
Persino la sterminata mole di informazioni che è la Rete resta laconica su “In Heat”: basti, a conferma, una ricerca di recensioni del suddetto in una qualunque delle maggiori lingue di matrice europea. Risultato: nulla o quasi. Nemmeno la versione “.com” del maggior portale di vendita online, solitamente prodiga di commenti dei consusers (che, per inciso, sono petalosi forte), offre alcunché. Rimane qualche blog specializzato, tra i quali spicca per esaustività quello del Reverendo Lys. Ma per il resto sembra essere calato un oblio pressoché totale sul secondo LP dei Fuzztones, liquidato dalla maggior parte dei (pochi) commentatori come un incidente di percorso, un figlio deforme. Definizione che mi appare sbrigativa ed ingenerosa, ed eccomi quindi lanciato nel tentativo di riequilibrare la vulgata su questo Quasimodo musicale.
Per chi non lo sapesse, i Fuzztones sono uno dei principali gruppi (e senz’altro il più famoso) di quel revival garage che negli anni Ottanta riportò in auge i più selvatici suoni dei Sixties. Anzi, fu proprio il suono intossicato di fuzz delle chitarre così tipico del genere ad ispirare la ragione sociale della formazione. Indiscusso leader della quale è ed è sempre stato Rudi Protrudi, classe ’52, folgorato dal rock ‘n’ roll più selvatico nella prima adolescenza ed infatti attivo in complessini garage della natia Pennsylvania sin dall’epoca d’oro del genere. Poi, con l’arrivo dei Settanta e del punk, la creazione dei Tina Peel insieme alla fidanzata-tastierista Deb O’Nair, il trasferimento a New York, la fama di culto nel giro dei club, un EP e un singolo e infine, nel 1979, lo scioglimento. Ma già l’anno seguente il cantante/chitarrista/armonicista e la tastierista hanno creato i Fuzztones, la formazione che li renderà celebri, orientandosi da subito verso un rock psichedelico ed essenziale, tinteggiato lugubre e doomy mercé i suoni (quelli degli organi Vox e Farfisa, ognuno capace di produrre una specifica ed ineguagliabile miscela di zolfo e incenso) e il look (a base di cuoio nero ed ammennicoli orrorifici, ad esempio le collane fatte con pezzi di ossa) e dal vivo interpretato selvaggiamente come di prammatica. Ne vengono riscontri immediati del pubblico sotterraneo, una fama (nomea?) di culto (tanto da farli la backing band di una leggenda come Screamin’ Jay Hawkins in un’una tantum dal vivo poi pubblicata su 7″), un contratto con l’indipendente Midnight Records (nata proprio in quel periodo e da allora primattrice in ambito neo-Sixties) e un paio di pubblicazioni, l’EP dal vivo “Leave Your Mind At Home” (1984) e l’album “Lysergic Emanation” (1985), ottime ed acclamatissime istantanee della nascita di un movimento che si ripropone di riportare il rock ‘n’ roll alle sue radici essenziali, riprendendo spesso pedantemente una specifica fetta del passato, ma senza poter ignorare fino in fondo quanto accaduto medio tempore. I riscontri, come detto, sono notevoli, ancorché circoscritti ad una specifica sottoscena, ma i musicisti sono animali volubili, ed infatti la formazione (oltre a Rudi e Deb, il bassista Michael Jay, il chitarrista Elan Portnoy e il batterista Michael Phillips) si sfalda all’indomani del tour a supporto del primo LP: la tastierista e il chitarrista se ne vanno ognuno per la sua strada, e il batterista viene licenziato. Passano due anni, durante i quali Protrudi e Jay si trasferiscono a Los Angeles, dedicandosi alla ricerca di nuovi musicisti, e il primo acquisto, il batterista Mike Czekaj, consente loro di dare vita al trio di rock ‘n’ roll strumentale Link Protrudi & The Jaymen (il primo LP “Drive It Home!”, nato quasi per scherzo, è proprio del 1987). Su questa solida base la ristrutturazione dell’edificio Fuzztones può essere completata, ed infatti ad integrare l’organico arrivano poco dopo il chitarrista Jordan Tarlow (ex Outta Place) e il tastierista Jason Savall, in una comunione di intenti che nemmeno l’improvvisa defezione di Michael Jay, sostituito da John Carlucci, riesce a scalfire. Così ricompattato, il gruppo si getta nella scrittura di nuovo materiale e, complice la raccomandazione (anzi, no; la referenza) del leader dei Cult Ian Astbury, ottiene un contratto con la prestigiosa etichetta indipendente britannica Beggars Banquet, i cui prodotti sono distribuiti in America dalla potente major RCA. Da qui in poi il percorso dei Fuzztones sembrerebbe in discesa, ed invece è proprio qui che le cose si complicano.
La nuova etichetta non sa nulla della scena da cui provengono i Fuzztones, delle motivazioni che li spingono a riesumare il suono delle autorimesse di venti-venticinque anni prima e del significato di questa scelta stilistica. Né le interessa: per i discografici è unicamente una questione d’affari. Naturale, quindi, che, a fronte di una cospicua apertura di credito (il ricco contratto), quelli della Beggars Banquet vogliano vedere un ritorno economico dell’investimento; il quale, come noto, deriva solo da vendite oltre una certa soglia, ovviamente individuata in base all’accessibilità della singola proposta musicale. Si profila, perciò, un contrasto: da un lato Rudi Protrudi e i suoi, che cercano di replicare e magari potenziare il suono grezzo ed essenziale, tipicamente garage, che li ha fatti conoscere ed apprezzare su ambo i lati dell’Atlantico; dall’altro l’etichetta, che pretende di ottenere un prodotto commerciabile e, dal momento che vi ha investito del denaro, di decidere delle modalità della sua realizzazione. Ne nasce una querelle in merito alla qualità sonora ed alla immediata pubblicabilità dei demo che la band sottopone alla label: Rudi Protrudi intende continuare ad essere il produttore della sua creatura, mentre la casa discografica è risoluta nell’affidare i Fuzztones ad un esperto della sala di incisione. Alla fine la questione viene risolta con un compromesso: le cure sonore verranno prestate dal veterano Shel Talmy. Costui, nativo di Chicago e all’epoca cinquantenne, aveva frequentato gli studi di registrazione fin dalla metà degli anni Sessanta ed era assurto a meritata fama per avere prodotto i leggendari primi passi di gente come Who (“My Generation”), Kinks (i primi cinque LP) ed altri nomi dell’epoca di indubbia caratura, come gli australiani Easybeats (l’hit mondiale Friday On My Mind), i Pentangle e un certo Davy Jones, un solista inglese che emergerà con il nome di David Bowie. Del resto, il produttore risiede nuovamente negli Stati Uniti, dove si è ritrasferito da Londra a metà anni Settanta, e all’epoca ha appena concluso un ciclo da imprenditore informatico, per cui la chiamata dei Fuzztones arriva al momento giusto, risvegliando la sua antica identità di estimatore del rock ‘n’ roll più viscerale. L’unione, però, non verrà ritenuta felice.
Se, infatti, Shel Talmy si dice soddisfatto di poter uscire dalla “noia” post-imprenditoriale ed extramusicale, di tutt’altra opinione è Rudi Protrudi, che anche a distanza di decenni vive la presenza del produttore come un’inaccettabile prevaricazione, come dichiarò nel 2011: “A dire il vero, “In Heat” per me è sempre stato un episodio debole, dal momento che è stato l’UNICO disco che abbiamo fatto non prodotto da me. Sono SEMPRE stato contro l’essere prodotti da qualcun altro, perché i Fuzztones sono e saranno sempre la MIA visione. Chi potrebbe sapere meglio di me come devono suonare? L’etichetta a cui eravamo legati al tempo (la Beggars Banquet) era una major (la RCA era il loro partner negli Stati Uniti) e loro pensavano che i nostri demo fossero buoni ma troppo “grezzi” per essere pubblicati, quindi volevano che andassimo in uno studio costoso con un produttore che avesse già alcune hit all’attivo. Tre degli altri Fuzztones furono immediatamente sedotti dalla promessa di fama, ricchezza e le altre trappole che le case discografiche usano sempre per fare in modo che l’artista si venda l’anima per un successo del quale beneficerà solo l’etichetta. Mike [Czekaj] e io non fummo affatto sedotti. Ma al tempo conducevo il gruppo come una democrazia e ai voti sono stato messo in minoranza. Jordan e John portarono Hunt Sales (all’epoca batterista di Iggy Pop) alle prove per sentirci. Ritenni che non ci capisse e continuammo la nostra ricerca. Jordan lesse da qualche parte che Shel Talmy, il “leggendario” produttore di Who e Kinks, stava considerando di uscire dalla pensione per la band giusta, e perciò decidemmo che eravamo la band giusta. Ero di mente aperta riguardo a lui, perché la vecchia roba degli Who ha certamente un gran suono. Presto realizzai che il ruolo di Shel in quei dischi fu probabilmente di essere fortunato abbastanza da avere un buon tecnico del suono. Non sapeva praticamente niente e, secondo me, il suo vero contributo fu di scegliere i migliori assoli di chitarra tra me e Jordan; cosa che fece senza pregiudizi, dato che era cieco.“. E la convinzione in tale giudizio tranchant spingerà Protrudi addirittura a pubblicare nel 2012 (per l’italiana Go Down Records) la versione originale del disco, poi rimasta un demo, eloquentemente intitolata “Raw Heat: The Real Sound Of In Heat”. Da allora il dibattito è aperto su quale sia la versione migliore del disco, e già questo la dice lunga sul giudizio che l’album deve tuttora affrontare. Ma torniamo indietro.
Dopo un lungo tira-e-molla tra gruppo, produttore ed etichetta, “In Heat”, anticipato nel 1988 dall’EP “Nine Months Later” (due originali e due riletture, rispettivamente dei Question Mark & The Mysterians e di Bo Diddley), che subito attrae perplessità ma alimenta la curiosità, uscì per la Beggars Banquet (ma in Inghilterra su Situation Two) nel 1989. Lo compongono dodici brani originali – evento decisamente raro in ambito garage revival, anche se si mormora che la Beggars Banquet avesse scartato alcune proposte di cover – che vennero accolti piuttosto freddamente dalla stampa e dal pubblico. Si parlò, infatti, di produzione troppo mainstream, lontana anni luce (o, semplicemente, troppo lontana) dal trattamento richiesto da quell’alacre eccitazione sonora che è il garage e comunque decisamente troppo “pulita” e “perfetta” per rendere la vibrante energia dei Fuzztones. Il gruppo, inoltre, venne accusato di avere indurito il proprio sound al solo fine di cavalcare l’onda commerciale dell’hard rock, al tempo all’apice delle classifiche, con conseguente ripudio dello zoccolo duro della scena garage. Restava solo il pubblico generalista del rock – al quale, va riconosciuto, Rudi Protrudi non ha mai puntato -, ma la peculiarità della proposta, anche nella versione più “addomesticata”, e gli scarni sforzi promozionali dell’etichetta (vennero girati video per la title-track e per Nine Months Later, entrambe poi pubblicate su un unico singolo, e anche Hurt On Hold conobbe una versione a 45 giri) affossarono le chance commerciali dell’album. Nonostante un tour che mise in luce la potenza della nuova formazione (in Europa i Fuzztones hanno sempre goduto di un diffuso e fanatico culto), i dissidi interni si acuirono e l’anno seguente, pubblicato l’EP “Action”, i ferri corti a cui erano Prodtrudi e Tarlow ebbero la meglio sul gruppo, che si sciolse di lì a poco, l’album “Braindrops” (1991), sterzata doorsiana abbondantemente fuori fuoco, un’uscita sostanzialmente postuma. Fino al ritorno a macchia di leopardo prima e stabilmente nel nuovo millennio, con una formazione rimaneggiata e l’immutata carica garage a riempire palchi e dischi.
Ma “In Heat”, come’è? Dico la mia: bello. Ottimo. Il migliore album dei Fuzztones, nientemeno. Ecco, la bomba è sganciata. Sarà perché l’hard rock fa parte del mio spettro di ascolti, ma mi pare che la vituperata produzione di Shel Talmy incrementi l’impatto sonoro del gruppo, anziché affossarlo: le chitarre sono un muro, la batteria pesta come mai ha fatto prima, l’organo congiunge i Sixties di Ray Manzarek con quelli di Jon Lord; il tutto senza pregiudicare l’identità stilistica della band. E la qualità delle canzoni sorregge l’intera opera, il che è ancor più meritorio se si considera che sono tutte autografe: In Heat scalcia e ulula sin dalla rullata iniziale, e avrebbe potuto essere la Highway Star del garage revival se solo il settarismo esasperato non fosse prevalso; Nine Months Later è un chiaroscuro di luci e ombre e luci imperniato su un ritornello probabilmente pensato per l’airplay radiofonico; Cheyenne Rider è rock-blues roboante come da titolo (curiosità: il motore all’inizio del brano è quello della Harley di Billy Idol! Racconta Rudi Protrudi: “Billy stava registrando ai Track Studios di Hollywood nello stesso periodo in cui noi eravamo là ad incidere “In Heat”. Passava ogni tanto a vedere cosa facevamo. La sua moto era parcheggiata fuori e ci serviva un effetto sonoro, perciò ce l’abbiamo buttata dentro“) e Everything You Got alza il tiro unendo le atmosfere oscure e malinconiche tipiche di certo garage con uno scoppiettante rock-blues a base di armonica; Black Box, unico brano in cui compare un coautore esterno al gruppo (si tratta di Leighton Koizumi, mesmerico leader dei garagisti Gravedigger V e The Morlocks), tira invece le tende per lasciare all’esterno qualsiasi raggio di luce, in un esperimento di macilento sound simil-sabbathiano (“garage-black”?) che avrebbe potuto risultare fecondo, se solo le schiere di revivalisti anni Sessanta avessero dimostrato coraggio pari al rigore; Charlotte’s Remain emana miasmi psichedelici insieme suflurei e lisergici. Nel mezzo qualche elemento coinvolgente (Me Tarzan, You Jane; Hurt On Hold) e qualche altro interlocutorio (It Came In The Mail; all’acustica il batterista Mike Czekaj; What You Don’t Know), per un risultato ampiamente positivo a livello di creatività e di coninvolgimento dell’ascoltatore, sol che si voglia ascoltarlo con orecchie libere e non barricadere. Peccato, tuttavia, per la copertina, malriuscita crasi di alto e basso, pecoreccio e sublime; chissà perché in tal caso la Beggars Banquet non si è imposta.
Come detto, “In Heat” non ebbe fortuna commerciale, schiacciato tra il niet dell’underground e l’indifferenza del mainstream, incentivata dalla limitata promozione da parte dell’etichetta. Eppure, al di là della qualità elevata dell’album, tra questi solchi si assiste ad un encomiabile e artisticamente riuscito – e quindi raro – tentativo, da parte di un gruppo, di rinnovarsi senza perdere la propria identità, e tanto basterebbe. Ma, allargando il campo di visuale, emerge un ulteriore merito di questo album: una possibilità. Con “In Heat” i Fuzztones, consci dell’impossibilità di replicare all’infinito in maniera pedissequa gli schemi del garage anni Sessanta, tentano nuove aperture sonore che consentano di mantenere l’identità del passato senza per questo divenire eurobori musicali (accorgimento del resto condiviso con i più illuminati gruppi della scena coeva: da “Overdose” (1987) i Miracle Workers sposano il Detroit sound, e sulla stessa linea li seguono i nostrani Sick Rose di “Shaking Street” (1989), per non fare che due esempi) e, forse unici, tentano un’apertura delle sonorità garage verso l’hard rock classico anni Settanta (con il quale, del resto, condividono il dualismo chitarra-tastiera nella costruzione dei brani e delle atmosfere), amplificando la propria vena macabra e giungendo quindi ad un’ipotesi sonora nuova, che potremmo battezzare hard-garage (petaloso, no?). Ipotesi che, però, nessuno, nemmeno gli stessi Fuzztones, si prenderà la briga di indagare e sottoporre a verifica, preferendo liquidarla come un cul de sac dettato da contingenze mercantili e temporali e dimenticarla quanto prima. Peccato, perché il rock ne avrebbe potuto beneficiare, perché ne sarebbe potuto venire, oltre che un grande album, anche qualcosa di nuovo. D’altronde, perché qualcosa di nuovo esca fuori, in calore è meglio.