Aveva ragione Son House buonanima: null’altro è il blues se non un freddo che duole laggiù nel profondo, e beato te se non l’hai mai avuto. Perché, quando ti coglie, hai voglia a mandarlo via, e non sempre il rimedio che funziona una volta si rivela efficace anche quella dopo.
Ieri era una di quelle giornate in cui inopinatamente insorge quella sensazione, e allora le ho provate tutte: cibo buono, compagnia giusta, musica celestiale (i dodici concerti grossi dell’opera 6 di Corelli eseguiti dall’English Concert sotto la direzione di Trevor Pinnock; esperienza, l’ascolto, poco meno che ineffabile) o sagace (“Soul Station” e “Roll Call” di Hank Mobley; melodie irresistibili del sassofono più misconosciuto dell’hard bop acclimatate al magistrale understatement pianistico di Wynton Kelly e, soprattutto, sospinte dal sopraffino drive ritmico di quel gigante che risponde al nome di Art Blakey) o nuova (“40” degli Stray Cats, il loro primo album di inediti da venticinque anni, appena uscito e per il quale vale lo stesso discorso fatto per gli Whitesnake). Ma niente, non funziona nulla stavolta, e quindi mi trascino sotto il cielo livido, sperando che prima o poi passi da sé, come solitamente avviene quando nemmeno i conforti sonori leniscono l’assetto saturnino. Finché, all’improvviso, qualcosa succede, qualcosa che riporta il sorriso, incerto e filiforme eppur sempre tale. Una scoperta, l’ennesima serendipity che volta per volta ci spinge, nostro malgrado, a sopportare molto, a tratti persino troppo.
Planet 3 significa che sono coinvolte tre persone. Nel caso di specie, non tre qualunque, ma Jay Graydon, Glen Ballard e Clif Magness. Il primo è stato tra i primi teorici del rock radiofonico sin dalla fine degli anni Settanta, con i (ogni tanto è aggettivo appropriato) seminali Airplay e soprattutto in fase compositiva (assieme a David Foster) e in studio, quale chitarrista, e per scoprire come dietro a molto di ciò che nei decenni è stato prodotto ai livelli di massima professionalità discografica ci sia il nostro uomo vi rimando ai soliti siti compilativo-enciclopedici. Il secondo è uno dei massimi autori di canzoni per conto terzi, e anche qui è meglio una cursoria ricerca telematica che un’elencazione sterile e inevitabilmente incompleta. Il terzo, il meno noto dei tre, è turnista chitarristico di lusso e autore in proprio di una gemma minore dell’AOR anni Novanta, quel “Solo” (1994) che sapeva unire la maggiore sobrietà richiesta dalla nuova decade alla potenza lussureggiante del suono rock pensato con in mente solo o quasi la fruizione radiofonica. Eminenze grigie, insomma.
Il giro dei professionisti del settore, tutti o quasi gravitanti su Los Angeles, è talmente ristretto che diventa in un certo senso inevitabile incontrarsi e, a volte, piacersi e decidere di collaborare. La solita storia tra umani, insomma. E quindi dall’incontro tra Graydon, Ballard e Magness, a inizio anni Novanta, nascono i Planet 3, progetto di studio con giusto un paio di uscite concertistiche nella zona di residenza, che nel 1991 debuttano con dieci canzoni scritte, suonate, registrate e prodotte in proprio. Naturalmente gli Stati Uniti di inizio anni Novanta sono un contesto non semplicissimo per commercializzare la proposta melodica e ariosa dei tre, e quindi non stupisce sapere che il loro debutto esce innanzitutto in Giappone a nome “A Heart From The Big Machine”, e forse qualcosa sulla valentia della formazione (o sugli agganci dei suoi componenti all’interno dell’industria, fate voi) lo dice il fatto che rechi il marchio della Columbia. Del resto, l’una o l’altra impressione resta confermata dal fatto che la stessa Columbia faccia uscire il disco l’anno seguente in Svezia, stavolta a nome “Music From The Planet” e con la conclusiva I Will Be Loving You sostituita da Ever After Love. Tracklist mantenuta anche nelle successive stampe tedesca (su Beverly Records, 1994) e americana (su Sonic Thrust, 2002), e che, nonostante il tempismo storico non perfetto, il disco abbia avuto qualche riscontro, sia pure di culto, sembra potersi sostenere in base alla scelta della Aor Heaven di ristamparlo, sempre nella versione europea, nel 2011.
Perché tanto interesse per un disco obiettivamente minore, nato con intenti smaccatamente commerciali ma sin da subito o quasi predestinato al quieto alveo del cult e come tale insinuatosi nelle orecchie e nei cuori di un manipolo non numeroso di appassionati? Dopotutto, i suoni sono irrimediabilmente datati, costruiti su batterie sintetiche o poco meno e tastiere dai suoni temporalmente ben circoscritti (anche se nella popular music mai dire mai), e non si vede chi potrebbe volersi giovare di un album del genere, che peraltro si colloca al di fuori di ogni schema mercantile attualmente e da ormai un ventennio praticato per l’AOR, ossia quello di alzare volumi e distorsioni per venderlo al pubblico dell’hard rock e/o ai nostalgici del Sunset Strip anni Ottanta, stante che qui predominano le stratificazioni vocali, i ritmi medio-lenti, la misuratezza chitarristica e l’ossessivo cesello melodico tipici della frangia West Coast dell’AOR, oggi praticamente rimossa dalla memoria collettiva degli ascoltatori. Perché, dunque? Per la sua qualità.
“Music From The Earth”, o come si ritiene di chiamarlo, è un disco di qualità, fatto da chi di musica pop e rock (“musica” intesa in senso ampio, e dunque come composizione, arrangiamento, esecuzione, produzione, registrazione, missaggio) se ne intende, perché è ciò che fa di mestiere da decenni e ai massimi livelli. Musica da professionisti del coinvolgimento pensata per chi, inizialmente conquistato dalla maestria melodica, non disdegni di soffermarsi sugli aspetti non immediati dei brani e di gioire del talento dispiegato. Sarà poco, patetico o farisaico, non sarà rock ‘n’ roll, ma è molto (mi pare molto, quantomeno) in questi tempi di Auto-Tune e Pro-Tools. Perché, poche ciance, ormai sappiamo bene che la tecnologia non è mai neutra. È, questa, musica sfigata, in ogni senso, ma che, forte della sostanza che ne sorregge la creazione, sa prendersi le sue rivincite; potremmo dire che è musica nerd, se il termine non fosse, oggi, ormai completamente compromesso.
E così Born To Love conquista con un ritornello alla Tim Feehan, From The Beginning è un distillato di solarità californiana e ad ogni ascolto la power ballad Insincere (unico tra i brani ad essere stato registrato dal vivo) suscita interrogativi sul perché non sia un classico ad oggi riconosciuto, al pari di una Always o di una I Don’t Want To Miss A Thing. Il prosieguo cala un po’ in qualità, pur restando di spessore, salvo rialzarsi in esito con il brillante synth-pop di Modern Girl. Da saltare, però, Ever After Love, aggiunta posticcia della stampa europea e probabilmente motivata dall’esigenza di arrivare a un minutaggio sufficiente a giustificare un’uscita in CD, e nemmeno paragonabile al livello di ciò che la precede, mentre confesso di non avere ascoltato né la “giapponese” I Will Be Loving You né la Dreamers che la AOR Heaven ha ritenuto di porre a fondo scaletta nella ristampa del 2011 dell’album. Che, con qualsiasi tracklist, resta fonte di sorriso assicurato; con la claims made, beninteso: denuncia in vigenza di contratto per danni prodottisi in vigenza di contratto. Altrimenti inculati, e scegliete voi su quale vocale mettere l’accento, ché tanto è noto chi vince e chi perde, sorriso o meno.
Ah, ci sarebbe “Gems Unearthed”, raccolta di demo di quelle stesse sessioni pubblicata da Graydon nel 2004, ma tornerà buono per un’altra giornata dal cielo blues. Nel frattempo sul mio piatto da ieri sera gira già “Pampered Menial”; è proprio vero che Insincere avrebbe dovuto essere una hit.