Ha dell’incredibile quanto poco si parli di questo disco rispetto alla sua qualità, anche in relazione al fatto che non si tratta di una gemma nascosta, di scarsa tiratura e avara reperibilità, bensì di una celebrata opera di culto, oggetto di molteplici ristampe anche recenti. E tuttavia sul primo e unico album dei La’s continua perlopiù a sussistere un silenzio diffuso, interrotto solo dagli occasionali peana degli addetti ai lavori o di fan sfegatati. A opere del genere, ammetto, mi sono sempre accostato con scetticismo, vuoi per una innata diffidenza verso il parere critico istituzionalizzato, vuoi per una perplessità circa la posizione di alternativo a prescindere che i fan di tali gruppi spesso pretendono di ricoprire. Ma un ascolto ponderato di “The La’s” mi ha convinto della bontà di tali posizioni, e dunque passo a illustrare le ragioni per cui questo disco può migliorare la vita di chi lo faccia proprio, anche solo auralmente.
I La’s (contrazione di lads, “ragazzi” nel gergo britannico) nascono nel 1984 a, guarda caso, Liverpool. A capitanarli c’è il chitarrista e cantante Lee Mavers, che raccoglie intorno a sé il bassista John Power, il chitarrista Paul Hemmings e il batterista John Timson. La formazione cambierà più volte nel corso degli anni, mantenendo sempre il nucleo centrale di Mavers e Power, e sarà solo quando il secondo deciderà di gettare la spugna, nel 1991, che il gruppo verrà inghiottito dal gorgo della storia del pop per trasmodare nel quieto e spesso ingrato club delle formazioni di culto. Curioso, per un pop rock perfetto, fin troppo perfetto, nesso diretto e ineludibile tra i Beatles e ciò che verrà acclamato come Brit Pop. Non ci credete? Ascoltate e giudicate.
There She Goes è una delle canzoni pop definitive, le chitarre jingle jangle a rilegare una melodia vocale insidiosissima e inamovibile fin dalla sua prima apparizione aurale; per Timeless Melody, beh, parla il titolo, e comunque non siamo poi tanto distanti, solo con qualche tocco di Beatles in più e di Byrds in meno, come sancisce il ritornello che non sarebbe strano trovare in “Beatles For Sale”; I Can’t Sleep Tonight richiama certe ispidezze kinksiane che hanno condotto al garage, senza per questo dimenticare cori vischiosi e insidiosità ritmica, e si può dire che batte i più celebrati Hoodoo Gurus al loro stesso gioco; Liberty Ship mette insieme gli Scarafaggi, Eddie Cochran, i Fleetwood Mac di Oh, Well e forse anche Donovan in un salterino quadretto acustico, e lo stesso fa Doledrum, aggiungendovi giusto uno shottino di blues. Una maraviglia via l’altra, e non piccola parte di tale stupore è dato dal susseguirsi costante di canzoni di alto livello, che catturano l’orecchio e anche il corpo, episodi di un paio di minuti scarsi giù fino alla conclusiva Looking Glass, quasi otto minuti psichedelici di foggia barrettiana eppure sempre concentrati nel colpire l’ascoltatore, e state sicuri che i Temples ucciderebbero per un pezzo così.
C’è da chiedersi perché un disco di tal fatta non abbia avuto i riscontri che meritava. È presto detto, auspice l’album dei Lino e i Mistoterital citato nel titolo dell’articolo: il demo di debutto e i primi due singoli fecero sobbalzare le riviste e la BBC, ma Lee Mavers, autore di tutti i brani e maitre a penser del gruppo, non riteneva le incisioni, pure eseguite ripetutamente e con enorme accuratezza nell’arco di anni, di qualità sufficiente per essere pubblicate. L’etichetta indipendente Go! Discs, che aveva messo sotto contratto il gruppo dopo il notevole fermento generato dal passaparola e che aveva pubblicato la sua prima prova a 45 giri, pretendeva un prodotto da spedire sul mercato, e dunque impose al gruppo il produttore Steve Lillywhite (che al tempo aveva già lavorato, tra gli altri, con Ultravox!, Johnny Thunders, XTC, Psychedelic Furs, Simple Minds, Peter Gabriel, Rolling Stones e soprattutto U2), che cercò di finire il lavoro già iniziato (There She Goes era già stata registrata con la produzione di Bob Hogdson per l’omonimo 45 giri) assecondando le esigenze di purezza e immediatezza dell’impatto sonoro avanzate dal perfezionista Mavers, arrivando persino a ritappezzare interamente le pareti dello studio di incisione e a foderare la cabina della batteria con lastre di pietra pur di ottenere il suono desiderato. Nonostante gli sforzi e le prolungate sessioni di registrazione, quando, a quasi tre anni di distanza dall’inizio delle operazioni, le dodici canzoni previste per l’album furono completate, Mavers si disse insoddisfatto del risultato e pretese di riregistrare daccapo tutti i brani. L’etichetta, comprensibilmente, si rifiutò e, dopo aver imposto al produttore di consegnare i nastri, li pubblicò con il titolo “The La’s” nel 1990, nonostante le accorate proteste e i tentativi di blocco del leader del gruppo, non prima di aver dato a una simile meraviglia sonora una copertina altrettanto splendida, nella forma di una fotografia in bianco e nero di un occhio femminile scattata da Russell Young. E se i peana al disco furono ubiqui, il gruppo non ne seppe beneficiare, partendo per un mini tour promozionale interrotto a dicembre del 1991, quando il bassista John Powers, unico membro presente fin dagli esordi e sostegno di bilanciamento al delirio iperperfezionistico di Mavers, lasciò improvvisamente il gruppo. Che da allora giace congelato, non essendosi mai formalmente sciolto ma nemmeno mai riformato stabilmente, con il talentuoso leader rimasto vittima di se stesso e della sua immaginazione musicale tanto fervida quanto paralizzante.
Se ne ricava che il genio può anche essere una condanna: saper scrivere canzoni pop perfette non è sufficiente, se non si sa come portarle alla dimensione loro congeniale, ossia una fruizione quanto più possibile popular, e per farlo occorre una sufficiente dose di spregiudicatezza, nonché l’abilità di saper immaginare la resa del brano e procedere alla realizzazione dell’incisione in un tempo ragionevole rispetto all’ideazione compositiva e comunque in linea con le esigenze mercantili della musica, che è pop proprio perché deve essere venduta (e viceversa, beninteso). La vicenda La’s, quindi, consegna agli annali un monito per qualunque velleità di creazione, artistica ma non solo: per quanto accurata possa essere l’ideazione e rifinita l’idea, ad un certo punto bisogna concludere il processo creativo e pubblicare l’opera, pena l’irrilevanza. O anche solo il miglior album di pop inglese tra “Rubber Soul” e “What’s The Story (Morning Glory)”.
Una faticaccia, non c’è che dire.