAVID BOWIE – THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST AND THE SPIDERS FROM MARS (1972)

Idealmente in apertura della stagione glam, questo all time classic del rock è zeppo di pietre miliari, i cui titoli sono noti a chiunque ed ormai nientemeno che leggendari: la marcetta di Starman, le chitarre ora minacciose ora elegiache di Moonage Daydream, l’epopea della title-track, il rock ‘n’ roll discinto di Suffragette City. E poi Rock ‘n’ Roll Suicide, il blues trasfigurato di It Ain’t Easy, il riff swingante di Hang On To Yourself che fa da raccordo tra Eddie Cochran (Summertime Blues) e i Sex Pistols (God Save The Queen). Il tutto rilegato da una produzione impeccabile, grezza quanto basta per tenere viva la fiamma rock ‘n’ roll ma di rara precisione e mai melensa. Un album, beh, perfetto.
ROXY MUSIC – ROXY MUSIC (1972)

Probabilmente i Roxy Music rappresentano un caso a sé nel panorama musicale degli anni Settanta, ma è impossibile non considerarli parte della coeva temperie glamorous. La voce sensuale ma un po’ distaccata di Bryan Ferry, le sperimentazioni di Brian Eno e la chitarra ora spinta ora pennellata di Phil Manzanera, unitamente ad un look originale ed avanguardistico, contribuiscono a creare un modello a cui successivamente attingeranno in molti, dai “new romantics” ai Talking Heads, dai Tears For Fears allo stesso Bowie. Con questo primo LP, uno dei due con Eno, i Roxy Music contribuiscono allo sviluppo della vicenda glam (e la frequentazione, ancorché effimera, darà ottimi frutti) muovendo dagli aspetti più artistoidi del rock dei Sixties (i Velvet Undrground, ad esempio) e spostando ulteriormente i confini di raffinatezza, ricerca ed accessibilità del rock. Un vero e proprio capolavoro, al pari del seguente “For Your Pleasure”, al quale viene qui preferito per la maggiore portata innovativa derivante dall’essere un debutto.
T.REX – ELECTRIC WARRIOR (1972)
Nato dai travagli di un Bolan che si gioca l’ultima possibilità per fama e carriera dopo i fallimentari inizi come cantautore acustico, “Electric Warrior” finisce per diventare uno dei più importanti dischi di tutti gli anni Settanta. Merito di un suono che fonde alla perfezione melodie beatlesiane, eccitazione rock ‘n’ roll e suggestioni psichedeliche, partorito da un gruppo impeccabile (ai cori Howard Kaylan e Mark Volman, già forza creativa trainante dei Turtles e meglio noti come Flo & Eddie) guidato da un “punk cosmico” dalla voce insieme pericolosa ed ammaliante e in stato di grazia compositiva. Difficile ascoltare pezzi come Jeepster, Get It On o The Motivator restando indifferenti; restando fermi è semplicemente impossibile. Preferibile la ristampa in CD, che include anche i lati A e B dei singoli d’epoca, tra cui le eccellenti e imperdibili There Was A Time/Raw Ramp e Hot Love.
GARY GLITTER – GLITTER (1972)
Le recenti vicende giudiziarie (condanna per pedofilia e violenza sessuale su minori, con detenzione tuttora in corso) hanno definitivamente offuscato la stella di Paul Francis Gadd, in arte Gary Glitter, una delle più, beh, rilucenti del firmamento glam. Dopo un inizio carriera nel sottobosco della Swingin’ London (constano contatti con George Martin prima della sua avventura coi Fab Four), nel 1971 il nostro uomo, forte di un’immagine debordante (si dice possedesse oltre cinquanta paia di stivali e una trentina di tute con i lustrini) sale in cima alle classifiche britanniche con Rock ‘n’ Roll, una danzereccia jam divisa in due parti (una cantata, l’altra strumentale) che negli Stati Uniti diviene subito, e tuttora rimane, una delle più famose colonne sonore degli eventi sportivi. Naturale sbocco è il primo LP “Glitter”, che affianca ai due Rock ‘n’ Roll una mistura di originali e riletture di tradizionali del rock ‘n’ roll anni Cinquanta. Il risultato è un irresistibile compendio del glam ridotto ai suoi elementi essenziali: battiti di mani contagiosi, batteria potente, un riff di chitarra sporco e linee vocali che chiunque può cantare in coro (così la AllMusic Guide; di mio ci aggiungo solo un sassofono insidiosamente sornione). Robert Christgau liquidò l’album come “unreconstructed rock and roll revivalism of the most reactionary sort“, individuando con perfezione le ragioni del suo successo.
MOTT THE HOOPLE – ALL THE YOUNG DUDES (1972)

A guardare la qualità complessiva, sarebbe stato più giusto includere il successivo “Mott”, o magari l’ancora seguente “The Hoople”, ma, visto lo spirito celebrativo dell’operazione, la scelta deve necessariamente cadere sul titolo più famoso e rappresentativo del quintetto, il proverbiale fulmine a ciel sereno (quasi nella Top 20 inglese l’album, al numero 3 dei singoli il brano che lo intitola) in una carriera altrimenti avara di riconoscimenti. E infatti nel 1972, dopo quattro LP in tre anni, i Mott The Hoople erano sull’orlo dello scioglimento, quando David Bowie li prese sotto la sua ala protettiva, spingendoli ad abbracciare un’immagine più vistosa e donando loro una canzone appena scritta, una ballata rock dal respiro dylaniano e dall’afflato corale, con un testo in odore di omosessualità, intitolata, appunto, All The Young Dudes. I risultati, come detto, giunsero e copiosi, e non solo per merito dell’acclamato singolo: la rilettura di Sweet Jane dei Velvet Underground (altra idea di Bowie) convince forse anche più della versione di Lou Reed su “Rock ‘n’ Roll Animal”, Momma’s Little Jewel è stuzzicante quanto basta, Sucker e Ready For Love/After Lights anticipano l’hard radiofonico dei Bad Company (non a caso questo disco sarà l’ultima partecipazione del chitarrista Mick Ralphs) e, in generale, la vena autoriale di Ian Hunter, ottimamente servita dalla produzione di Bowie, è all’apice. Un classico, né più né meno.
SLADE – SLAYED? (1972)

Principali artefici dell’usanza glam di storpiare i titoli delle canzoni con omofoni, gli Slade rappresentano una delle anime più caciarone del movimento, sia dal punto di vista estetico (il loro look ricorda più dei proletari tirati a lucido per il sabato sera in centro che l’efebica sofisticatezza di un David Bowie) che da quello musicale, la loro proposta componendosi di brani essenziali, flagellati da chitarre distorte ai limiti dell’hard rock, ritmicamente mai troppo discosti dalla ballabilità del boogie e incentrati sui ritornelli a presa rapida scanditi dalla voce sguaiata del leader Noddy Holder. Questo primo LP riassume al meglio le coordinate stilistiche dell’intera produzione del gruppo ed è forse quanto di più influente ha prodotto il lato più festaiolo del glam. Se proprio si vuole rilevarne una pecca, è l’assenza di un singolo “definitivo” come sarà, invece, Cum On Feel The Noize, che farà scoprire ai Quiet Riot di avere una carriera (da notare che il secondo album del gruppo americano tenterà la stessa via per il successo di “Metal Health” rileggendo ancora gli Slade, stavolta Mama Weer All Crazee Now, che si trova proprio su “Slayed?”).
THE SENSATIONAL ALEX HARVEY BAND – FRAMED (1972)
Seriamente impressionato dalla morte sul palco del fratellino Leslie “Les”, chitarrista dei promettenti Stone The Crows, nel 1972 Alex Harvey decide di rompere un ritiro dalle scene ormai biennale e di porsi a capo di una nuova band, marcando così il distacco dalla precedente esperienza solistica (che lo aveva visto anche partecipare al musical “Hair”). Recluta perciò il chitarrista Zal Cleminson, il bassista Chris Glenn e i cugini McKenna, Hugh (tastiere) ed Eddie (batteria), collettivamente già noti come Tear Gas e privi di prospettive, e forma la Sensational Alex Harvey Band, facendo leva sulla fama già acquisita in proprio. Il nostro uomo sopravanza di quasi quindici anni i musicisti prescelti, ma questo non impedisce un’immediata sintonia tra il quintetto, che si orienta verso un rock derivato dall’indurimento del blues ma altrettanto colmo della teatralità che è cifra indefettibile del leader, sul palco e in studio. E il primo album, uscito nel ’73, mostra una riuscita fusione di queste tendenze, disegnando una tela composita, dove trovano spazio puro hard blues (la rilettura del classico I Just Want To Make Love To You sembrano gli AC/DC griffati Stax, e St. Anthony ha ben poco dell’inno religioso) e ballate folk non prive di mordente (Hammer Song), episodi di cabaret ai limiti del pacchiano (There’s No Lights On The Christmas Tree, Mother They’re Burning Big Louie Tonight) e cangianti suite prog-glam (Isobel Gaudie), per un risultato di subitanea godibilità. Gli altri LP (specialmente il successivo “Next”) si manterranno su simili livelli qualitativi, ma i galloni di “Sensazionale” la banda Harvey se li è guadagnati qui.
SUZI QUATRO – SUZI QUATRO (1973)

Figlia di madre ungherese e di padre italoamericano, Suzan Kay Quatro nasce a Detroit nel 1950 e, assistita da una prassi familiare di frequentazione musicale, muove i primi passi artistici nella elettrizzante scena della Motor City di metà anni Sessanta, e infatti non ha che quattordici anni quando si unisce (come bassista e cantante; ruolo che conserverà per tutta la carriera) alla teen band garagista Pleasure Seekers, formata dalle sorelle maggiori, per tentare la scalata al successo. Ma l’ambiente duro della città natale ne ha già formato il carattere in senso incompromissorio, dando anche corpo a cospicue ambizioni musicali, e così nel 1971 Suzi si trasferisce in Inghilterra per perseguire un suono rock più vivo e pulsante senza dover scendere ai compromessi richiesti dal mainstream ad una aspirante rocker di bella presenza. “A modo mio” è il mantra della nostra, e infatti, tempo un paio d’anni, messasi a capo di un quartetto che porta il suo nome (gli altri tre sono tutti uomini), debutta con un esplosivo album omonimo, che, partendo dai Fifties, passando per gli Stones e lambendo l’hard rock , non si fa trovare impreparato per il treno glam, al quale aggiunge un solido vagone, più sonoro che visivo: l’immagine è decisamente poco glamorous, basandosi piuttosto sul classico denim & leather, ma la vera innovazione è il ruolo di Suzi Quatro, ovvero la dimostrazione che le donne possono essere protagoniste del rock senza per forza scimmiottare i modelli maschili, ed anzi superandoli sul loro stesso terreno d’elezione (quello della “durezza”, sia visiva sia sonora). Una lezione che praticamente tutte le successive women in rock (da Joan Jett a Gaye Advert, da Lita Ford a Wendy O. Williams, dalle Girlschool a Dawn Crosby) non scorderanno. Come questo disco.
QUEEN – QUEEN (1973)

Impossibile aggiungere qualcosa di nuovo e/o sagace su una delle vicende più mitizzate ed analizzate della storia della musica pop, e infatti nemmeno ci provo. Mi limito ad osservare che gli albori discografici trovano la Regina perfettamente calata nello Zeitgeist musicale, a suo agio con la mistura di rock duro ed ampollose aperture teatrali tipica dell’Inghilterra del tempo. Merito di un incontro tra talenti non comuni, in primis quello straripante di Freddie Mercury, che, viste le premesse, non poteva non imporsi come qualcosa di più grande della somma delle sue parti (giudizio talmente diffuso da consentire a May, Deacon e Taylor di mungere l’ubertosa sigla ancora oggi, a venticinque anni dalla “abdicazione”). Questo debutto vede i Queen indulgere su riff pesanti e prettamente hard rock (un titolo su tutti: Son And Daughter), anche se filtrano già sprazzi del cesello sonoro e della versatilità stilistica che costituiranno la cifra peculiare del gruppo e che lo porteranno nel pantheon della musica novecentesca. Disco spesso sottovalutato (anche più del successivo, e maggiormente proteiforme, “Queen II”), e ingiustamente, soprattutto in sede di ricostruzione del suono glam inglese.
MUD – MUD ROCK (1974)

I Mud costituiscono una sorta di trait d’union tra il glam più essenziale e festaiolo e il ritorno in auge del primigenio rock ‘n’ roll che proprio a metà anni Settanta si consumava con maggior vigore, e, nonostante una proposta di evidente immediatezza, sono rimasti un nome per addetti ai lavori, che mai ha raggiunto fama rilevante al di fuori d’Albione. Peccato, perché il primo album del quartetto londinese, pur non facendo mistero di intenzioni semplici e dionisiache, veicolate da brani essenziali e danzerecci, è una godibile sequela di rock ‘n’ roll dai ritornelli appiccicosi e dal beat coinvolgente, che si apre con un’ipotesi di Elvis che canta nei Kiss (Rocket, opera della coppia Mike Chapman-Nicky Chinn, i songwriter responsabili della maggior parte dei successi glam a 45 giri), prosegue con una rilettura corale e zuccherina di Do You Love Me (in cui è strano e difficile riconoscere la mano autoriale di Berry Gordy Jr., patron della Motown) e altri scarni shuffle dall’irresistibile drive ritmico (Hippy Hippy Shake, che rifaranno con successo anche i Georgia Satellites; il medley di classici Shake, Rattle and Roll/See You Later Alligator; persino un tentativo di aggiornare al glam l’immortale swing di In The Mood) e si chiude con una rilettura in tempo medio di Bye Bye Johnny di Chuck Berry, a ribadire da dove si viene e dove si va. Nulla di nuovo, ma l’energia profusa e l’atmosfera festosa (della quale fa parte anche la finta platea, che doveva far sembrare l’album un’incisione live) lo rendono una delle istantanee più godibili dell’era glam.
THE RUBETTES – WEAR IT’S AT (1974)

I Rubettes esemplificano alla perfezione il lato fatuo ed artificioso del glam. Il sestetto (due tastiere; e una regola non scritta del rock dice che un gruppo con due tastieristi non promette nulla di buono), infatti, fu creato a tavolino da Wayne Bickerton e Tony Waddington, autori e discografici della Polydor desiderosi di emulare il successo di altre realtà simili, e fu dagli stessi dotato di un’immagine vistosa ma vicina al Fifties revival, secondo i dettami della moda del tempo, nonché di un pacchetto di brani di sicuro effetto, tra i quali spicca Sugar Baby Love, midtempo balzellante dagli aromi doo-wop che finì al numero 1 delle classifiche inglesi nel gennaio 1974. L’album che la contiene, però, ha altre frecce al suo arco: un titolo spiritoso e volutamente sgrammaticato e undici brani rassicuranti e godibili, che incarnano il concetto di bubblegum music con estese armonie vocali, temi adolescenziali e melodie zuccherose, glam più nell’aspetto che nella sostanza (a meno che non si voglia individuare, peraltro plausibilmente, l’essenza del glam proprio nell’assenza di sostanza). Il successo, come detto, fu ingente, ma non bastò a soddisfare le pretese del gruppo, che nel 1976, dopo un ulteriore album fotocopia del debutto, tenterà di scuotersi di dosso la reputazione di leggerezza sposando temi scottanti (Under One Roof racconta di un omicidio familiare per ragioni omofobiche, e simili percorsi tematici batte The Killing Of Georgie di Rod Stewart, riletta per l’occasione) e scottandosene sino a bruciarsi: calo di pubblico, perdita del contratto discografico, mutamenti di formazione, scioglimento (nel 1979). Tanto basta per classificare i Rubettes come i Monkees del glam, e mi chiedo perché non ci abbia ancora pensato nessuno.
SWEET – DESOLATION BOULEVARD (versione U.S.A.) (1975)
Difficile orientarsi nella discografia di questi pionieri del glam, attivi già a metà degli anni Sessanta e titolari di singoli che uniscono l’impatto dell’hard rock e l’accessibilità del pop sin dal 1968. Infatti, l’esplosione del genere e i riscontri di cui godettero da ambo i lati dell’Atlantico, forse dovuti alla vena particolarmente dura del loro sound rispetto ai contemporanei inglesi, portò ad una duplicazione delle uscite sui mercati britannico e statunitense (per quest’ultimo, infatti, vennero creati LP ad hoc, contenenti i singoli di maggior successo e scalette talmente diverse dalle controparti europee, ove esistenti, da sconfinare nel pieno arbitrio compilativo) che non giova alla ricostruzione delle vicende musicali di Brian Connolly e compagni. Ma il glam, si sa, è una vicenda di apparenze, e allora meglio puntare direttamente sul bagliore più acceso, e dunque su quel “Desolation Boulevard” che, mantenendo alto il profilo del quartetto, nel novembre 1975 (ad un anno esatto dalla pubblicazione della versione europea) sancì la domiciliazione degli Sweet nel Nuovo Continente. Merito di un lavoro che ha la caratura del classico, e se una non piccola parte di questo giudizio spetta all’inclusione in apertura di Ballroom Blitz, singolo spaccaclassifiche dall’andamento irresistibilmente sculettante, anche il resto non sfigura: The 6-Teens scimmiotta convincentemente Ziggy Stardust, A.C.D.C. fa il boogie appiccicoso anziché elettrico, Sweet F.A. incrocia Black Sabbath e primi Queen, Fox On The Run è un hit a base di rock duro ma procace, che spiega al meglio da dove viene (musicalmente, ma non solo) molto del glam metal anni Ottanta. Non per nulla in copertina c’è il Sunset Strip.
SHOWADDYWADDY – STEP TWO (1975)

Quello degli Showaddywaddy è un caso paradigmatico per documentare l’incrocio tra la parabola del glam e quella del revival del rock ‘n’ roll. Il gruppo, infatti, nasceva (a Leicester, nel 1973) per riprodurre l’eccitante sound degli anni Cinquanta, con originali ma spesso con rivisitazioni di classici maggiori e minori di quell’era. La contemporanea esplosione del movimento dei lustrini e delle zeppe, tuttavia, spinse l’ottetto (il gruppo, infatti, risulta dalla fusione di due distinte formazioni, incontratesi in occasione delle jam settimanali in un pub) ad abbracciare anche l’eccesso visivo tipico della moda del momento, con sgargianti completi monocromatici che rendevano la presenza sul palco un vero e proprio arcobaleno. Nessuna sorpresa musicale, dunque, nei dischi degli Showaddywaddy, anche se una gradazione qualitativa può comunque essere tentata, perché con il passare del tempo (il gruppo è tuttora attivo) l’energia esecutiva e la brillantezza di scrittura si attenuarono, rendendo monotona una proposta che già aveva le carte in regola per esserlo sin dai primordi (per fare un esempio: tutti gli LP della formazione assommano 12 canzoni, di cui 9 originali e 3 cover). Viene qui scelto il secondo album, di qualità sostanzialmente parificabile al debutto (uscito nel 1974), per marcare il passaggio dal periodo glam al revivalismo fine a se stesso, dettato anche dal calendario.
IAN HUNTER – IAN HUNTER (1975)

Lasciati i Mott The Hoople alla fine del 1974, il chitarrista e cantante Ian Hunter si trasferisce a New York per tentare la carriera solista, portando con sé un altro talentuoso transfuga di una formazione eccellente, Mick Ronson. I due si gettano a capofitto nella realizzazione di un nuovo disco, e nel 1975 “Ian Hunter” è nei negozi. E nella Top 20, grazie ad una chiave d’eccezione come Once Bitten, Twice Shy, andamento shuffle, testo sornione e ritornello corale che faranno perdere la testa a molti (ne sanno qualcosa i Great White). Ma in questo scrigno finemente decorato (su evidente ispirazione di Escher) i gioelli sono molti, e tutti assistiti dal connubio tra corpo e spirito, seduzione e umorismo, rock ‘n’ roll (The Truth, The Whole Truth, Nuthin’ But The Truth; Shades Off) e riflessione (Boy; It Ain’t Easy When You Fall), nonché da una produzione impeccabile, con cui Ronson riesce a coniugare essenzialità strumentistica (praticamente tutti i pezzi si reggono sul quartetto chitarra-basso-batteria-pianoforte) e ricchezza sonora, grazie ad arrangiamenti ben congegnati senza essere ridondanti. Il risultato è un disco di rock insieme trascinante e pensante, che segna la maturità di Hunter e congeda con un inchino il glam più sofisticato. Il Duca non abita più qui.
HELLO – KEEPS US OFF THE STREETS (1976)

Visti in copertina sembrano tutto fuorché un gruppo glam, gli Hello: jeans strappati, gilet, stivali. E però il sound del quartetto londinese, formatosi nel 1971 e divenuto una delle sensazioni più acclamate nei club grazie a trascinanti esibizioni dal vivo, racchiude la quintessenza di questo stile musicale: temi edonistici e/o di evasione, richiami al rock ‘n’ roll tradizionale (paradigmatica la cover di Carol di Chuck Berry) con gli accorgimenti dei tempi nuovi (in primis i battiti di mani ritmici, vero e proprio marchio di fabbrica del glam), intenti di intrattenimento corale tanto semplicistico quanto autentico. Il debutto a trentatrè giri degli Hello giunse dopo un paio di singoli di limitato successo e anni di gavetta concertistica (prima, ma soprattutto dopo le prime incisioni), ma non è chiaro, specialmente col senno di poi, quali speranze esattamente nutrisse la casa discografica nei confronti di questa formazione: nel 1976 il glam era ormai al tramonto, costretto dai tempi nuovi ad alzare i volumi sino a confondersi con l’hard rock tout court e nel contempo cacciato dai riflettori dall’entrante punk, e infatti la performance commerciale di “Keeps Us Of The Streets” incarnò esattamente il titolo sotto cui circolava, mandando gli Hello fuori strada e determinandone lo scioglimento. Ma ciò non vale a mettere in discussione lo spessore dell’album come uno dei più fulgidi esempi di quel filone vistoso, disimpegnato e festaiolo del rock ‘n’ roll partorito dall’Inghilterra a metà anni Settanta, e valga dunque come una sorta di testamento del glam. In attesa della prossima festa.