E a ciel sereno erutta la notizia che il più grande chitarrista rock degli ultimi quarant’anni se ne è andato all’improvviso, portato via dal tumore alla gola che lo aveva colpito ormai vent’anni fa, che lo aveva costretto alla spola tra gli Stati Uniti e la Germania.
L’uomo del tapping, del dive bomb e del brown sound, l’uomo senza cui le chitarre elettriche non avrebbero la stessa forma e le stesse caratteristiche tecniche e costruttive, il guitar hero per eccellenza, non c’è più.
Sull’individuo e il suo carattere si è scritto molto; sul musicista anche di più. Ma in un caso come questo è doveroso celebrarne le glorie, anziché soffermarsi sulle miserie, e dunque ricordare e ricordarsi che con questo olandese di California se ne va uno dei giganti, dal punto di vista sia strumentale che compositivo, dello strumento principe del rock, e che senza di lui lo scenario musicale sarebbe molto, molto diverso; non esisterebbe il metal come lo conosciamo, ad esempio, e nemmeno Beat It passerebbe alla radio con la stessa frequenza. Ma intanto Edward Lodewijk Van Halen, il demonio col sorriso a trentadue denti, l’uomo che può far suonare una chitarra come il rombo di una motocicletta o il nitrito di un cavallo, non c’è più. Senza nemmeno un disco solista.
Addio, Maestro.
Grazie del bel saluto a uno dei pochi artisti “metal” (virgolette a piacere) che ho continuato ad amare senza riserve anche nel periodo fondamentalista in cui schifavo a prescindere il genere.
Grazie a te, come sempre.