
Ricavo da Wikipedia che Dave Grohl è nato il 14 gennaio 1969 e ha iniziato la sua carriera di musicista nel 1986, entrando come batterista negli Scream, gruppo hardcore di Washington. Saprete (o ricorderete) che a quei tempi la situazione tra le scene musicali era piuttosto polarizzata: i punk e i metallari non si mischiavano, se non in occasionali e limitati contesti, e all’interno dello stesso mondo metal vigeva il più stretto e intransigente settarismo. Pertanto, un batterista hardcore ben difficilmente poteva avere commerci con il metal senza essere immediatamente espulso dal gruppo ed emarginato dalla scena. A Dave Grohl, quindi, non deve essere dispiaciuto accettare le regole del gioco, visto che è rimasto negli Scream fino al 1990, anno del loro scioglimento, per poi passare ad un altro gruppo ben noto, che non faceva mistero di volersi tenere il più distante possibile dal mondo metal (emblematiche alcune dichiarazioni di Novoselic all’indomani del successo di “Nevermind”: “Noi siamo heavy ma non siamo heavy metal. L’heavy metal manca completamente dell’intuito più profondo delle cose.“; cito a memoria). Le cose, poi, sono andate come sappiamo: il successo, il suicidio, la carriera solista a nome Foo Fighters, l’ulteriore successo, le collaborazioni con everybody and their mother, i progetti paralleli.
Nel corso degli anni la posizione del nostro poliedrico artista verso il metal si è progressivamente ammorbidita, mediante pubbliche attestazioni di stima per il genere e i colleghi di area, nonché collaborazioni con alcuni dei suoi musicisti più eminenti (vedasi il progetto Probot, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Lemmy, Cronos e Max Cavalera).
E veniamo al dunque. Il 25 febbraio scorso è uscito nelle sale cinematografiche d’America “Studio 666”, sorta di commedia horror su un gruppo che va a registrare il suo nuovo album in una villa di Los Angeles posseduta da maligne entità soprannaturali, che progressivamente si impossessano dei membri del gruppo facendo commettere loro sanguinosi delitti. Un filmetto anche godibile sulla falsariga degli “heavy metal horror movies” degli anni ’80 come “Black Roses” o “Rock ‘n’ Roll Nightmare” e che non avrebbe fatto molto parlare di sé se non ci fosse stato il nome di Grohl a suscitare il clamore mediatico e la conseguente attenzione del pubblico: la sceneggiatura è tratta da un suo racconto e il gruppo protagonista sono i Foo Fighters, alla loro prima uscita attoriale (che per il batterista Taylor Hawkins sarà anche l’ultima). Naturalmente, per mantenere l’effetto horror-comico, occorre marcare la differenza tra la musica suonata dal gruppo in versione “naturale” e quella prodotta in assetto demoniaco, e dunque quale migliore forma espressiva del metal per dare conto della possessione diabolica? Tutto torna, quindi. Senonché poi Grohl ci prende gusto, decide che lo scherzo non è durato abbastanza e annuncia che per l’occasione i Foo Fighters incideranno un album metal sotto pseudonimo. Detto, fatto: il 25 marzo è uscito l’omonimo disco dei Dream Widow. Che emana una gran puzza di merda.
Dal nome del gruppo, evidente canzonatura in chiave d’arguzia di Dream Evil (storico album dei Dio, vabbè, oltre che gruppo heavy metal svedese, della cui esistenza dubito Grohl avesse/abbia contezza; che roba, contezza!), al logo stile Deicide in sedicesimo, all’illustrazione di copertina, che scimmiotta il pentacolo con una Stella di Davide come disegnata da Escher per essere sixsixsix senza incorrere nell’ostracismo dell’odierno PMRC diffuso, ai titoli delle canzoni, che transitano dall’asettico perplimente (Encino, Cold) al sagace calembour del Male (Oh Come All You Unfaithful) fino al satanismo da discount (cit.) (The Sweet Abyss, Angel With Severed Wings), tutto sa di sbagliato. E non siamo ancora arrivati alla musica. Che ovviamente è un’accozzaglia di suoni ritriti che cerca di porgere il metal per grandi e piccini con piglio deadpan e, non conoscendo la materia, erige un edificio diroccato. Non funziona nulla: il poutpourri di death americano di ieri e di oggi (Encino), lo sludge suonato senza coglioni (Cold, Come All Ye Unfaithful), l’immancabile tupa tupa da thrasher ingrigiti cultuando ai Motörhead (March Of The Insane, il pezzo migliore del lotto, ed è tutto dire), i chiaroscuri goticisti con un trentennio sulle spalle (The Sweet Abyss, Angel With Severed Wings), le avventure infernali sopra i sei minuti (Becoming, titolo che richiama i Pantera senza però esibire un grammo della loro attitudine) e l’immancabile coda strumentale di dieci minuti con titolo in latino sgrammaticato, che pretende di olezzare di zolfo sabbathiano quando, invece, esala al più i miasmi derivanti da una digestione malriuscita. Nemmeno la prestazione strumentale si eleva dalla mediocrità, visto che i riff sono mediamente due per brano e non se ne ricorda uno e gli assoli sembrano quelli di un tredicenne che ha appena scoperto come si usa la leva (del ponte della chitarra), superando in imperizia persino quelli disseminati dagli Anvil in quarant’anni di carriera o quelli su “Burning The Witches” degli Warlock, per un risultato curiosamente simile al debutto, magari in forma di demo, di un gruppetto esordiente di adolescenti; al quale, però, non verrebbero risparmiate stroncature, mentre invece per una rockstar ultracinquantenne che di metal non ha mai capito una beneamata, soprattutto che si può scherzare sul metal ma non col metal, fioccheranno i cenni di approvazione, alcuni anche convinti. Ecco, allora diciamo le cose come stanno: la Vedova del Sogno farebbe bene a raggiungere quanto prima il suo compianto sognatore.
Non è questione di non saper ridere del metal e dei suoi luoghi comuni, ma del fatto che per satirizzare occorre conoscere funditus l’oggetto degli strali, e Grohl non ne sa niente, se non che ci vuole una chitarra distorta, dei riff più o meno veloci e più o meno dissonanti, una batteria potente e articolata e una voce urlata da cookie monster o da Freddie Krueger. E, anche a conoscere la materia musicale su cui si vuole ironizzare, occorre prestare comunque attenzione, perché un conto è uno stile musicale dal punto di vista sonoro e un altro la sua estetica, ed è il motivo per cui “This Is Spinäl Täp” fa e continua a far ridere, mentre invece il gruppo Spinäl Täp sta bene dove sta, e cioè ovunque tranne che sul palco o in sala di incisione. Ecco, ascoltando il disco si ha la piena impressione che Grohl (e compagni, d’altronde; nessuno dei quali, a quanto mi consta, ha esperienze in ambito metal) non abbia afferrato questo semplice concetto, rendendo questo disco persino nocivo e riuscendo nella non facile impresa di dare dignità al progetto Foxboro Hottubs, spinoff garage dei Green Day dal livello artistico alquanto basso, ma che almeno aveva il pregio della comprensione dello stile da rileggere (là in chiave celebrativa anziché canzonatoria). Il nulla cosmico, sia musicalmente che concettualmente. D’altronde, non ha funzionato nel 2004 con i Probot e fior fiore di musicisti metal, perché avrebbe dovuto funzionare ora?
Mi dispiace, Dave. It must go to 11.
Che piacere ritrovarti con qualcosa di nuovo! Gran bella recensione, stroncatura con le argomentazioni ma pure l’ironia che ci vuole quando si demolisce un disco. Del film non so perché ma non sapevo nulla, quello quasi quasi lo recupero.
D’accordissimo con la tua analisi sulla divisione “a squadre” tra scene musicali, che un po’ (sarà nostalgia dell’adolescenza) rimpiango ora che sono diventato più saggio ed ecumenico e ascolto un po’ di tutto. Se il me stesso diciassettenne avesse saputo che un giorno, ben oltre i 30, avrei comprato un CD degli Slayer mi avrebbe rottenianamente sputazzato in bocca
Grazie Alfonso. Con l’età diventiamo più malleabili, o forse non abbiamo più tempo per essere intransigenti, quantomeno sulla musica. Magari persino più intelligenti, chissà.