De te fabula narratur. La crisi in due canzoni.

Tempo fa ero a Bassano del Grappa per una visita allo storico Pick-up Records e alla fiera del fumetto e del disco che proprio quel giorno si teneva in città (paese?). Dentro la fiera ho vagato senza meta, soffermandomi, curioso e silenzioso, ad osservare gli stand stipati di dischi, in cerca, come sempre, dell’occasione della vita. Uno di questi banchi era tenuto da un verace toscanaccio, che, vedendomi intento all’osservazione (nel frattempo mi aveva raggiunto un amico, che si era subito messo in caccia di titoli ghiotti), osservava con spiritosa e gradevole calata come i veneti fossero pensierosi e diffidenti, avendo egli faticato non poco per entrare nelle grazie di alcuni di essi, divenuti in seguito i suoi migliori clienti (con tanto di esibizione delle cifre incassate quel giorno da ognuno di essi). “Eppure – aggiungeva – qui siete messi bene, ci sono i soldi. Da noi è un disastro, tutti i negozi chiudono. Le città sono vuote.

Sollevando la testa dai dischi per ascoltare quelle parole, mi sovveniva che, al netto degli stereotipi – i quali nondimeno contengono un nocciolo di verità – sul ricco Nord-Est, anche in questa area d’Italia le cose economiche non fervono più come un tempo. E se dilapidare una corposa eredità industriale richiede sicuramente tempo, un tempo che a realtà meno floride non è concesso, tuttavia proprio in ragione del pregresso benessere il tonfo è più ingente. Lasciata la sede espositiva senza peraltro acquisto alcuno, quasi a rinsaldare l’opinione del venditore circa la diffidenza di quelli “di Brenta e di Piava”, riflettevo che nemmeno da queste parti le cose vanno alla grande; che anche qui i negozi dei centri cittadini restano desolantemente vuoti e bui, il cartello “AFFITTASI” una gogna più che un’opportunità; che qui più che altrove i centri commerciali stringono d’assedio le città in una cintura periurbana di cemento e dumping, soffocandone la vita e l’economia con malcelate ambizioni di sostituire la funzione interattiva degli spazi pubblici; che, proprio per lo sviluppo economico impetuoso e sostanzialmente ingovernato che ha interessato quest’area, lo sfarinamento del tessuto sociale si qui è consumato con maggiore intensità.

E quindi, constatando amaramente come la mia esperienza quotidiana consenta osservazioni di tale natura, mi sovviene altresì l’esistenza di un paio di canzoni, a me molto care, che questi temi trattano in maniera toccante e profonda, tracciando quadri lucidi su tele liriche di emotività arduamente sostenibile: Little Man di Alan Jackson e Our Town di James Taylor. Diverse per stile musicale (la prima un country mainstream onesto e ruffiano insieme, la seconda folk-pop cantautorale e sobrio, pienamente inserito nella colonna sonora cui accede) e, parzialmente, per tematiche, ma permeate da un’identica sensibilità malinconica per l’irreversibile modificarsi della città (in ambo i casi la piccola città della provincia americana, ma il discorso ha valenza generale), nella sua duplice veste di agglomerato di edifici e infrastrutture e di trama di relazioni interpersonali tra individui che dividono un medesimo ambiente, sotto il maglio implacabile dell’imperativo economico. Lo fanno affrontando la questione da due punti di vista diversi: più consapevole e “americano” il brano di Jackson, che osserva come la grande distribuzione uccida il family business, il “piccolo uomo” che gestendo la sua attività ha per decenni animato la vita socio-economica di una comunità e ora si trova messo fuori mercato e deprivato di tutto da colossi che hanno in mente solo il fatturato e i numeri, siano essi merci o dipendenti; più “romantica” e ammantata di nostalgia la canzone di Taylor, che riguarda con gli occhi degli indigeni atavici il decadimento della cittadina da loro stessi fondata, ripercorrendone l’evoluzione con un sospiro e cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno anche dove il potabile rimasto si misura in stille, chiudendosi quindi in auspici fatalisti che rispecchiano impotenza mite e rassegnata. Entrambe, però, strappano lacrime; di quelle vere e brucianti, che sgorgano perché il brano tocca corde profonde dell’esperienza di vita di chi lo ascolta. Qualcuno dirà che è perché i suoni sono ruffiani e melensi, pensati appositamente per commuovere i rammolliti. Forse è così. O forse i suoni costituiscono solo la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso, un vaso già colmato all’orlo da una quotidiana immersione nella desolazione socio-economico-culturale a cui ambo le canzoni fanno riferimento. Chissà.

Forse esagero, perché, dopotutto, i siti archeologici di tutto il mondo sono pieni di centri urbani decaduti da vette più o meno elevate (faccio i primi due nomi che mi passano per la testa: Efeso e Angkor; ma anche luoghi ancora abitati possono classificarsi “diversamente vivi”). Però Little Man e Our Town rimandano, mi pare, un fenomeno che è precipuamente del nostro tempo (e soprattutto del nostro spazio, che è quello di un Paese sospeso tra molti passati ingombranti e un presente quantomeno interlocutorio), in cui la tendenza irrefrenabile alla smaterializzazione e all’incorporeità travolge con apparente noncuranza, e persino con fastidio, le vestigia di quanto è stato, in primis lo spazio urbano e le sue usuali dinamiche.

Esagero, senza dubbio. Però siate pazienti: aiutatemi. Dimostratemi che mi sbaglio. Perché Alan Jackson e James Taylor non ci riescono.

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2 thoughts on “De te fabula narratur. La crisi in due canzoni.

  1. smaterializzazione ed incorporeità da sole sarebbero meglio della pervasiva, successiva, invasione materialissima di megabrutture estranee ad ogni reale esigenza urbanistica. Elefantiaci mostri di cemento e metallo, claustrofobici, identici in ogni luogo del mondo, sostituiscono l’identità dell’antropizzazione autoctona, appiattendo la nostra vita ed obbligandola negli spazi dominanti della ripetitiva architettura mercantile.
    Nonostante ciò, purtroppo hai ragione, Orgio…

    • Vero. E paradossalmente siamo vittime di entrambe le tendenze, alla smaterializzazione dell’acquis socio-economico-culturale e all’edificazione selvaggia in vista del, e prona sul, consumismo compulsivo.
      Bellissimo il tuo periodare, per inciso.

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